Pd il vento del disorientamento

PdTempi n.11 21 marzo 2012

Ventidue “mamme” ideologiche, quattro aree, mille correnti. Storia della Dc della Seconda Repubblica. Un partito dalle idee così chiare da riuscire a perdere anche le sue stesse primarie

di Mattia Feltri

E pensare che il partito democratico è discendente diretto del Partito comunista, che fu più tetragono di un cubo. La celeberrima centralità democratica (e cioè: il capo non sbaglia mai, il resto è devianza) trovò applicazione nelle eterne leadership. Palmiro Togliatti durò sino alla morte, sopraggiunta nell’agosto del 1964, dopo essere stato segretario dal 1930 (sebbene con un interregno quadriennale di Ruggero Grieco, poiché Togliatti viveva a Mosca e aveva da occuparsi dell’Internazionale comunista).

Il successore, Luigi Longo, rimase in carica otto anni e, sofferente per i postumi di un ictus, nel 1972 lasciò a Enrico Berlinguer che dominò per dodici anni e, come Togliatti, morì sul trono. Era il giugno del 1984 e in Italia si viveva la galoppante stagione craxiana mentre in Unione Sovietica comandava Konstantin Cernenko.

Ecco, o siete incontenibili appassionati di storia, o contate già almeno quarant’anni di vita, oppure non avete la più pallida idea di chi fosse costui. Per dire com’era già messa la culla del socialismo reale. Il Pcus sarebbe stato liquidato malgré soi da Michail Gorbaciov, subito dopo, e infatti i nostri comunisti avevano perduto il franco appiglio. Da lì in poi sarebbe stato – si vedrà – uno smarrito girovagare.

Non è una divagazione sciocca: capirete dove si vuole arrivare. Bene: il Pci procedette con l’incoronazione di Alessandro Natta, 66 anni, un galantuomo povero di carisma. Il suo avversario era Giorgio Napolitano, il quale scontava un paio di difettucci piuttosto gravi, all’epoca, agli occhi degli ortodossi: era riformista ed era migliorista, cioè vicino al Psi di Bettino Craxi.

Al fianco di Natta c’era anche la “cantera” del comunismo italiano, la nuova e brillante generazione uscita dal ’68, anziché dalla Resistenza. Massimo D’Alema e Piero Passino avevano 35 anni, Walter Veltroni nemmeno 30. Un terzetto con le idee chiare su come scalare il partito, un po’ meno – parrebbe – su che farne.

Peccato: se avessero apprezzato Napolitano come dicono di apprezzarlo ora, forse negli anni di Mani pulite avremmo avuto un Pci-Pds diverso, e forse una Seconda Repubblica più al tavolo dell’armistizio e meno in trincea. Attenzione: nel 1987, D’Alema denunciava i «processi di modernizzazione, riorganizzazione produttiva e finanziaria, trasformazione sociale avvenuti sotto il segno di una restaurazione capitalistica». Cioè parlava ancora come uno del Politburo – per capire che cosa si respirava lì dentro.

Dunque, nel 1988 Natta si ammala, nel Pci lo danno per morto (camperà altri tredici anni, veramente) e il nostro esuberante terzetto porta sul trono Achille Occhetto che seppellirà la salma comunista per dare vita al Partito democratico della sinistra (1991). Il resto si ricorda rapidamente: la Gioiosa macchina da guerra perde contro Silvio Berlusconi, nel 1994, e Occhetto abdica, diciamo così.

È la Seconda Repubblica, è un mondo nuovo, estinti i dinosauri si fanno largo i cucciolotti. Chi entra al posto di Occhetto? D’Alema (e nonostante la maggioranza del partito preferisse Veltroni). E dopo D’Alema chi arriva? Veltroni. E dopo Veltroni? Fassino. La nouvelle vague riesce a conquistare Palazzo Chigi una volta soltanto e non per decisione degli elettori ma per congiura, con D’Alema.

Per il resto un fallimento dietro l’altro. Così Fassino scioglie il Pds (nel frattempo diventato Ds) nel Pd e lì comincia un altro balletto. Segretario Veltroni, poi Dario Franceschini, quindi Pierluigi Bersani e presto – poiché Bersani perde anche le primarie, cioè le elezioni interne – toccherà a un quarto, sembra. In quattro anni e mezzo (il Pd fu partorito nell’ottobre del 2007).

E quindi dal giorno in cui Berlinguer si accasciò sul palco di Padova, e sono trascorsi meno di ventotto anni, il partitone e i suoi derivati hanno cambiato nome tre volte e segretario otto. Se ci sarà anche il nono, farà una media di uno ogni tre anni, e si consideri che Natta e Occhetto, da soli, ne hanno coperti dieci. Per limitarsi alla Seconda Repubblica (e poi la chiudiamo con la contabilità), sette segretari in diciotto anni. È davvero curioso, visto che la Seconda Repubblica è stata animata da partiti a leadership carismatica.

C’è stato qualche caso di leader che ha cambiato il nome al partito e mai (a parte, appunto, al Pci-Pds-Ds-Pd) un partito che ha cambiato il nome del leader. Silvio Berlusconi comanda Forza Italia-Pdl da sempre. Gianfranco Fini comanda il Msi-An-Fli da sempre. Pierferdinando Casini comanda il Ccd-Udc da sempre. Francesco Rutelli comanda la Margherita-Api da sempre. Umberto Bossi comanda la Lega da sempre. Antonio Di Pietro comanda l’Idv da sempre. E poi ci sono stati dei partiti, è il caso dell’Udeur di Clemente Mastella o di Rinnovamento italiano di Lamberto Dini, che sono svaniti con il loro stesso comandante.

I motivi sono numerosi e non è il caso di approfondirli qui. Basta dire che alla strage giustizialista resistono due soli partiti della Prima repubblica: il Pci-Pds e il Msi-An. Entrambi conservano la strutturona, un elettorato già di per sé battagliero e dall’orgoglio di una discutibile diversità non fiaccato dagli scandali.

Ma mentre il Msi – un partito comunque dall’indole marziale – ha già risolto per iniziativa del vecchio Giorgio Almirante il problema della successione con Gianfranco Fini, nel Pci si consuma una specie di lotta intestina, facilitata dal fatto che ai rampantelli era stata risparmiata la prova del parricidio: Berlinguer era morto giovane, di lì in poi si trattò di ammazzare giusto un paio di padrini.

Il derby perenne

Finita con l’Urss la stagione della centralità democratica, è infine subentrato il derby perenne. Il Pds mantenne una compattezza, ma già i Ds si frantumarono in una quantità sbalorditiva di correnti. Per esempio: la corrente maggioritaria, quella dei riformisti, conteneva il trio pieno di brio (D’Alema-Fassino-Veltroni), per dire l’unità d’intenti, e qualche sottocorrente tipo Sinistra e Mezzogiorno (Antonio Bassolino) o Sinistra Repubblicana (Giorgio Bogi). Ma poi c’erano i liberai (Enrico Morando), i Riformisti per l’Europa (ex socialisti), i Cristiano sociali (ex De che non avevano aderito al Partito popolare di Mino Martinazzoli né ai casiniani né ai mastelliani). L’elenco, che già si fa comico, potrebbe andare avanti una mezz’ora (Sinistra liberale, Laici e socialisti, Laburisti…).

Ora, se state sorridendo, non avete capito che cosa vi aspetta. Il Partito democratico ha cinque soci fondatori. Si sfida chiunque a elencarli. Probabilmente non li sa neanche Veltroni, primo segretario e grande sostenitore del contenitorone. Bene: sono i postcomunisti dei Ds, i postdemocristiani della Margherita, il Movimento repubblicani europei (scissionisti del Pri e adesso, se le stratificazioni archeologiche non ci ingannano, tornati nel Pri), Alleanza riformista (scissionisti dei socialisti dello Sdì di Enrico Boselli, guidati da Ottaviano Del Turco) e Italia di Mezzo (il nome è già un programma, sono quelli di Marco Pollini, scissionisti dell’Udc). Tenetevi forte perché siamo soltanto all’inizio.

Questi cinque partiti derivano, per discendenza diretta o scissione, da diciassette precedenti partiti: Dc, Pci, Psi, Pli, Pri, Rifondazione comunista, Udc, federazione dei Liberali, Democratici, Rinnovamento italiano, Ppi, Cristiano sociali, Pds, Sinistra repubblicana, Federazione laburista, Comunisti unitari, Socialisti democratici italiani.

Il Pd dunque ha ventidue mamme. Ma non siamo ancora al punto. Bene: oggi il Pd si compone di quattro grandi aree. La prima area (area socialdemocratica) si divide in veltroniani, dalemiani, A Sinistra di Livia Turco, Semplicemente democratici fondata da Dario Franceschini, Democrazia e socialismo di Cavino Angius, più un altro paio di correntucole che si chiamano Viva il Pd, Insieme per il Pd o qualcosa del genere. Un’altra area è quella dei liberali che grossomodo si divide fra Liberali-Liberal di Pietro Ichino, Liberali-Democratici-Rinnovatori e Coraggiosi (giuro) cioè gli ex rutelliani e i Liberali di Enrico Letta.

La terza area è quella dei cristiano sociali che vanta i Democratici davvero (come se ci fossero i Democratici per Finta) di Rosy Dindi, gli Ulivisti prodiani, i Teodem di Luigi Bobba, i Popolari con Franceschini (che ha lasciato i franceschiniani…), Franco Marini, Beppe Fioroni eccetera. Infine ci sono gli ambientalisti di Ermete Realacci. Poiché questa corrente non fa riferimento a nessuna delle grandi aree, dovrebbe essere considerata più un’area che una corrente, ma il dibattito è aperto.

Ultimo avvertimento: non ci prendiamo responsabilità se, da qui all’uscita in edicola dell’articolo, sono nel frattempo nate due o tre correnti e altrettante si sono estinte, o se fossero sopraggiunte ulteriori scissioni o annessioni.

Bene: un siffatto partito (avendo ben presto abbandonato la vocazione maggioritaria di Walter Veltroni, l’unica idea forte venuta fuori da lì in vent’anni, e subito parzialmente tradita dall’ideatore medesimo, cioè Veltroni) sta oggi discutendo con chi ci si debba alleare per vincere le prossime elezioni, se col centro di Casini o con la sinistra di Nichi Vendola. Questo spiegherebbe anche perché, oltre al senso di responsabilità, c’era anche un senso dell’opportunità nell’appoggiare il governo dei tecnici e non andare a elezioni.

Sembra il finale di Nemo, cartone animato che i bambini adorano. Alla fine, i pesci dell’acquario di un dentista di Sydney (la somiglianza del dentista con Rutelli è imbarazzante, ma con tutta evidenza l’acquario è Berlusconi) riescono a evadere e si tuffano nell’oceano, nell’agognato spazio libero, e una volta lì si guardano perplessi, e uno chiede: «E adesso?». È una domanda a cui i democratici non hanno ancora risposto (però sono quasi tutti su Twitter…).