La terra, la patria, la cultura: cioè la nazione

patriaCSEO documentazione n.184
novembre-dicembre 1983

Janusz Ziólkowski

Riproduciamo il testo di un intervento dell’Autore a un seminario sul tema «Volti dell’odierna emigrazione polacca» svoltosi a Poznan nel febbraio 1983. Il suo contenuto aiuta la comprensione dell’originale esperienza nazionale polacca, ma nello stesso tempo permette di cogliere i valori universali, validi per ogni popolo e cultura, da essa espressi. L’articolo è apparso sul n. 7 (119) della rivista «W drodze» (In strada) del giugno 1983.

La nazione, insieme alla polis, la civitas, la metropoli e la regione è una collettività territoriale, un «complesso di persone che abitano un territorio comune e a tale fatto debbono in certo modo il loro vincolo sociale» (Stanislaw Ossowski).

È la nazione che definisce la forma dei confini. Al di là della nazione si parla già di regione mondiale, di continente, di globo terrestre. Si pone allora, e giustamente, una domanda, se cioè si possa parlare di una società, di un gruppo di persone che abitano un territorio comune, creano un vincolo sociale, abitudini usanze comuni, una tradizione comune e il senso di un’appartenenza comune.

L’importanza della dimensione spaziale per l’esistenza di una nazione è evidente. La dimensione spaziale è quella cornice sempre presente entro la quale vive e si sviluppa un gruppo che possiede caratteristiche culturali specifiche comuni, una vitalità e un’autoconoscenza durature, un gruppo che è capace di uno sforzo organico e prolungato per realizzare compiti comuni assunti spontaneamente, come la difesa e il consolidamento dell’identità, la creazione o la riedificazione di quell’organizzazione politica che è chiamata stato. Ed è appunto il compito fondamentale di uno stato la difesa della sovranità nazionale il cui elemento essenziale è l’integrità territoriale.

Nota bene: lo stato come gruppo la cui organizzazione si concentra nell’istituzione del potere costituisce un gruppo per eccellenza territoriale, infatti l’abitare in un determinato territorio costituisce il fondamento dell’appartenenza ad esso; nella sua delimitazione e suddivisione esso poggia su basi territoriali e il territorio ne è il valore collettivo supremo, lo strumento materiale principale del suo funzionamento.

Ma il territorio nazionale è qualcosa di ben più importante di una mera cornice dell’esistenza, di una dimora, di un ambiente abitativo, di un’arena della vita sociale. La terra in cui un gruppo nazionale vive e che esso domina o — nello spirito della teologia nazionale e basandosi sui diritti del passato — dovrebbe dominare, è un elemento indispensabile della coscienza, del vincolo di gruppo; è un valore socio-culturale.

«Un vincolo misterioso — dice Stanislaw Ossowski — tra la collettività e il territorio ad essa sottoposto che risale al primitivo gruppo territoriale».Tale vincolo si manifesta naturalmente nell’attaccamento alla terra in cui s’è svolta la storia della collettività e che le ceneri degli antenati hanno santificato, la terra che si legittima con l’esistenza di centri di raccoglimento spaziale: santuari, luoghi di culto, di pellegrinaggio.

Questa terra con i suoi paesaggi, con i suoi colli boscosi e prati verdeggianti a cui «l’anima colma di nostalgia» riportava il poeta, questa terra edificata in un modo particolare specifico di questa nazione, coltivata, abbellita, satura d’oggetti d’arte, d’architettura, è il valore materiale principale della nazione. È essa che suscita i sentimenti più intensi, che acquista carattere di santità, come l’acquista per il contadino polacco che si prepara ad emigrare un pugno di terra patria.

L’elemento della territorialità lo ritroviamo anche nella nozione di patria. La «patria», come indica l’etimologia di questa parola, è la terra dei padri, degli antenati, la terra con cui i nostri antenati ci hanno trasmesso un vincolo. Sinonimo di patria così intesa è il paese natìo, la terra natìa. La terra natale. La terra natale è la terra in cui siamo venuti al mondo. Essa si collega etimologicamente alla nozione della famiglia e della stirpe. Noi cantiamo: «Non lasceremo la terra della nostra stirpe». Pensando alla terra natale la associamo alle generazioni passate e al luogo della nascita.

La qualificazione di un territorio come patria implica due tipi di rapporto. Si può trattare in primo luogo di un rapporto personale diretto. L’attaccamento a un ambito in cui si è passata tutta o in notevole parte la vita, o almeno un periodo particolarmente adatto al crearsi di stabili vincoli emotivi, soprattutto cioè l’infanzia. Il territorio di cui qui si tratta è stato chiamato da Ossowski patria privata (in tedesco c’è un termine particolarmente calzante: Heimaf) contrapponendola al territorio più esteso della patria ideologica.

«Il rapporto con la patria ideologica non si basa su esperienze dirette dell’individuo rispetto al territorio patrio, né su abitudini create da tali esperienze, bensì su certe convinzioni: la convinzione dell’individuo riguardo alla sua partecipazione ad una certa collettività, la convinzione secondo cui è questa la collettività territoriale connessa proprio a quel territorio.

La mia patria in questo senso ideologico è la terra della mia nazione. La sostanza del mio legame con questa terra, legame in virtù del quale uso riferendomi ad essa il pronome possessivo «mia», è l’essere parte di una comunità nazionale. Tale partecipazione costituisce la condizione necessaria e sufficien­te» (Stanislaw Ossowski). La patria privata è diversa per i diversi membri della nazione, e il suo raggio può essere più o meno ampio. La patria ideologica è la medesima per tutti perché è integralmente sottoposta alla nazione nel suo insieme.

Ciò avviene persino per i figli degli emigrati che mai hanno visto la terra dei loro padri. Il patriota in terra straniera non è nato in patria, abbraccia col suo sentimento tutto il territorio della patria ideologica e non solo la patria privata dei genitori o degli antenati. Diversamente da quanto spesso avviene grazie ad un vincolo che lega gli emigrati alla loro patria privata.

Per il contadino polacco che migra in America per procurarsi il pane, per quanto ignorante egli sia, oppresso, privo di una piena coscienza nazionale, la patria era la terra dei padri, la terra a cui i padri erano legati dalla nascita e da una lunga catena di vicissitudini. Questa tradizione famigliare è per molti figli o nipoti di emigrati polacchi forse il tratto d’unione più importante con il «vecchio paese», con la terra mai vista.

Spesso però avviene anche che proprio la seconda o terza generazione di emigrati, educata, ormai in alto sulla scala sociale del paese prescelto, comprenda nel suo orizzonte tutta la terra patria, tutta la patria ideologica.

Torniamo a questo punto alla questione del luogo di nascita come fattore determinante della patria privata e ideologica. Il fatto stesso di nascere in una data località non predetermina naturalmente la formazione di disposizioni psichiche che vincolano l’individuo alla patria privata. Perché questo avvenga occorrono molti anni passati nel luogo dove si è venuti al mondo (o nelle sue vicinanze), il periodo dell’infanzia o un periodo della vita più lungo.

Ma spesso ciò comporta soltanto — come succedeva in Polonia anche prima del 1939 — che qualcuno dice di sé che è «del luogo», vale a dire che abbia solo una patria privata e non possieda il senso di appartenenza alla collettività nazionale, non identifichi il suo destino privato con quello della patria ideologica. D’altra parte, il patriottismo personale connesso al luogo di nascita, pur non assegnando all’individuo una patria ideologica, crea le condizioni favorevoli a ciò.

Nelle persone dotate di piena coscienza nazionale, con tutto l’attaccamento al paese natale, anche se ciò assume la forma di un regionalismo inteso come coscienza collettiva, ideologia o movimento sociale, è radicata la convinzione che la patria privata costituisca una parte inscindibile di un tutto più grande: la terra della nazione. La patria privata, si fonde con la patria ideologica.

Il luogo di nascita si situa allora nel più ampio territorio della patria ideologica. Ciò avviene particolarmente nell’epoca di una enorme mobilità spaziale e sociale. Il fatto che intere nazioni siano «in movimento» genera il bisogno di un’appartenenza più stretta, di un radicarsi, di un ritrovare il proprio «posto al sole».

Tale bisogno non può più essere soddisfatto dalla comunità locale basata sul tipo ideale della polis greca o della città medioevale. Un microcosmo chiuso entro confini ristretti, autonomo socialmente e culturalmente è diventato, in un mondo che si sta sempre più modernizzando, una posizione sterile.

E proprio la grande città, la metropoli, il grande mercato del lavoro e delle merci, la chiave di volta dell’informazione e della comunicazione sociale, la grande collettività di gruppi sociali differenziati che crea le condizioni per l’emancipazione psicologica, che assicura un ampio margine di libertà personale e la possibilità di creare un proprio stile di vita, che meglio soddisfa i molteplici bisogni e aspirazioni dell’uomo moderno.

Nell’epoca attuale sempre più spesso la metropoli con la sua regione costituisce questa patria «più vasta» con cui generalmente si identifica l’uomo. Nel suo ambito l’individuo può meglio collegare i desideri, le esperienze di partecipazione ad una comunità ideologica qual è la nazione (o addirittura il mondo) con la necessità di appartenere ad una più precisa comunità territoriale.

L’identificazione con essa non è affatto condizionata dalla residenza; gli uomini che la provano possono provenire da parti affatto diverse. La patria privata nella sua nuova veste non conosce barriere autoctone; si basa sulla libertà di movimento. L’uomo contemporaneo sempre più spesso si sceglie una patria privata nell’ambito della patria ideologica.

Si pone ora la domanda se una prolungata permanenza in un qualche paese straniero non crei dei vincoli abituali: l’attaccamento all’ambiente, l’assuefazione alle usanze costumi e valori di un dato paese; e tutto ciò sostenuto e facilitato dalla conoscenza della lingua straniera che di quella cultura è la chiave. Ognuno di noi potrebbe portare esempi di affettuoso attaccamento al luogo dove si è vissuti all’estero come esito dei lunghi anni trascorsivi e dell’inesauribile bagaglio di associazioni emotive ad esso connesse.

Questo sentimento, ad esempio per Parigi, Roma, Londra, Vienna o New York, può essere più vivo di quello provato per la natìa Varsavia, Cracovia o Poznari. «Persone dotate di indole particolare che durante la loro vita hanno spesso cambiato luogo di residenza possono provare per molti ambienti un sentimento diretto e inesprimibile».

Esiste anche il fenomeno del cosmopolitismo che assume due forme: il cosmopolitismo opportunistico, che risponde al principio del ubi bene ibi patria, e il cosmopolitismo uniformistico che nel nome della comunità sovranazionale basata sull’ideologia di diverse religioni secolari mira a livellare le diversità nazionali e a uniformare culturalmente l’uomo.

Si può anche giungere ad un conflitto di sentimenti tra l’attaccamento basato sulle abitudini e l’ideologia professata anche nell’ambito di una stessa società nazionale. Ne è un esempio la terra polacca nel periodo delle spartizioni. Queste, smembrando lo stato e annettendo le terre della Respublica a tre diversi organismi statali dal diverso livello civile, potenziale demografico, diversa filosofia e struttura sociale, situazione economica, rappresentanti sistemi politici, giuridico-amministrativi diversi, sottoposero il paese per più di cent’anni ad azioni totalmente diverse, dando forma a tre diverse «sfumature della polonità», come le ha definite Stanislaw Witkiewicz.

Le differenze non concernevano soltanto l’esistenza materiale: erano più profonde, giungevano alla sfera della coscienza e del mondo dei valori.

Si delinearono contrasti — come dice Stefan Kieniewicz — «tra le prospettive di esistenza politica e persino tra lo stile di vita e la mentalità dei polacchi della Polonia del Congresso, della Galizia, della regione di Poznari o dell’Alta Slesia». L’influsso delle spartizioni, del vincolo dell’abitudine fu tanto grande da agire sulla sfera del vincolo ideologico.

«Il terzo quarto del XIX secolo — scrivono gli storici polacchi contemporanei autori dell’opera La società polacca dal X al XX secolo — fu forse il periodo in cui più forte fu sulla coscienza nazionale il peso dei confini imposti dalle spartizioni. Incombeva già forse non proprio il rischio, ma almeno la prospettiva del rischio dell’insurrezione delle tre nazionalità».

Minaccia questa che non diventò realtà. La società polacca pur divisa da confini si sentiva però una nazione sola. Proprio in questo periodo — verso la fine del positivismo e all’inizio dell’epoca post-positivista — si verificarono processi che approfondirono la coscienza nazionale e ampliarono in certo senso i confini della nazione rafforzando l’azione dell’ethos indipendentista

Poiché anche il patriottismo personale di un uomo dotato di coscienza nazionale non è soltanto un vincolo abituale. Sul nostro rapporto con la patria privata agisce la nozione di patria ideologica, che introduce in tale rapporto certi elementi di fede dandogli una colorazione morale. «È questa dunque — scrive Stanislaw Ossowski — la persuasione del particolare valore che ha per me questo paese, poiché è il paese della mia nazione e ha lo stesso valore per tutti i membri retti di questa nazione; è insieme la fede secondo cui a questo paese sono legato in particolar modo e tale legame ha carattere normativo, il provarlo costituisce per un membro della collettività un dovere morale».

Non basta dunque neppure la permanenza di molte generazioni in un dato paese perché per i nuovi venuti esso diventi automaticamente la patria. È necessario che vi siano forti esperienze che suscitino il senso di responsabilità per il paese prescelto in condizioni di particolare pericolo per la sua esistenza, che impongano una responsabilità per i suoi valori nell’ora della prova; è necessario che una data cultura sia aperta ed attraente.

È questo il caso della polonizzazione, avvenuta nel XIX secolo, dei rappresentanti delle nazioni che allora dominavano il nostro paese smembrato. Subirono la nostra attrazione spesso uomini che erano stati mandati da noi proprio come esecutori della progettata germanizzazione o russificazione.

Il vincolo con la patria ha uno sfondo sentimentale: è soprattutto un imperativo morale, un dogma specifico. Lo provano con particolare intensità gli emigrati dalla Polonia. La storia dell’emigrazione è in gran misura un tentativo di adempiere a tale imperativo morale: il mantenimento della lingua, della fede, delle usanze, il considerare come vera patria il «vecchio paese» e l’adoperarsi in tutti i modi per restare membri della nazione dal cui grembo si è emigrati.

Una storia questa piena di drammi personali, di sensi di colpa, di espiazione. Ne può risultare o l’estraniamento dall’ambiente del paese scelto, o la totale assimilazione; il ritrovamento di una nuova patria, o l’assimilazione pur con la coscienza delle proprie radici etniche nel tentativo di mantenere alcune forme di collegamento con il «vecchio paese», o — nel più raro dei casi — il possesso di due patrie.

Riassumiamo ora questa serie di argomenti:

1) Il territorio nazionale rende possibile il concentrarsi dell’enorme maggioranza di una nazione in una stessa area. La nazione è una collettività che dimostra un particolare atteggiamento rispetto al territorio patrio. L’esistenza di una nazione è inscindibilmente connessa al concetto di patria, di terra natale. «La nazione — è stato scritto nella rivista “Rok” (Anno) edita a Poznari nella prima metà del XIX secolo — ha una patria, abbandonata dopo gli antenati». La patria, cangiante di molteplici contenuti, è il valore fondamentale della collettività nazionale.

2) Tra patria e nazione esiste una mutua interdipendenza. La partecipazione alla collettività nazionale è la condizione necessaria e sufficiente perché un individuo possieda una patria ideologica.  Il vincolo con la patria è la condizione necessaria dell’appartenenza alla nazione.

3) La patria non è una nozione geografica descrivibile senza richiamarsi all’atteggiamento psichico di una qualche collettività. È proprio in ragione di tale atteggiamento che il territorio geografico assume carattere di patria. «Un territorio diventa patria solo in tanto in quanto esiste un gruppo di persone che si rapportano ad essa in un certo modo e in un certo modo ne formano l’immagine. Allora per questo gruppo tale settore di realtà interiore assume valori specifici che di esso fanno la patria» (S. Ossowski).

4) Il nome patria può costituire un’arma comune di ipocriti consapevoli che, secondo le parole del poeta, «fanno a gara a chi declama più forte», può rientrare a far parte di un repertorio di frasi fatte, convenzionali, prive di contenuto, può essere una maschera sotto cui si celano desideri egoistici; può essere uno strumento di propaganda. Da qui la confessione: «Raramente sulle mie labbra…».

Ma la patria è anche fonte di esperienze  emotive di grandissima tensione, l’oggetto di emozioni collettive che appagano le masse umane e le spingono ad azioni disinteressate che esigono sacrifici estremi. Del patriottismo dei polacchi già nel Medioevo scriveva Wincenty Kadlubek: «ciò che s’intraprende per amor di patria è amore e non follia, prodezza e non temerarietà, poiché potente come la morte è l’amore che quanto più teme per ciò che ama, tanto più è coraggioso».

Nel tentativo di cogliere l’essenza della nazione, della «comunità che possiede la storia superando la storia dell’individuo e della famiglia» (Giovanni Paolo II) ci avvarremo di alcune metafore.

Diremo dunque in primo luogo che; la nazione è durata. L’oggi della nazione ha il suo sostegno nel passato, ed esso stesso costituisce il fondamento di ulteriori proiezioni nel futuro. La nazione, per usare le parole del grande Adam Mickiewicz, «è tutte le sue generazioni passate e future».

La nazione è memoria. Una società nazionale immemore del suo passato, gioioso o doloroso che sia, si espone al rischio di smarrire la propria identità. Terrificante è il destino di una nazione che sia sottoposta al «rinnovamento della memoria» (Czeslaw Milosz). La difesa della memoria è il dovere nazionale fondamentale.

Diciamo inoltre che la nazione è «sostanza etica» (Józef Tischner). I casi della nazione suscitano nei suoi membri profonde emozioni. Non è possibile restare indifferenti. Sono questi l’oggetto dell’etica nazionale: essa da le norme, le indicazioni, stabilisce i doveri, le premesse della scelta, dell’atto di volontà, mette alla prova le fondamenta ed è essa stessa il fondamento della valutazione delle singole azioni concrete.

La nazione è amore, come nel detto di Mickiewicz: «cosa dunque è la nazione se non un’immensa famiglia, i cui membri si amano fino ad esser pronti a sacrificare la propria vita gli uni per gli altri?». Il pensiero secondo le categorie della nazione è una parte integrante dell’eredità culturale polacca.

Spesso s’afferma nella letteratura sociologica che nella lingua polacca sono state scritte più opere sul tema della nazione che in qualsiasi altra lingua del mondo. Un contributo essenziale del pensiero polacco è stata la concezione della nazione — la nazione polacca — come comunità organica che tra le altre comunità umane precedenti ha una più profonda solidarietà interna e in sommo grado armonizza la libertà individuale con la solidarietà collettiva.

Ne è testimonianza quest’ultimo periodo in cui la nazione ha sprigionato così forti sentimenti di comunità e solidarietà di scopi e azioni fondamentali dei membri della società da stupire i suoi e gli altri.

Diciamo infine che la nazione è dignità. È questo il fondamento della durata e dell’edificazione di quella comunità attiva che chiamiamo nazione. Stanislaw Staszic ha scritto: «Cadere può una nazione grande, perire solo una nazione vile». Se una nazione vuole esistere, se non vuole «vilmente perire», non le è lecito sottomettersi alla schiavitù. Occorre distinguere tra schiavitù e prepotenza. La prepotenza è operare in un conflitto con forze preponderanti. La schiavitù è l’accettazione della costrizione, è seguire la volontà del più forte. Non v’è schiavitù per chi non si sottomette ad essa.

Ma la nazione è soprattutto cultura. «La nazione — ha detto Giovanni Paolo II all’Unesco — è una comunità di uomini uniti da vincoli diversi, ma soprattutto dalla cultura. La nazione esiste “tramite” la cultura e “per” la cultura». «La cultura — come ha poi formulato a Coimbra in Portogallo — abbraccia la totalità della vita della nazione e tutto il complesso dei valori che essa anima, i quali sono comuni per tutti gli abitanti, li uniscono in una stessa “coscienza dei singoli e di tutti insieme”; la cultura comprende sia le forme attraverso cui essi esprimono se stessi o foggiano i propri valori, sia i costumi, la lingua, l’arte, la letteratura, le istituzioni e le strutture della convivenza sociale».

Giovanni Paolo II intendendo la nazione come comunità culturale si ricollega alla grande tradizione del pensiero sociale polacco. Basti ricordare Ludwik Gumplowicz che negli anni ottanta del secolo scorso ricollegò, in modo originale e rivelatore per quell’epoca, il concetto di nazione al concetto di cultura. La cultura è per questo sociologo il fattore che crea la nazione; tramite la cultura la nazione acquista la sua identità, grazia alla cultura si effettua una «socializzazione della nazione».

È stato Gumplowicz ad introdurre la nozione di «società nazionale» che può andare oltre i confini di un singolo stato. Tale società nazionale, per quanto divisa geograficamente e politicamente — vedi il caso della Polonia nel XIX secolo — costituisce una «unità collettiva», un gruppo cementato da un interesse comune, dal nodo della solidarietà e della cultura comune.

Nel nostro secolo abbiamo la grande figura di Florian Znaniecki, il creatore della sociologia accademica in Polonia, il quale ha formulato la teoria sociologica della nazione intesa come «collettività socialmente solidale unita ad una cultura nazionale comune». Per Znaniecki, della appartenenza ad una nazione decide «la tensione cosciente e riconosciuta da altri alla partecipazione a tale cultura comune».

In tale concezione della nazione ritroviamo tratti caratteristici della nazione come collettività territoriale. Nella cultura nazionale un ruolo importante è svolto dal complesso di valori che chiamiamo terra natale, patria. Un certo particolare atteggia­mento rispetto al territorio patrio è l’elemento indispensabile di tale cultura. In entrambi i casi è presente l’idea della partecipazione.

L’essenza del legame alla patria ideologica è dunque la partecipazione alla comunità nazionale. Dato che la patria è l’eredità dei padri, la patria può essere non solo la terra, ma tutti i valori culturali: la lingua, la tradizione storica, la fede, l’ethos e il logos della comunità nazionale. «La cultura — per ricordare le parole rivolte da Giovanni Paolo II ai giovani di Gniezno — è soprattutto il bene comune della nazione. La cultura polacca è il bene su cui poggia la vita spirituale dei polacchi.

Essa ci identifica come nazione. Essa ci determina attraverso tutto il corso della storia. Essa costituisce qualcosa di più della forza materiale. Di più delle frontiere politiche. È noto che la Nazione polacca è passata attraverso la dura prova della perdita dell’indipendenza, durata più di cent’anni, e che nonostante questa prova è restata se stessa. È restata spiritualmente indipendente poiché aveva una sua cultura».

Giovanni Paolo II ha introdotto, come è noto, anche la nozione di sovranità della cultura. Entrano qui in gioco non soltanto l’identità, la specificità, il diritto all’esistenza e allo sviluppo, ma anche il primato della cultura, la sua indipendenza rispetto alle forze politiche ed economiche, l’irrinunciabile diritto della comunità culturale a dar forma al proprio destino, al suo essere soggetto. «Esiste una sovranità fondamentale della società — ha detto all’UNESCO — che si esprime nella cultura della Nazione. È questa insieme la sovranità tramite cui l’uomo è sommamente sovrano».

La nazione, perché possa formarsi come comunità culturale, deve possedere un territorio che predisponga in certo modo i suoi abitanti a costituire un’unica collettività saldata da un vincolo naturale che scaturisce dal comune destino e dalla condivisione di valori comuni. Conosciamo casi eccezionali in cui una nazione cessa di essere anche collettività territoriale. L’antico territorio nazionale degli Ebrei, dispersi nella diaspora fino alla dichiarazione di Balfour del 1918, aveva funzioni esclusivamente ideologiche e non ambientali.

La nazione ebrea per lunghi secoli è stata una comunità solo in virtù della fede professata che decideva della sua individualità culturale e le permetteva di mantenere un volto proprio pur in condizioni di dispersione territoriale. Vi sono nazioni, come quella irlandese e armena, che nella loro totalità, o almeno per la maggior parte, vivono al di fuori dei confini della loro patria. Le radici di una nazione sono nondimeno saldate al territorio nazionale. La nazione polacca è tra quelle che nel corso dei secoli hanno compiuto grandi spostamenti territoriali di una notevole parte del gruppo nazionale.

Allo spostamento fisico corrispondono diverse forme di spostamento spirituale. Vi sono infatti diversi tipi di emigrazione. Ve l’emigrazione «per il pane», per il guadagno, v’è la «Grande Emigrazione». Diversi sono i motivi che spingono a lasciare la patria, diversi gli strati sociali e i gruppi umani che prendono parte a tale processo.

A volte, come ha detto Giovanni Paolo II ai polacchi d’Inghilterra, abbiamo a che fare non con l’emigrazione, ma «con una parte viva di Polonia che, pur strappata dalla terra patria, non cessa d’essere se stessa. Anzi, essa vive della persuasione che in essa, proprio in quella parte, in particolar modo vive il tutto…».

«La Polonia — ha aggiunto — è uno dei paesi maggiormente provati del globo terrestre. Una delle patrie più a fondo arate dalla sofferenza; e nel contempo una delle più amate. Forse il segreto di tale straordinario amore è anche questo stranissimo dislocamento spirituale: per tanti suoi figli e figlie, spesso tra i migliori, essa è presente nonostante l’ “assenza fisica”.

Varia è questa «presenza della Polonia… al di fuori della Polonia», diversa la tensione del vincolo tra il paese di residenza e il paese dei padri. Tale vincolo esiste principalmente sul piano culturale. Opera qui la concezione di nazione come comunità culturale che comprende i polacchi indipendentemente dal loro luogo di residenza. Tale comunità però è inscindibilmente saldata al territorio nazionale, alla concezione di terra natale, di patria ideologica. Così, questi due modi di concepire la nazione si fondono in uno solo.

Janusz Ziótkowski da W drodze (Poznarì) n. 7 – 1983