Ecco le assurde sentenze figlie dell’ideologia “no border” che spalancano le porte all’immigrazione illegale

Atlantico, 29 Settembre 2020

di Anna Bono

Si sa che almeno l’80 per cento degli emigranti illegali che chiedono asilo in Italia non lo ottengono. Si sa anche che hanno facoltà di ricorrere in Cassazione e che di solito lo fanno, approfittando del gratuito patrocinio di cui possono usufruire: le spese legali le paga lo stato italiano, al costo di 50-60 milioni di euro ogni anno.

Forse meno noto è che molti ricorsi vengono accolti, il che fa dire ai difensori dei “porti aperti” che le Commissioni territoriali incaricate di giudicare le richieste di asilo funzionano male: le percentuali di sentenze a favore dei richiedenti fanno pensare che “una parte notevole delle decisioni negative adottate dalle Commissioni territoriali siano infondate e dunque il giudizio sulla vicenda della persona sia stato svolto in modo poco approfondito”.

Ben venga, quindi, che all’ingiustizia di sentenze affrettate possa rimediare “successivamente il giudice, figura imparziale”. Sembra tutto giusto, almeno finché non si conoscono le sentenze dei giudici. Eccone alcuni esempi tratti dal sito web del “Progetto Melting Pot, Per la promozione dei diritti di cittadinanza”.

La Corte d’appello di Potenza il 6 marzo 2020 ha riconosciuto protezione sussidiaria a un richiedente asilo del Gambia di fede islamica che sostiene di essere fuggito dalla condizione di schiavitù impostagli dalla scuola coranica alla quale la sua famiglia lo aveva affidato in Senegal. La Commissione territoriale aveva respinto la richiesta di asilo ritenendo poco credibile il suo racconto per la scarsità dei dettagli forniti e la stranezza che dal Gambia fosse finito in una scuola coranica senegalese.

Ma la Corte ha ritenuto plausibile che il richiedente avesse ricordi confusi e quindi ha giudicato veritiero il suo racconto. Da articoli pubblicati su La Repubblica e sulla rivista “Deportate, esuli, profughe” ha ricavato conferma di un trattamento inaccettabile, gli allievi “costretti dai loro insegnanti coranici ad elemosinare giornalmente denaro, riso o zucchero”. Inoltre, secondo la Corte “non risulta che, dopo il cambiamento alla guida del governo del 2017, la situazione sia sostanzialmente mutata.

Risulta in tal modo confermato che, per le inefficienze endemiche del suo sistema giuridico, il Gambia non sia in grado di offrire protezione, individuando, perseguendo penalmente e punendo gli atti che costituiscono danno grave”. Accusare un governo di non tutelare i propri cittadini è una questione delicata che potrebbe anche provocare una crisi diplomatica.

Nello specifico, oltre tutto, gli abusi denunciati sono stati commessi in Senegal. Che nelle scuole coraniche si verifichino casi di violenze fisiche e morali è vero, ma non si può certo dire della questua praticata anche da monaci cristiani, indù, buddisti, jains… Per finire, in Gambia si parla inglese e in Senegal francese e questo rende effettivamente improbabile che un gambiano venga mandato in una scuola coranica senegalese.

Il 13 agosto il tribunale di Bari invece ha riconosciuto protezione umanitaria a un cittadino del Senegal perché l’espulsione lo esporrebbe “a pericolo della dignità” e perché “in Senegal il numero complessivo di casi di persone colpite da Covid-19 ha subito un notevole incremento”. Il pericolo per la dignità deriverebbe dal fatto che l’uomo ha lasciato il suo Paese nel 2014, prima di emigrare ha chiuso il suo negozio e quindi è “sradicato dal contesto”, e “la situazione comunque difficile sotto l’aspetto economico del Senegal” fa sì che al rientro si troverebbe privo di occupazione e fonti di reddito, il che “comporterebbe una estrema vulnerabilità con compressione di quel minimo di nucleo irrinunciabile di ormai acquisita dignità personale”.

Conoscendo il fenomeno dell’emigrazione illegale, l’uomo potrebbe aver ceduto il negozio per procurarsi il denaro per il viaggio. Per giudicare quanto sia “difficile” la situazione del Senegal si tenga presente che il suo Pil è cresciuto del 7,2 nel 2017, del 6,4 nel 2018 e del 5,3 nel 2019. L’Italia nel 2018 è entrata in recessione (era già successo nel 2013). Ha registrato una crescita del Pil dello 0,8 per cento quell’anno (dello 0,7 nel 2017) e dello 0,2 per cento nel 2019.

Quanto al coronavirus, in Senegal il 28 settembre risultavano 14.869 casi e 306 morti su 16 milioni di abitanti, mentre in Italia i casi erano 308.104, i decessi 35.818. Va aggiunto che il Senegal è universalmente considerato a ragione uno dei Paesi africani che meglio hanno affrontato l’emergenza Covid-19, essendo tra l’altro uno dei due stati (l’altro è il Sudafrica) in grado subito di effettuare tamponi.

Già all’inizio di marzo l’Istituto Pasteur di Dakar eseguiva test che consentivano di individuare il virus in 10 minuti con una specificità del 92 per cento. Ma il Covid-19 ha “salvato” altri emigranti illegali. Tra questi c’è un cittadino del Pakistan che il 25 giugno ha ottenuto dal tribunale di Napoli, Sezione specializzata in materia di immigrazione, un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Il giudice si è detto d’accordo con la Commissione territoriale che le ragioni addotte dall’uomo per ottenere protezione internazionale erano di “dubbia credibilità” e quindi la richiesta andava rigettata.

Tuttavia, “dalle fonti internazionali consultate – si legge nella sentenza – emerge che la pandemia da Covid-19 ha assunto una situazione di rilevante gravità cui il sistema sanitario pakistano non appare capace di fare fronte”. Determinante poi è stato il fatto che il sistema sanitario pakistano “per effetto di una diffusa privatizzazione che ha consolidato un orientamento commerciale alle cure mediche” garantisce scarsi servizi sanitari ai poveri.

Costringere l’uomo a rientrare in patria lo avrebbe esposto a condizioni di “estrema vulnerabilità” e il suo diritto alla salute sarebbe stato gravemente compromesso. Il 30 giugno lo stesso tribunale di Napoli ha concesso protezione umanitaria a un cittadino del Bangladesh in considerazione della sua buona integrazione, ma soprattutto dell’andamento dell’epidemia nel suo paese di origine.

“In Bangladesh – dice la sentenza – la pandemia da Covid-19 ha colpito buona parte della popolazione”. Inoltre, “da notizie di recente acquisite, è emersa l’inadeguatezza dei rimedi posti in essere dal governo per contenere la propagazione di tale pericolosa malattia. I giornali nazionali hanno segnalato casi di persone sintomatiche (febbre, tosse) che si sono recate in ospedali e cliniche, dove non sono state ammesse essendogli stato rifiutato qualsiasi trattamento o test al virus”.

Il sistema sanitario inoltre, secondo il collegio giudicante, “è carente perché vi è mancanza di personale sanitario qualificato nel settore pubblico e l’accesso dei poveri alle cure è molto problematico, specie nelle zone rurali. Tale situazione contribuisce a creare quel clima d’insicurezza per la tutela della salute, che integra una condizione di particolare vulnerabilità in cui l’istante (sic) si ritroverebbe in caso di rimpatrio”.

A tre mesi da queste sentenze, in Pakistan, i casi di Covid-19 sono 310.841, i morti 6.466 su 212 milioni di abitanti; in Bangladesh i casi sono 359.148 e i morti 5.161 su oltre 164 milioni di abitanti: non esattamente “buona parte della popolazione”. Sono molte le sentenze che ribaltano il giudizio espresso dalle Commissioni territoriali con argomenti simili a quelli descritti.

A favorire i richiedenti asilo concorre la recente giurisprudenza della Cassazione relativa al “beneficio del dubbio”. Secondo tale orientamento “il dubbio circa la credibilità deve essere risolto a favore del dichiarante”. Inoltre, accertata la fondatezza dei pericoli a cui andrebbe incontro un richiedente se rimpatriato, i tribunali non sembrano prendere in considerazione la possibilità prevista dall’Unione europea di verificare se i timori espressi e i pericoli denunciati siano circoscritti a una zona definita del territorio del Paese d’origine e se il richiedente possa eventualmente essere trasferito in un’altra parte del Paese dove non avrebbe ragione di nutrire timori.