Quando il ”Tu” è un segno di disprezzo

TuArticolo pubblicato su Il Tempo il 16 luglio 1998

di Carlo Sgorlon

Qualcuno si lamenta che si stia perdendo l’abitudine di dare del “lei” alle persone umili, spesso sventurate, costrette a vivere negli asili per vecchi, negli ospedali, nelle carceri, nei riformatori. Giusta lamentela. E’ una questione di forma e di abitudine, senza dubbio. Ma anch’esse diventano importantissime quando qualcuno vive in una situazione umiliante, e per lui diventa di grandissimo momento essere rispettato e riconosciuto nella sua dignità di persona.

Chi è costretto a vivere in certi ambienti è già terribilmente umiliato dalla vita. Perché la sua umiliazione dovrebbe essere alimentata dal modo con cui quegli che gli stanno sopra gli rivolgono la parola? Secondini, infermieri, sorveglianti, medici devono rispettare le forme, perché l’orgoglio delle persone di cui dispongono quasi liberamente, che possono costringere a fare ciò che vogliono, non sia ferito.

A me piace l’abitudine di dare del “tu” alla gente. Significa stabilire un rapporto paritario, saltare un mucchio e mezzo di convenzioni ed etichette, ed entrare subito in confidenza con qualcuno. Dare del “tu”, “tutoyer” dicono i francesi. Benissimo, ma deve avvenire tra pari. A volte da fastidio anche a me che un giornalista di vent’anni, che ha descritto dieci fatti di cronaca nera su un giornale di provincia o un autore che ha stampato un libretto di poesie presso una tipografia editrice mi dia del “tu” tre minuti dopo avermi conosciuto.

Tra l’altro quel “tu” sottintende: siamo già vecchi amici, io posso chiederti qualunque favore e tu lo stesso. Tra noi si è già stabilito il motto più italiano che ci sia, anche se espresso con parole latine: “Do ut des“.

E se questo secca a me, che vivo in società rispettato e onorato da molti, quali sentimenti devono provare i poveri diavoli, tartassati dalla vita e dalla malattia a sentirsi trattati come oggetti? La persona civile e veramente cristiana si guarda bene dal recare offesa all’amor proprio e alla dignità della gente. Sono le ferite più difficili da sanare, secondo Dostojevskij. Anzi, secondo lo scrittore russo le offese all’amor proprio scavano dentro chi le subisce terribili vuoti, fino a distruggere una persona o a sviluppare in essa un fortissimo desiderio di rivalsa e di vendetta. E Dostojevskij è lo scrittore che più di ogni altro conosce le verità abissali dell’animo umano.

Ogni tanto nascono le mode di un “tutoyer” universale: mode scadenti, generate da momenti forse alti ma anche balordi della storia. Per esempio la moda nacque dalla retorica egalitaria della Rivoluzione francese e di quella russa. Siamo tutti uguali, cittadini, compagni. Dunque viva il “tu”. E’ invece vero esattamente l’opposto, amici: ci fa diversi la natura, la cultura, le abitudini. L’ambiente storico, il mestiere e cento altre cose.

Anche lo sciagurato “Sessantotto” scoprì che il “tu” è bello, e che gli alunni dovevano darlo ai professori. Che retorica miseranda! Che “tu” falso e bugiardo: almeno quanto quello che i gladiatori “morituri” davano all’imperatore romano, che andava al circo per vederli morire. Io difendo anche le forme perché sono convinto che la forma sia l’aspetto visibile della sostanza. Ho fatto invano campagne contro le parolacce al cinema, alla televisione, sui giornali. Allo stesso modo non credo che questo articolo possa far mutare parere a qualcuno. Ma siano ben certi, i miei lettori: alla perdita delle forme esteriori corrisponde sempre una perdita di sostanza.

Quando in Germania molti passarono dal “Sie” al “du”, ossia dal “loro” al “tu”, si passò anche dalla civiltà goethiana al nazismo. E in Italia il passaggio dal lei al voi fu un effetto del fascismo. Questo “tu” moderno, dato ai poveri, ai deboli, alle persone che contano poco, è un chiaro segno di ritorno alla barbarie.

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