Complotto delle tasse

ratingTempi n.3 25 gennaio 2012

Non sono agenzie di rating serve della Cia né perfidie tedesche a metterci in ginocchio. Oscar Giannino punta il dito contro il “keynesismo all’amatriciana” che da decenni imposta la politica economica italiana sulla spesa pubblica. Perché c’è un perverso filo rosso che lega Visco, Tremonti e Monti. E non fa crescere il paese.

di Oscar Giannino

Con vera e profonda amarezza, che assisto in queste settimane e in questi ultimi giorni, dopo l’ennesimo declassamento “di massa” europeo da parte di Standard&Poor’s, declassamento nel quale l’Italia è stata retrocessa di altri due gradini al rango di BBB+, al prendere sempre più piede di una reazione ispirata insieme a molta buona fede e a parecchia malafede. Anche in ambienti culturali e intellettuali che mi sono assai cari, monta un mix sempre più stizzoso di accuse ai tedeschi, di inconsapevole miopia o di consapevole volontà di Götterdammerung, e di teorie della cospirazione per le quali le agenzie di rating sarebbero il braccio armato del capitalismo americano.

Capisco – ma non giustifico – chi si lanci in queste accuse perché spaventato dalle conseguenze di una crisi senza fine e in via di ulteriore peggioramento, ed esacerbato per le manovre su manovre di correzione della finanza pubblica. E questa è la buona fede. Ma respingo e condanno invece la malafede, che allinea in politica chi ieri diceva nel centrodestra che tutto era stato fatto, e chi oggi dal pulpito del governo dei tecnici continua a dire la stessa cosa, dopo il decreto enfaticamente battezzato salva-Italia.

Francamente, da chi – io, voi, noi – nutre un’idea sussidiaria e non dirigista della politica economica, e personalista e non comunitarista o collettivista della filosofia politica, penso di dovermi aspettare tutt’altro. Ecco perché, quando il direttore di Tempi mi ha chiesto di rispondere alla domanda: «Ma i tedeschi con la loro rigida pretesa di rigore non capiscono che si va a sbattere, oppure il loro vero interesse è la rottura dell’euro, per restare con pochi paesi intorno a sé mentre noi andiamo a fondo?».

Quando ha aggiunto: «Perché mai accettare che le agenzie di rating debbano dettare le politiche?»; quando ha concluso: «ma non è meglio tornare a una banca centrale che obbedisca a parlamento e politica?», francamente ho capito che era inutile e pretestuoso farsi cadere le braccia, da parte mia. Occorre semplicemente e umilmente spiegare come la penso. Per poi, come si fa tra amici veri tra i quali ogni malpensare è bandito per definizione, accettare senza malanimi l’eventualità che magari davvero la pensiate in maniera totalmente diversa da me.

Cerco di andare al punto, senza perdermi in tante considerazioni tecniche. Tre premesse, però. Una sull’euro e i tedeschi. Una seconda, sulle agenzie di rating. Una terza, sul bivio di fronte a noi. Poi vado alle conclusioni.

Prima premessa. Non è questo il momento per rifare la storia delle storture dell’euro ab origine. Mi limito a ripetere che tenendo separati da regolamentazioni nazionali – alle quali la politica di qualunque colore non vuole abdicare, in nessuna euronazione – i diversi mercati dei beni e dei servizi, le diverse curve di costo di aree nazionali e subnazionali dei diversi paesi a moneta comune restano incapaci di equilibrarsi per il principio dei vasi comunicanti.

Poiché i debiti pubblici sono nazionali, fu accettato per definizione da politici e opinioni pubbliche che hanno aderito all’euro che la convergenza dovesse avvenire attraverso rigore in finan­za pubblica cioè poco debito di Stato, e produttività nell’economia reale cioè poca esposizione sull’estero nelle partite correnti. Altrimenti l’euro salta, c’è poco da fare. Non è che sono i tedeschi a farlo saltare, perché loro sono stati rigorosi in finanza pubblica e hanno riscritto welfare e contratti di produttività per rendere competitiva l’economia reale.

Seconda premessa. I soci di molte agenzie di rating sono grandi fondi d’investimento americani e anglosassoni. Non prendono ordini dalla Cia. I conflitti d’interesse delle agenzie di rating sono conclamati nell’esame delle aziende private, perché da loro stesse prendono i soldi. Ma nel caso dei debiti sovrani no, il problema è un altro: quello cioè che Fed e Bce non diano automaticamente fede pubblica ai giudizi di S&P, Moody’s, Pitch eccetera quanto a valutazione dei collaterali offerti dal sistema bancario nelle aste di liquidità. La Bce già si comporta così. Fine.

Che i grandi fondi mondiali e nazionali invece diano retta alle agenzie è fisiologico. Rispondete alle seguenti domande. È vero o no che il giorno precedente il downgrading continentale Germania esclusa, la Grecia ha interrotto le trattative con le banche per la loro compartecipazione a tagliare del 50 per cento il debito greco in circolo? È vero o no, che il governo greco ha dichiarato che è pronto a fregarsene dell’accordo, e a procedere autonomamente per legge svalutando il debito motu proprio almeno del 70 per cento?

È vero o no che questo significherebbe default argentino cioè ritorno alla dracma svalutata ancor più del 70 per cento, e uscita dall’euro? È vero o no, che a quel punto per tutti gli eurodeboli tutto diventerebbe ancor più difficile? È vero o no che le difficoltà aumenterebbero anche per noi, con i nostri 440 miliardi di titoli da piazzare nel 2012 per di più con una larga percentuale a lunga durata decennale e settennale, cioè i titoli che meno le banche possono tornare a comprare perché implicano maggior assorbimento di capitale, rispetto a quelli a corta scadenza pur dopo la provvista straordinaria Bce? Poiché a tutte queste domande la risposta è “sì, è vero”, lasciamo allora ai politici l’attacco a testa bassa alle agenzie di rating che ne giudicano insufficiente ancora l’operato.

I dubbi sul “fiscal compact”

Terza premessa. Nessuno può onestamente dire che cosa avverrà della Grecia, né se arriveremo in un paio di mesi a una modifica del cosiddetto “fiscal compact” concordato l’8 dicembre e in via di stesura tecnica, accordo che in quanto tale i mercati hanno secondo me ragione a giudicare inadeguato alla risposta a una domanda secca: c’è un meccanismo cooperativo immediato europeo per salvare gli Stati più a rischio?

No che non c’è, nel fiscal compact. E perché ci sia non è vero che bisogna piegare i tedeschi e convincere la Bce a fare la Fed. Basta anticipare da subito l’Esm (European stability mechanism) previsto nel 2013, dotato di capitale proprio e non di garanzie nazionali sottoposte a svalutazione di rating, e aprire all’Esm la possibilità di interfacciarsi con la Bce come una qualunque banca europea. Basterebbe eccome.

E se obiettate che i tedeschi non si fanno prendere per il naso perché comunque significherebbe un sostegno centrale per quanto indiretto ai debiti nazionali, io vi rispondo che è quel che già oggi avviene, anche se molti antigermanisti lo dimenticano. Nel sistema Target di finanziamenti tra banche centrali, la Bundesbank è esposta per quasi 700 miliardi di euro verso le banche centrali degli altri euroappartenenti, per lo più verso gli eurodeboli.

Vi faccio notare che l’intero Tarp americano (Troubled Asset Relief Program, il maxi fondo statunitense varato dall’amministrazione Obama per dare sollievo ad un’economia in piena crisi, che ora ha chiuso i battenti) valeva 2,2 trilioni di dollari, dei quali 1,4 destinati a intermediari bancari, il resto a non bancari. Ma 700 miliardi di euro sono 1 trilione di dollari, e poiché la Germania conta 80 milioni di abitanti rispetto a più di tre volte di americani, la conseguenza da ricordare a chi accusa Berlino è che la Germania si è esposta in aiuto al resto dell’euroarea assai più di quanto gli Usa abbiano fatto per l’intero proprio mercato!

Chi comanda in Italia

Fatte queste tre premesse, in realtà, stante la sua bassissima crescita da 15 anni e il suo altissimo debito pubblico, all’Italia conviene perseguire la via del rigore e della produttività in entrambi i casi. Sia che l’euro si salvi con un nuovo accordo. Sia che salti, e in quel caso bisogna sperare di poterne concordare un exit condiviso, per contenerne i costi comunque paurosi, e con tanti drammatici saluti alla leadership germanica di una delle tre macroaree monetarie mondiali.

Veniamo dunque al punto finale. È vero o è falso, che l’Italia ha fatto dopo la manovra Monti tutto quel che doveva fare, e che dunque la colpa ora è degli altri? Qui conta il punto di vista. Il mio è quello richiamato all’inizio: sussidiario e personalista, non dirigista e collettivista. E la mia risposta – la mia che ho pure sostenuto questa formula di governo emergenziale come necessaria, come sapete – è: no, non è vero.

La linea adottata dal decreto “salva Italia” è infatti di totale continuità rispetto a quella seguita dal centrodestra suo predecessore, e dal centrosinistra prima. Dei 48, 71 e 81 miliardi di miglioramento dei saldi pubblici nel triennio 2012-13-14, i tre quarti si devono ai decreti Tremonti, poco più di un quarto al decreto Monti. Ma quel che conta è che l’81 per cento del saldo migliorato nel 2012, il 72 per cento e il 76 per cento nei due anni successivi si devono esclusivamente ad aggravi fiscali. In totale continuità, ripeto, con la linea Visco-Tremonti.

Perché avviene questo? Perché in realtà anche se al governo c’era il centrosinistra o il centrodestra oppure i tecnici, dai tempi della manovra Amato a oggi tutte le volte in cui siamo andati a un millimetro dal burrone a “comandare” davvero – al di là delle recite politiche – è stata la medesima impostazione tecnico-culturale.

Se dovessi brutalmente sintetizzarla, la somma dei keynesiani “macro” della Cattolica e della Bocconi, che hanno impregnato di sé la Ragioneria generale dello Stato come i vertici della tecnocrazia ministeriale. È questo lo zoccolo duro del potere economico pubblico italiano. Persone assolutamente rispettabili e per bene come Grilli e Giarda, lì da 20 anni a cercare di attuare ogni volta quel che Nino Andreatta diceva però più di 20 anni fa, quando le cose stavano ben diversamente, perché oggi certo Nino di fronte a peso di spesa pubblica e pressione fiscale sul Pii avrebbe ben cambiato idea.

L’idea del continuismo è che il rientro del debito pubblico italiano si persegue operando sui flussi, cioè attraverso sanguinosi avanzi primari nella proporzione di almeno 5 punti di Pii l’anno da realizzare soprattutto tramite più tasse visto che la spesa a loro giudizio è comprimibile solo per pochi “sprechi” essendo sociale. E pazienza se la conseguenza di consimili avanzi primari per via fiscale è obbligatoriamente minor crescita quando va bene, e recessione quando la congiuntura europea e mondiale come oggi ci spinge ancor più in basso.

Al contrario, l’esperienza – non dico la scuola perché in questo caso significa abiurare al “Keynes all’italiana idest all’amatriciana” che da decenni è in voga nell’accademia e nei media italiani – dico almeno l’esperienza dovrebbe farci cambiare linea, l’esperienza oggettiva dico di 15 anni di scarsa crescita e di pressione fiscale record mondiale, visto che le manovre del 2011 alzano di oltre 300 punti base la pressione fiscale sul Pii per ognuno dei 3 anni rispetto alle previsioni pubbliche del giugno 2011.

Il che significa sfiorare il 46 per cento nel 2013 e 2014 sul Pil, e depurando il denominatore dal 16,8 per cento aggiunto dall’Istat per il nero di chi le tasse non le paga siamo ormai al 54 per cento e rotti sul prodotto di chi le tasse le paga. Il che ulteriormente significa che sull’utile lordo d’impresa arriveremo dal 68 per cento di pressione del 2010 a circa il 75 per cento, come media tra livelli ancora più elevati per la stragrande maggioranza di imprese micro e piccole (non chiediamoci poi perché tante provino ad evadere) e 40 e più punti in meno dell’impresa grande e delle banche.

Rispetto a questa linea, l’alternativa sussidiaria e personalista rispetto alla linea dirigista e collettivista è lavorare sugli stock, non sui flussi. Ripeto, viene dalla constatazione che così continuando ammazziamo ulteriormente il paese. Ma è anche e innanzitutto un’alternativa di scuola. Perché se abbiamo l’idea del debito pubblico come non debito tra noi e noi stessi che è tipica del keynesismo, ma invece passività a carico del futuro taxpayer tanto più distorcente quanto più l’attore economico “incorpora” da subito diminuendo consumi e investimenti dando per scontato che tanto sarà affrontata solo o quasi attraverso più tasse – seguendo le tesi di James Buchanan e di Bob Barro, nonché l’equivalenza ricardiana applicata alla teoria del ciclo del risparmio vitale su cui Franco Modigliani prese il Nobel – allora ne discende che dobbiamo affrontare deficit e debito impugnando l’ascia dei tagli agli stock, non la pompa incrementale sui flussi fiscali.

Ergo: il debito pubblico va abbattuto con dismissioni per 30 punti di Pil di attivo pubblico, a partire dal mattone di Stato ma non solo. La spesa pubblica va abbassata in 8-10 anni di almeno 10 punti di Pil, dagli attuali 840 miliardi tendenziali. Come hanno fatto diversi paesi avanzati nel precrisi, paesi di democrazia welfarista, non parlo della Thatcher. La Germania, l’Australia, il Canada, la Nuova Zelanda.

Il coraggio di rivedere il welfare

Non smantellando i diritti sociali, bensì rivedendo il welfare come coi pacchetti Hartz a Berlino, rivedendo dalle fondamenta apparati pubblici, costi e meccanismi di fornitura, livelli sovrapposti di governance, e cedendo al mercato pezzi interi di Pubblica amministrazione con relativo personale pubblico. Ricordo a tutti che nel Regno Unito non c’è un solo treno pubblico da più di 20 anni – hanno ripubblicizzato la sola rete cioè i binari, anni fa – e grazie a questo la domanda e l’offerta sono aumentati di quasi il 70 per cento dalla privatizzazione.

Da noi col tutto pubblico abbiamo iper-finanziato l’alta velocità – con costi-km per investimenti a carico contribuente dalle 3 alle 5 volte superiori alla media europea – che è aperta alla concorrenza e che dunque ha più marginalità, ma il totale dei cui passeggeri non pareggia quello che l’incumbent ha perso su tutti gli altri segmenti che ha dovuto ridurre.

Potrei continuare a iosa, lo sapete benissimo… Dalle Poste, a molto altro. L’alternativa c’è, alla linea macro-keynesista statalista e fiscalista, è una linea micro-offertista, sussidiaria e personalista. Che abbassa spesa ed entrate avvicinandole a chi paga per tornare all’einaudiano principio del beneficio, che libera energie per la crescita invece di drenarle, e che smonta dalle fondamenta l’opaco consenso tra nicchie protette d’impresa e 250 mila italiani che campano di politica e amministrazione apicale pubblica (non stupitevi, perché se sommate gli 8 mila Comuni e le Province e le Regioni ai 1.000 parlamentari e alle 7 mila società locali e alle centinaia di società controllate dallo Stato a livello centrale coi loro cda, il conto purtroppo torna come ordine di grandezza).

Non è affatto vero che a pensarla così siano solo “pittoreschi personaggi che evidentemente difendono gli evasori”, come ha scritto Corrado Augias su Repubblica. La pensano così economisti come Paolo Savona – leggete il suo appena edito “Eresie, esorcismi e scelte giuste per uscire dalla crisi (Rubbettino) – come Nicola Rossi, come Mario Baldassarri, come Sandro Bisin, come Giulio Zanella, come Eugenio Somaini. E tanti altri. Se avesse avuto testa – perdonate la durezza – il centrodestra avrebbe dovuto dar loro retta, invece di continuare sulla linea dominante. Non bisogna abbandonarla perché è di sinistra, ma perché è sbagliata, perché ci taglia le gambe.

Prima di dire che abbiamo fatto tutto il necessario, forse è il caso di imboccare la strada giusta. Voi che dite? E quando dico imboccare, significa una sola cosa. Che chi la pensa così deve lavorare per avere rappresentanza alle prossime elezioni politiche. Ci sia l’euro come spero, o meno. Perché questa è l’unica strada, per un’Italia che a testa alta e a portafogli che tornino pieni, conti domani 40 milioni di occupati. Sì, avete letto bene, 40: cioè che dia lavoro a giovani anziani e donne, alzando di 15 punti almeno la partecipazione al mercato del lavoro.