Una guerra regionale dentro il dramma della Siria

crisi_sirianaMondo e Missione n.3 marzo 2012

di Giorgio Bernardelli

DA SETTIMANE si susseguono le notizie sulla carneficina in corso in Siria. Nel momento in cui scriviamo gli scontri a Homs sono tuttora durissimi e la comunità internazionale non sembra trovare il bandolo per riuscire a fermare quella che è ormai una guerra aperta. Perché ai bombardamenti dell’esercito del presidente Bashar al Assad – privi di alcuna remora sulle vittime civili – le milizie degli insorti rispondono con le autobombe. E le notizie che riescono ad arrivare dalla comunità cristiana siriana parlano di attacchi alle chiese e rappresaglie contro i cristiani, che oggi si trovano sostanzialmente presi tra due fuochi. Che cosa sta succedendo, allora, in Siria.

Certamente il regime autoritario di Bashar al Assad si sta macchiando di violazioni gravissime dei diritti umani e l’ostinazione a mantenere con la forza un assetto di potere che nel Medio Oriente di oggi non può tenere più è benzina sul fuoco dei radicalismi. Leggere però la crisi in corso a Damasco solo attraverso lo schema dello scontro tra un dittatore e un popolo oppresso è un’ingenuità che non aiuta a cogliere fino in fondo la gravita della situazione.
Perché quella che si sta combattendo sulla pelle di migliaia di innocenti è una guerra che va ben oltre la figura di Bashar al Assad, il giovane ex oftalmologo proiettato nel 1999 dalla morte del padre alla guida di uno dei regimi più autoritari del Medio Oriente.

Vale la pena di ricordare che la Siria è un Paese in cui il potere è in mano a una minoranza – gli alawiti, una setta di matrice sciita, che rappresenta circa il 10 per cento della popolazione – che, grazie al controllo dell’esercito, governa sulla maggioranza sunnita (l’80 per cento). Ma è un equilibrio che si fonda a filo doppio sull’alleanza tra la famiglia Assad e l’Iran degli ayatollah. Ed è osteggiato dai governanti wahhabiti dell’Arabia Saudita, da sempre preoccupati per l’espansionismo sciita seguito alla rivoluzione iraniana del 1979.

Così la Primavera araba è stata vista a Rijad e negli altri santuari del jihadismo sunnita come la grande occasione per regolare i conti con Teheran. Senza dimenticare l’altra potenza sunnita emergente, la Turchia di Erdogan, che vi ha visto l’opportunità per tornare a giocare un ruolo di primo piano in un’area cru­ciale per tutta la regione.

PER QUESTI MOTIVI occorrerebbe ricordarsi che, quando si parla di “opposizione siriana”, in realtà si parla di gruppi molto eterogenei, che perseguono obiettivi tra loro anche molto diversi: tra le sue fila, infatti, ci sono sì i giovani blogger o gli storici dissidenti liberali, come nelle altre piazze della Primavera araba. E ci sono i Fratelli musulmani, che già subirono nel 1984 ad Rama una durissima repressione da parte di Assad padre. Ma ci sono anche i curdi, che combattono una battaglia tutta loro. E poi i gruppi jihadisti sunniti che, dal vicino e destabilizzato Iraq, si sono infiltrati con la loro ideologia fanatica, oltre che con le loro armi.

Queste ultime presenze sono l’incubo più concreto dei cristiani della Siria – oltre un milione, minoranza significativa intorno all’8 per cento della popolazione – che temono alla fine di ritrovarsi a vivere la stessa sorte dei loro fratelli di Baghdad. E le notizie che arrivano giorno dopo giorno purtroppo sembrano confermare che non si tratta di una preoccupazione infondata.

Perché accanto ai racconti drammatici rilanciati dalla resistenza siriana sugli eccidi provocati dai bombardamenti dell’esercito a Homs, ce ne sono però anche altri che faticano a bucare lo schermo. I cristiani della Siria – ad esempio – hanno già pianto il loro primo martire, il parroco greco-ortodosso Basilios Nassar, ucciso dagli insorti il 25 gennaio mentre portava soccorso a un ferito in una strada di Hama.

A Homs hanno subito gli attacchi alle chiese, alle scuole e anche alle stesse loro case: così ai primi di febbraio l’intera comunità è fuggita e ha cercato rifugio sulle montagne o a Damasco. Del resto erano mesi che nelle manifestazioni di protesta del venerdì ascoltavano slogan come «gli alawiti alla tomba e i cristiani in Libano».

A far circolare questo tipo di notizie non è il regime di Assad, ma figure come madre Agnès-Mariam de la Croix, igumena del monastero di Qàra, a novanta chilometri da Damasco. Personaggio dalla storia interessante: libanese, figlia di palestinesi scappati da Nazareth nel 1948, negli anni Ottanta, restaurando un’icona sfregiata dalla guerra che intanto aveva insanguinato il Libano, scoprì dietro all’immagine della Vergine una rappresentazione della Chiesa di Antiochia.

Diventò come una rivelazione: nel 1994 si trasferì a Qàra, in Siria, per ridare vita a un antico monastero del VI secolo che giaceva abbandonato. Una ricostruzione che è stato anche un ritorno alle origini, con una comunità monastica che in spirito ecumenico è intitolata all’Unità di Antiochia e vede insieme religiose e religiosi di riti e Chiese cristiane diverse.

In questi mesi madre Agnès-Mariam è stata la principale fonte delle notizie sulle violenze contro i cristiani. Ma non ha mancato nello stesso tempo di pubblicare sul quotidiano libanese L’Orient lejour una lettera aperta ad Assad sulla questione dei prigionieri politici chiusi nelle carceri senza processo.

L’IMPRESSIONE è che nello scenario della guerra a tutto campo tra sunniti e sciiti – i cristiani siano anche qui quelli che più di tutti avrebbero da rimetterci. In una lunga intervista rilasciata al sito di Oasis, padre Paolo Dall’Oglio – gesuita della comunità di Mar Musa, già minacciato di espulsione dal regime di Assad – ha espresso in maniera chiara qualche settimana fa l’impressione che in questo momento nessuna delle due forze sia in grado di prevalere. E che si corra molto concretamente il rischio di una spaccatura in due del Paese: da una parte la regione montagnosa tra il mare e il fiume Orante – dove è più forte la presenza delle minoranze – sotto il controllo alawita, salda nell’orbita iraniana insieme al Sud del Libano controllato da Hezbollah.

Dall’altra una Siria interna sunnita, collegata all’Iraq centrale a Est e alla Beirut di Hariri a Ovest. Uno scenario che se guardato con uno sguardo un po’ più ampio certificherebbe l’estensione a macchia d’olio dell’instabilità e delle lotte settarie, da Baghdad fino alle coste del Mediterraneo.