Prove di Stato di polizia

guardia_finanzala Bussola quotidiana 1 febbraio 2012

di Mario Palmaro

Da qualche tempo, più o meno da quando in Italia è iniziata l’Era del serenissimo governo tecnico, il rapporto fra Stato e contribuenti è bruscamente cambiato. Non si tratta tanto di sostanza: da sempre ogni stato esige dai suoi sudditi una certa quantità di gabelle, lo stato inseguendo e i sudditi, senza troppo entusiasmo, aprendo la borsa. Ciò che è mutato è, piuttosto, il clima, l’atteggiamento, l’atmosfera.

Insomma: tira un’aria strana, a metà strada fra l’incitamento alla delazione e lo scatenamento di uno stato di polizia. Vale sempre la pena, quando si tocca il tasto delle tasse, precisare che qui nessuno vuole tessere l’elogio dell’evasore, né mettere in cattiva luce chi, per dovere e mestiere, ha il compito ingrato di rastrellare le imposte e scovare i furbetti.

Il punto è un altro: ed è che questa escalation di operazioni della Guardia di finanza, questi blitz quotidiani, questa colpevolizzazione a targhe alterne delle categorie in blocco (una volta i ristoratori, un’altra i frequentatori di alberghi di lusso, ma solo a Cortina, e così via); questa concatenazione di fenomeni essenzialmente mediatici  fa pensare. E mette un po’ i brividi.

In fondo, si sta preparando il terreno a un capovolgimento giuridico e morale, che si chiama presunzione di colpevolezza. E’ come se si stesse costruendo giorno per giorno uno scenario nel quale il cittadino è, a priori, evasore; potrà casomai, provare lui, a suo carico, di essere invece un onesto pagatore delle imposte. A parte il fatto che c’è una tassazione – quella indiretta – alla quale nessuno può sottrarsi nello stesso momento in cui consuma un certo bene.

Ma il punto dolente è un altro: e cioè che questa inversione dell’onere della prova è gravissima, e non è degna di una civiltà giuridica gloriosa come la nostra.

C’è un garantismo penale che più o meno tutti ammettono: nessun cittadino è colpevole fino a quando non è stato condannato con una sentenza passata in giudicato. Questo significa che l’imputato, sbattuto in prima pagina, passato ai raggi x a Porta a Porta, magari con lo sguardo lombrosianamente tipico del delinquente nato; tale imputato è, fino alla sentenza di terzo grado, innocente.

Ora, qui ci vorrebbe che qualcuno rispolverasse un analogo, a fortiori ancor più ragionevole, garantismo fiscale. Un garantismo che permettesse di riconoscere che ogni cittadino non è un evasore fiscale fino a prova contraria. E che non basta appartenere a una certa categoria, o frequentare un certo luogo, o guidare una certa macchina, per essere subito classificato come farabutto.

Questa immagine di un potere costituito che incombe arcigno e fruga nelle nostre tasche è orribile, e fa pensare che Max Weber avesse ragione quando definì lo Stato, fra lo sconcerto generale dei suoi studenti, “un gelido mostro”. Anche perché questa forma mentis è funzionale a dimenticarsi una verità elementare: e cioè che lo stato esiste in funzione della società civile, in funzione dell’uomo, in funzione del bene comune.

Non il contrario. Non vorremmo che si preparasse sotto i nostri occhi una statolatria che, francamente, pensavamo di aver rottamato con Marx e tutti i suoi nipotini. Magari “tecnica”, magari benedetta dai liberali del Corriere della Sera, ma sempre di statolatria si tratterebbe.