Radici e soluzioni della crisi

crisi_economicaStudi economici e sociali n.4 ottobre – dicembre 2011

Riportiamo, con titolo e scelta degli articoli ad opera della Redazione, una rassegna di alcuni contributi di Ettore Gotti Tedeschi apparsi sull’Osservatore Romano, reperibili sul sito del centro studi Tocqueville-Acton del quale è membro del Comitato Scientifico. I titoli dei paragrafi corrispondono ai titoli degli articoli, apparsi rispettivamente il 4, 9, 11 agosto, il 15 settembre e il 21 luglio. Ettore Gotti Tedeschi è presidente dello IOR, Istituto per le opere di religione, e del Banco Santander.

di Ettore Gotti Tedeschi

Le radici della crisi e le difficoltà della politica. Economia di sopravvivenza

Gli Stati Uniti non sono riusciti a produrre una nuova “bolla”: hanno gettato la spugna e hanno raggiunto l’accordo anti-default, introdotto da un vero dramma politico, per riconfermare l’anima liberista, ma responsabile, del Paese. Cosa significa innalzare il tetto del debito pubblico? Significa essenzialmente nazionalizzare il debito dei privati, per i quali era divenuto insostenibile. Ma significherà anche inflazione, più tasse e svalutazione del dollaro. I rating sull’economia americana peggioreranno e il costo del debito crescerà.

Siamo di fronte a scelte economiche di sopravvivenza, senza prospettiva, non convinte e non convincenti. Regna l’incertezza sul reale funzionamento del mercato globale, e così, sul breve termine, ognuno pensa a se stesso. Nei Paesi europei si evidenziano disaccordi su come – al contrario di quanto avvenuto negli Stati Uniti – privatizzare il debito pubblico, usando il risparmio, ancora consistente, dei cittadini.

La soluzione, alla fine e per entrambe le aree economiche, non sarà altro che un ruolo dello Stato ancora più preminente, con la conseguenza di tasse più alte. Si direbbe quasi che i sistemi politici vogliano far rimpiangere ai cittadini i mercati protetti e riversare su di loro il costo di venti anni di crescita fittizia.

Non molto tempo fa, si facevano progetti economici per fare politica. Poi si è fatta politica per fare progetti economici. Oggi sembra che si vogliano inventare falsi progetti economici senza nemmeno fare più politica. In alcuni Paesi si pensa persino di imporre una sorta di tassa patrimoniale pur di avere risorse da continuare a dissipare in mancanza di una vera progettualità. È come se un medico, per arrestare il sangue di una ferita, tagliasse l’arto lesionato. O come se, per sembrare più ricca, una Nazione arrivasse a vietare di fare figli, facendo così crescere temporaneamente il pil pro capite.

Separata dai riferimenti etici e assumendo autonomia morale, l’economia finisce in mano a persone che trasformano i suoi meccanismi in strumenti di potere, anche politico. Per parafrasare l’enciclica di Giovanni Paolo II Sollicitudo rei socialis, queste persone detengono strumenti sofisticati, ma non dispongono di maturità e saggezza sufficienti per pensare al bene comune.

Come possa la politica venire a capo di questa situazione non è affatto chiaro e le difficoltà sono numerosissime. La soluzione dei problemi economici esigerebbe una politica di austerità a lungo termine. Ma questa è una strategia impopolare e fa rischiare la sconfitta alle elezioni di chi voglia attuarla. La minaccia è allora quella di scelte popolari in chiave elettorale, ma non risolutive sul piano economico.

In Europa l’esigenza di governare la moneta unica impone regole equivalenti per contesti molto diversi e non omogeneizzabili, con il rischio di produrre soluzioni non sostenibili e di aggravare le eventuali crisi politiche. La disoccupazione incombente nei Paesi a economia matura è frutto di debolezze competitive dovute alla delocalizzazione, attuata per consumare di più e a buon mercato. Per migliorare il tasso di occupazione si dovrebbe rilocalizzare in patria le produzioni. E ciò significherebbe, a breve, vantaggi per i produttori, ma forti svantaggi per i consumatori.

Ci si può chiedere se tutti questi problemi siano veramente la conseguenza della crisi economica di oggi, oppure se stiamo solo subendo gli effetti di una crisi precedente, che economica non è, ma che ha prodotto effetti economici. In realtà, la vera crisi il mondo occidentale l’ha creata, vissuta e nutrita accettando l’idea di un uomo da soddisfare solo materialmente.

Soluzioni strategiche per la ripresa

Di fronte a questa emergenza è inutile cercare le responsabilità degli errori commessi: è meglio utilizzare le risorse creative in modo produttivo. È inutile, per esempio, enfatizzare la situazione statunitense come quella di una Nazione in declino o colpita al cuore. Gli Stati Uniti restano infatti il Paese tecnologicamente più avanzato al mondo e con il pil più alto, che supera di oltre una volta e mezzo quello dell’Europa, di quattro volte quello cinese, di dieci volte quello italiano. Il fatto che sia stato declassato non lo mette a terra, ma probabilmente lo indurrà a essere più umile e disponibile a collaborare con l’Europa.

Non è poi utile sottolineare oltre misura il ruolo economico della Cina. Il grande Paese asiatico ha infatti un pil non molto superiore a quello della sola Germania, e deve affrontare una serie di problemi non facili: l’assorbimento delle esportazioni fortemente ridotte, la crescita interna dei consumi e il conseguente innalzamento dei costi di produzione, la minore competitivita, i rischi di inflazione. La Cina ha avuto inoltre un ruolo non indifferente nella crescita a debito degli Stati Uniti, finanziando essa stessa gli acquisti americani delle sue esportazioni, fatto che le ha permesso di diventare una vera potenza.

Le grandi economie mondiali dovrebbero smettere di cercare soluzioni individuali contrastanti fra loro, come stanno invece facendo da quando è iniziata la crisi. Ci vorrebbe un vero vertice, con un’agenda precisa, dove discutere finalmente regole compatibili di risanamento. Soprattutto, sarebbe necessario giungere a un consenso comune sul fatto che solo un periodo di austerità, gestito in modo integrato, può essere la vera chiave per tornare a crescere.

Non esistono più Paesi esenti dalla crisi o immuni dalla tentazione di accrescere il proprio debito pubblico per risolvere i problemi che li assillano. Ma tentativi di soluzione individuali possono aggravare la situazione comune e favorire la speculazione. Non sono quindi più opportune — anzi sarebbero nocive — bolle speculative, manovre inflazionistiche per sgonfiare i debiti e le incertezze nel salvataggio dal default di Nazioni vicine.

Esistono invece strategie di crescita, valide soprattutto per Paesi che possono contare su valori economici quali il risparmio delle famiglie, un sistema efficiente di medie imprese e banche forti sul territorio. Questi Paesi, invece di lasciarsi tentare da soluzioni in apparenza facili come quella di usare il denaro delle famiglie per ridurre il debito pubblico, dovrebbero individuare le strade per convogliare parte del risparmio liquido disponibile nel rafforzamento delle medie imprese, senza penalizzare il risparmio stesso.

È una soluzione questa che permetterebbe davvero di produrre crescita e occupazione. Convogliando, per esempio, circa il dieci per cento del risparmio delle famiglie di un Paese sulle medie imprese sane e trainanti — attraverso lo strumento di obbligazioni convertibili a dieci anni con un tasso che copra l’inflazione, collocate dalle banche e possibilmente in base a proposte fatte dalle locali associazioni degli industriali — si potrebbero mettere ingenti capitali a disposizione di alcune decine di migliaia di aziende.

Questa strategia garantirebbe nuove risorse per gli investimenti oggi non ottenibili dalle banche e dai fondi, produrrebbe piani di crescita più aggressivi, rafforzerebbe l’occupazione e offrirebbe persine maggiori garanzie alle banche per i loro finanziamenti. Potrebbe inoltre diventare la base per attrarre e raccogliere altri capitali di rischio, anche internazionali.

Riguardo al debito pubblico, le partecipazioni di Stato, soprattutto quelle strategiche (come energia, difesa, infrastrutture), potrebbero, invece di essere cedute, essere poste a garanzia reale del debito stesso, per renderlo meno oneroso e più attraente per i sottoscrittori internazionali. Di fronte a emergenze gravi, una percentuale del debito pubblico — e non certo quello in mano alle famiglie — potrebbe inoltre venire congelata per un periodo accettabile a un tasso che preservi solo dalla inflazione. In molti Paesi non mancano competenze accademiche e industriali che potrebbero collaborare con i Governi. È forse giunto il momento di istituire degli advisory board permanenti.

Un “prestito” per equità

II rilancio di un Paese, in una situazione di difficoltà come l’attuale, si dovrebbe fondare sulla scelta dell’uso più opportuno delle scarse risorse disponibili affinchè si trasformino in vantaggi competitivi adatti al momento. Il nostro Paese ha due vantaggi principali: il risparmio delle famiglie (che equivale anche alle scarse risorse disponibili) e le capacità imprenditoriali, uniche al mondo, consistenti in migliaia di medie imprese. Vantaggi potenzialmente complementari, anche se non lo sono stati finora realmente. Il successo del progetto sta nel riuscire a renderle realmente complementari e sinergiche, riconducendo, in modo opportuno, l’investimento del nostro risparmio nelle nostre imprese.

Il processo di globalizzazione ha reso più difficile questa prospettiva perché ha separato in modo complesso le tre dimensioni economiche dell’uomo. L’uomo, quale lavoratore-produttore, che trae reddito dal suo lavoro, è diventato meno competitivo nel globale, verso altri produttori con vari vantaggi di costo. L’uomo-consumatore è stato portato ad acquistare, con il reddito del suo lavoro, beni a prezzo più vantaggioso ma spesso, conseguentemente, prodotti altrove. L’uomo-risparmiatore è stato portato a investire la parte di reddito non spesa dovunque gli fosse stato prospettato miglior rendimento, dovunque si trovi.

Paradossalmente, nel mercato globale, queste tre dimensioni sono entrate in conflitto, l’uomo lavora in un’impresa dove genera reddito, con questo compra prodotti importati più concorrenziali, con ciò che risparmia investe in un’impresa che prospetta rendimenti più remunerativi ma concorrente con la sua, rafforzandola. In pratica l’uomo-consumatore e l’uomo-investitore hanno minato le sorti dell’uomo- lavoratore sia pur, a breve, dandogli soddisfazioni.

La nostra soluzione strategica per uscire dalla crisi sta nel convogliare il nostro risparmio (che è rischio) nelle nostre imprese (anch’esse a rischio) per rafforzare l’occupazione (molto a rischio) e per creare condizioni di sviluppo (oggi a rischio). Conseguenza di questo equilibrio sarà anche la maggior disponibilità al formare famiglie e a fare figli, condizione indispensabile per creare condizioni di crescita sostenibile.

Se potessimo perciò convogliare quella parte di risparmio, che si vorrebbe prelevare con imposte patrimoniali, nel rafforzamento patrimoniale delle nostre e medie imprese, cui manca proprio capitale di rischio (l’equity), avremmo fatto veramente un progetto utile allo sviluppo del nostro paese. Magari dispiacendo a qualche altro Paese che guarda le nostre imprese con appetito.

Il problema è come farlo correttamente verso imprese meritevoli, sane e trainanti, e come garantire al meglio la non penalizzazione del risparmio (cosa che la patrimoniale farebbe senza dubbio). Il risparmio italiano è circa sei volte il debito pubblico, ma circa il 60% è investito in immobili, circa il 30% in azioni di imprese e solo circa il 10% è liquido e vale qualcosa come 8-900 miliardi di euro. Se il 10% di questo risparmio liquido venisse “prelevato” (al posto della patrimoniale) e convogliato come risorsa disponibile per le medie imprese si tratterebbe di disporre di circa 80-90 miliardi di euro da “investire” su 5-20 mila imprese, con importi diversi secondo attrattività e merito.

Questi investimenti potrebbero esser fatti attraverso ingresso diretto nel capitale di rischio o con obbigazioni convertibili in azioni a 10 anni a tassi di remunerazione che coprano solo l’inflazione. Il processo di investimento dovrebbe esse gestito dalle nostra banche che investirebbero detto risparmio in “portafogli” di imprese selezionate e da loto controllare (per distribuire meglio il rischio). Le proposte di investimento potrebbero esser delegate alle Associazioni industriali e le decisioni a commissioni di investimento che dovrebbero coinvolgere altri organismi ed esperienza (anche privati, quali fondi di private equity).

I vantaggi di questo progetto per le imprese italiane sarebbero piani di crescita più aggressivi, maggiori investimenti, crescita occupazione, maggior attrattività per aItri investitori di capitali, ecc. E in più l’opportunità di maggior trasparenza, maggior gettito fiscale conseguente (minor sommerso) ed occupazione più stabile.

Ben concepito questo progetto, alternativo alla patrimoniale, potrebbe rappresentare un buon investimento finanziario (oltreché strategico per il Paese) per il risparmiatore “depredato” dalla sua libertà di investitore (per un 10%). Ma i tempi attuali non sembrano esser poi tanto favorevoli per i risparmiatori, se non si vuole prender rischio non si riceve di fatto remunerazione dopo l’inflazione, se si accetta di prender rischio tanto vale investire nelle imprese domestiche, ben gestite, che creano da noi occupazione, pagano le tasse e creeranno ricchezza.

Una materia prima chiamata risparmio

Le turbolenze sui mercati internazionali, che riguardano soprattutto le vendite dei titoli di  Stato dei  Paesi europei, sono dovute a due fattori principali: l’aggressiva concorrenza americana nella ricerca di sottoscrittori del proprio debito pubblico e la percezione della crescita dei rischi legati ai bond europei, con la conseguente riduzione del loro peso nei portafogli obbligazionari.

Per sconfiggere queste turbolenze, e frenare le vendite ingiustificate di titoli di Stato, si deve ridurre il loro profilo di rischio e renderne più attraente la sottoscrizione attraverso prospettive chiare di ripresa economica. La crescita è l’unico elemento che garantisce stabilmente la diminuzione del debito pubblico e la capacità di garantirlo.

I progetti di crescita economica, in questo momento specifico, si devono fondare sul sostegno reale e competitivo del lavoro, grazie all’uso ottimale delle risorse disponibili in ogni singolo Paese. Il rafforzamento dell’occupazione si fonda sul consolidamento della produzione interna, che deve anche essere competitiva per non penalizzare i consumatori con misure protezionistiche.

Per raggiungere questo obiettivo sono necessarie risorse per gli investimenti e per finanziare una crescita più aggressiva. Queste risorse sono disponibili e sono i risparmi, che vanno protetti e valorizzati, convogliandoli verso i progetti che rafforzino le economie nazionali e l’occupazione. E che, di conseguenza, valorizzino il risparmio stesso.

Ma il risparmio sembra oggi essere visto come una delle tante risorse da usare per risolvere problemi contingenti in un’ottica di breve respiro. Invece esso non è una risorsa come le altre. Non è facilmente riproducibile, anzi è un po’ come il petrolio, le cui riserve sono in esaurimento e che pertanto va utilizzato con giudizio, limitandone gli sprechi. A differenza di quanto accade nel settore energetico, il risparmio non può però contare su fonti alternative. Si deve quindi smettere di considerarlo come un limone da spremere, ma si deve invece valutare come bene da sostenere e valorizzare.

II risparmio oggi è bersaglio di una forte tassazione sui redditi che lo producono, ed è oggetto di ulteriori prelievi fiscali quando viene investito e quando crea reddito. Viene occultamente tassato anche quando la sua remunerazione non copre neppure il tasso d’inflazione, e viene messo a rischio quando, alla ricerca del rendimento a tutti i costi, viene convogliato su investimenti pericolosi. Ma il rischio più grosso, quello di estinzione, il risparmio lo corre quando viene indirizzato a sostegno dei consumi, quando cioè il potere di acquisto si trasforma in dovere di acquisto (solo in Italia, negli ultimi venticinque anni, il tasso di risparmio sui redditi prodotti è infatti crollato dal 27 al 5 per cento).

Il risparmio costituisce quindi una materia prima preziosa e rappresenta un vantaggio competitivo da utilizzare al meglio. Deve essere usato per favorire sviluppo, crescita e occupazione. Non deve essere considerato come garanzia onerosa dei debiti contratti dagli Stati, ma come garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza della famiglia che lo ha formato. Quella stessa famiglia che, generando figli ed educandoli, crea valore per la società producendo anche investimenti e consumi. La famiglia è in fondo il primo motore della crescita economica vera e stabile. Quella che assorbirà il debito e stabilizzerà i mercati.

Sono i figli il motore della ripresa

Osservando la popolazione dei Paesi occidentali – in particolare, i Paesi che si potrebbero definire “maturi”, come gli Stati Uniti e quelli che formano l’Europa dei 20 – si nota che la percentuale di popolazione con un’età al di sopra dei sessant’anni continua a crescere sensibilmente. Oggi le persone comprese in quella fascia di età rappresentano circa un quarto del totale. Nei Paesi emergenti, invece, non arrivano a un decimo. E già si avverte come i costi di questa tendenza non siano in realtà sostenibili.

L’invecchiamento della popolazione può essere infatti considerato la vera origine della crisi economica in atto. Ma nel prossimo decennio i suoi effetti rischiano di non essere più sopportabili, perché la percentuale sempre maggiore di persone che esce dalla fase produttiva diventerà un costo fisso impossibile da assorbire e da sostenere da parte di chi produce. Sempre meno persone, inoltre, entrano nel ciclo produttivo e, quando riescono a entrarvi, lo fanno molto lentamente. Senza considerare i cambiamenti del concetto di occupazione diffuso sino a qualche tempo fa.

I costi di una popolazione sempre più anziana non potranno quindi essere sostenuti dai giovani, i quali, oltre a essere sempre di meno, potrebbero anche chiedersi perché dovrebbero farlo, soprattutto se immigrati. Un altro fenomeno, meno osservato, relativo all’invecchiamento della popolazione sta nel cambiamento della struttura dei consumi. Sintetizzando un po’ brutalmente, si potrebbe affermare che si comprano meno auto, ma più medicine. Sta cambiando, e cambierà sempre più, anche il ciclo di produzione del risparmio, in declino e destinato a crollare: prima perché ha dovuto sostenere i consumi, ora a causa della drastica riduzione dei redditi.

Di fronte a questa realtà, è indispensabile avere il coraggio di affrontare il tema delle nascite e dell’invecchiamento della popolazione. Trascurarlo è dannoso, e per questo è ormai improrogabile la definizione di strategie per sostenere concretamente le famiglie nella loro naturale vocazione ad avere figli. Solo così potrà essere innescata una vera ripresa economica.

Una famiglia di oggi con due redditi guadagna meno di quanto trenta anni fa la stessa famiglia guadagnava con un solo stipendio. E questa è la conseguenza della crescita delle imposte sul prodotto interno lordo, raddoppiate nello stesso periodo proprio per assorbire le conseguenze dell’invecchiamento dovuto al crollo delle nascite.

I governanti dei Paesi “maturi” devono investire nella famiglia e nei figli per generare una rapida crescita economica, grazie all’attivazione di fattori quali l’aumento della domanda, il risparmio e gli investimenti. Le persone anziane sarebbero così maggiormente accettate, e non solo sopportate, come a volte avviene oggi. In fondo, la natura stessa insegna che se l’uomo e la donna non generano figli è difficile che qualcuno si prenda cura di loro quando invecchieranno. Lo Stato ci può provare, ma a costi altissimi.