Italia secolarizzata e senza culle. Solo le società “devote” crescono

Tempi 20 dicembre 2020

È la fede a influenzare il tasso di natalità o viceversa? Il calo demografico in Occidente corrisponde in maniera quasi scientifica alla laicizzazione, alimentata dalla stessa perdita dei bambini («senza figli si perde l’idea di destino»)

E se fosse la scomparsa dei bambini ad alimentare la secolarizzazione dell’Europa occidentale? Questa settimana la Catholic News Agency ha ha dedicato un lungo pezzo al nostro paese prossimo a battere un nuovo record negativo di nascite. Dati Istat alla mano (meno diecimila nati è la previsione per i prossimi mesi) l’Italia è la classica punta dell’iceberg dell’inverno demografico dalla cui morsa non sembra voler uscire l’intera Europa da mezzo secolo.  

Se ne parla da decenni, sono anni che vediamo scendere a precipizio il tasso di fecondità sotto la soglia del rimpiazzo generazionale (2,1 figli per donna), ogni anno battiamo il record negativo, sapendo benissimo che la pagheremo cara. Ma l’indagine della Cna si sofferma su un fattore chiave comune nelle società a basso tasso di natalità: secondo Philip Jenkins, storico e professore alla Baylor University, autore di Fertility and Faith: The Demographic Revolution and the Transformation of World Religions uscito quest’anno «se si guardano i paesi del mondo, le società a bassa fecondità hanno poca fede; mentre le società ad alta fecondità hanno molta fede, indipendentemente da quale».

È la fede a influenzare il tasso di natalità o viceversa?  Le ricerche di Jenkins hanno dimostrato che il calo delle nascite in Occidente corrisponde in maniera quasi scientifica alla perdita di religiosità. L’Italia è un ottimo esempio: anche Jenkins come molti studiosi parla degli anni del boom ma si sofferma in particolare sulle caratteristiche dell’Italia che si affaccia all’inizio degli anni Settanta, una società ad alto impegno religioso che mette al mondo tanti bambini. Nel giro di cinque anni le cose cambiano e i mutamenti sociali decollano all’inizio degli anni Ottanta. Da lì in poi Jenkins ha misurato il tasso di natalità insieme a quello della frequenza in chiesa e di espressione di una identità religiosa.

DIVORZIO, LA FINE DEL «PER SEMPRE»

Sono gli anni in Italia (ma anche in Spagna) dell’opposizione al Vaticano e dei referendum per legalizzare divorzio, aborto, promuovere la contraccezione, culminati a fine secolo con l’introduzione dei dibattiti sull’eutanasia e sull’approvazione del matrimonio omosessuale. Il demografo Roberto Volpi ricorda che nel 1970 si sposavano in chiesa 97,7 italiani su 100, nel 2018 le unioni celebrate in chiesa sono state meno della metà di tutte quelle italiane.

In compenso a partire dal 1997 è quadruplicato il numero delle convivenze e nel 2017 quasi un bambino su tre era nato da genitori non sposati. Secondo Volpi è con l’approvazione del divorzio, che ha sgretolato l’idea che un matrimonio fosse “per sempre”, che è iniziata una profonda crisi della famiglia e al calo delle unioni stabili ha fatto seguito quello del numero dei figli.

SENZA BAMBINI GLI ADULTI PERDONO LA FEDE

Ma la questione potrebbe essere più complicata: per il professore americano la correlazione esiste ma potrebbero essere stati gli stessi cambiamenti culturali che hanno portato gli italiani a votare il divorzio ad avere determinato il calo delle nascite (altri paesi hanno legalizzato il divorzio primo dell’Italia, spiega, eppure l’inverno demografico è iniziato per tutti più o meno nello stesso momento).

E qui torna il collegamento alle società “religiose”, le uniche che ancora oggi continuano a crescere (si pensi solo ai paesi d’Africa risparmiati da secolarizzazione e benessere): se è vero che «quando una società perde la sua fede e pratica religiosa, potrebbe scegliere anche di contare meno figli» potrebbe essere vero anche l’opposto, cioè che una società con meno figli perda «il collante che lega le famiglie alla religione. Quando elimini i bambini dalla scena, ciò che lega le persone alle chiese o alle istituzioni si deteriora abbastanza rapidamente. E se il legame con la fede diminuisce, le persone diventano anche più disposte a votare a favore di questioni contrastate dalla Chiesa, come la contraccezione e l’aborto».  

L’ipotesi di Jenkins è che la perdita di confronto con le domande ultime sollevate dal mettere al mondo bambini, dare loro un’educazione religiosa, spenga tali domande e il senso religioso dell’uomo e della donna stessi. E questo ha conseguenze culturali, sociali ma anche economiche: come abbiamo più volte scritto, se è stato il peso delle nuove generazioni a dare slancio alla ripresa nel secondo Dopoguerra (quel 72 per cento di popolazione under 45 anni censita nel 1951) oggi quella percentuale si è ridotta al 47 per cento e secondo l’Istat calerà fino al 43,7 alla fine del decennio. In parole povere, l’Italia sta depotenziando anno dopo anno quella che è la base su cui appoggiare qualunque piano di rilancio, crescita e sviluppo del paese.

NON SI FANNO FIGLI A COLPI DI BONUS

Come invertire la rotta? Jenkins spiega che le attuali politiche pro-natalità qualcosa fanno, ma molto lentamente e costano troppo: nelle democrazie esse si traducono quasi sempre in incentivi finanziari e avrebbe un prezzo inimmaginabile puntare su questi per produrre un cambiamento significativo del tasso di natalità. Possiamo chiamarle politiche sociali, di emergenza, ha confermato Vincenzo Bassi, professore di diritto, economia e scienze politiche a Roma nonché presidente della Federation of Catholic Family Associations in Europe (FAFCE), ma senza una visione relativa alla funzione e al ruolo economico della famiglia nella società tali resteranno e non avranno che un debole impatto sul tasso di natalità, «possono essere utili ma non si decide di avere più figli per avere un bonus».

Insieme a quella di Stato e società Jenkins, Bassi e Volpi confidano in un’azione forte della Chiesa per ricostruire comunità che diano valore alla scelta e al desiderio di fare figli agevolandone le condizioni in mezzo a un popolo sempre più vecchio, solo e incapace di fede, cioè di immaginare un futuro e un destino, «se non si supera la crisi del matrimonio – ha sottolineato Volpi – non si supera la crisi della famiglia, e nemmeno la crisi della fertilità».