Dc, la balena spiaggiata

mani puliteStudi cattolici n 610 – dicembre 2011

di Ugo Finetti

Nel corso degli ultimi quindici anni è andata prevalendo la tendenza a ricostruire la storia dell’Italia repubblicana alla luce di Tangentopoli. È indubbio che quanto emerso dalle inchieste giudiziarie sia una «fonte» storica ineludibile, ma quel che suscita perplessità è la sottovalutazione di altre fonti quali, per esempio, gli archivi di partito, in particolare del Pci, oppure le stesse carte di «Mani Pulite» omesse nella divulgazione giornalistica dell’epoca. L’estraneità del Pci al sistema delle tangenti sostenuta dai magistrati è ormai ampiamente smentita.

Così si esprimeva Enrico Berlinguer in seno alla segreteria del Pci quando egli la riunì d’urgenza all’indomani dell’esplodere dello scandalo delle tangenti a Parma nel 1975: «Occorre ammettere», affermò il segretario del Pci, «che ci distinguiamo dagli altri partiti non perché non siamo ricorsi a finanziamenti deprecabili». La rendicontazione dei fondi neri, la cosiddetta «amministrazione straordinaria», veniva fatta a Berlinguer a quattrocchi da chi la gestiva e riassunta su un foglietto che poi il leader del Pci immediatamente stracciava.

Nel corso degli anni della «solidarietà nazionale» la «riserva» a disposizione di Berlinguer raddoppia passando da 4 miliardi nel 1975 a 7 miliardi e 912 milioni alla fine dell’esercizio 1978 e poi nel ’79 raggiunge gli 8 miliardi e mezzo. Gli stessi verbali delle riunioni della Direzione del Pci sul finanziamento del partito tra l’introduzione della legge sul finanziamento pubblico fino alla scomparsa di Berlinguer- dal 1973 al 1984 – smentiscono la tesi giudiziario-giornalistica del Pci con le «mani pulite».

Ma gli storici, avvalendosi appunto delle fonti giudiziario-giornalistiche, sono andati consolidando non solo opinabili interpretazioni, ma soprattutto drastiche cancellazioni. È così che, per cominciare, cattolici e socialisti sono stati retroattivamente estromessi dalla storia della Resistenza che viene prevalentemente insegnata come opera dei comunisti con la sola aggiunta dell’evanescente partito d’azione: «Azionisti e comunisti», sentenzia Nicola Tranfaglia, «furono le forze fondamentali che riportarono l’Italia alla democrazia».

La fine della prima Repubblica

Ma il dato prevalente è rappresentato dal giudizio negativo che viene dato in blocco del periodo che va dal 1979 al 1992, dalla fine delle maggioranze con la partecipazione comunista alla fine della Prima Repubblica. Come è stato evidenziato dallo storico Agostino Giovagnoli, siamo di fronte a «una storiografia della crisi ispirata dagli esiti negativi o addirittura catastrofici della cosiddetta Prima Repubblica» che porta anche autorevoli storici a vedere «la storia del primo cinquantennio repubblicano come una parabola inizialmente ascendente e poi discendente».

La svolta verso il declino è rappresentata dall’Italia che alla fine degli anni Settanta viene governata senza i comunisti in maggioranza. Spesso la datazione è anticipata di alcuni mesi per farla coincidere in modo più suggestivo ed emblematico con la morte di Moro. Con la fine di Moro inizia la fine della Prima Repubblica.

Lo stesso Moro diventa un non democristiano, immortalato nella statua che lo ritrae con l’Unità in tasca, che quasi consegna il testimone a Berlinguer. La sua stessa uccisione diventa un «mistero» nel senso che se ne attribuisce la paternità, come mandanti delle Brigate Rosse, alle destre italiane o straniere (la P2 o la Cia, Gelli o Kissinger, il Mossad israeliano). Fatto comunque indiscutibile – per numerosi storici italiani – è che da allora, per tutti gli anni ’80 e fino a allo scioglimento del «Parlamento degli inquisiti» nel 1994, vi sarebbe stata una lunga, squallida e inconcludente agonia.

Emblematico è, per esempio, il saggio edito da Laterza dedicato alla storia del Novecento e che appunto per quanto riguarda gli ultimi decenni li riassume in tre capitoli intitolati: il terrorismo, il maxiprocesso, Tangentopoli. Insomma, secondo i principali contemporaneisti la storia d’Italia va letta secondo la falsariga giudiziaria. E quindi naturale che contrastare questa «vulgata» è come mettersi a mani nude sotto le cascate del Niagara.

Eppure c’è chi non si arrende e ci prova. In questa ricerca di una verità più equilibrata evitando la «storiografia sommaria» si colloca il libro di Gerardo Bianco realizzato in «conversazione con Nicola Guiso», La balena bianca. L’ultima battaglia 1990-1994 (Rubbettino, Soveria Mannelli 2011, pp. 196, euro 14).

Bianco, a lungo a capo dei deputati democristiani, e Guiso, giornalista parlamentare e autore di saggi storici, padroneggiano la materia, hanno ben presenti i fatti e sono i fatti, prima ancora delle interpretazioni, che vengono seriamente ricostruiti e posti in primo piano. La rivisitazione di quegli anni non ha intenti polemici verso la magistratura né si arrocca in una difesa apologetica del proprio operato. In modo molto piano e sommesso si mette però a fuoco la realtà troppo offuscata dalla «cascata» di luoghi comuni e di pregiudizi.

La cosiddetta «classe politica screditata del 1992» fu quella che — ricorda Gerardo Bianco — «prese misure economiche drastiche che salvarono l’Italia dal naufragio, avviarono il risanamento e prepararono il terreno per l’adesione, fin dal primo momento, all’Euro. Questi i fatti».

La frattura degli anni 70

Gerardo Bianco in modo significativo ricorda come «sin dalla fine degli anni ’70, programmate e massicce campagne di stampa erano dirette a creare una frattura tra il mondo della politica (dissipatore di risorse) e il cosiddetto “Paese reale” (il produttore di ricchezza)» trovando l’avallo del Pci di Berlinguer. Si trattava, secondo Bianco, di «una contrapposizione strumentale tenuta viva nel corso degli anni ’80, nonostante i positivi risultati economici e sociali conseguiti in quel decennio dai governi (l’inflazione scesa dal 20% al 4%, crebbero le esportazioni e l’occupazione, la borsa quadruplicò la sua capitalizzazione, cessò l’emigrazione e iniziò una crescente immigrazione)».

Più in generale, Bianco insieme a Guiso ricapitola i momenti drammatici in cui la democrazia italiana ha preso forma a partire dal dopoguerra nel quadro dell’alleanza occidentale e dell’economia di mercato. Si tratta di una serie di scelte che si realizzarono dando modernizzazione non dovute ad automatismi scontati, ma in un quadro di autonomia e di creatività che hanno caratterizzato lo sviluppo italiano in Europa. Perché quindi il tracollo, unico in Europa, nel 1992-1994? La dettagliata e serena ricapitolazione di quel periodo solleva non pochi interrogativi circa numerosi snodi oscuri.

Un esempio per tutti: il comportamento dell’allora presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, dopo l’esplodere del caso Gladio (della cui esistenza erano sempre stati tenuti all’oscuro non solo i partiti alleati, ma i dirigenti della De) con «strane» decisioni: dalla nomina dei senatori a vita all’appello politico con cui scioglieva le Camere nel ’92, fino alle anticipate dimissioni da Presidente della Repubblica il giorno in cui, dopo l’elezione dei Presidenti delle Camere, avrebbe dovuto conferire l’incarico per la formazione del governo. E quindi il ruolo della mafia con gli assassini prima di Lima e poi di Falcone nel quadro dell’elezione del Presidente della Repubblica.

La svolta compiuta nel segno della «questione morale» esce da queste pagine molto lontana dalla conquista di uno stato effettivo di verità e di giustizia. È indubbio comunque lo sfondo oggettivo di quella svolta epocale che avvenne quando era luogo comune teorizzare, secondo il titolo del fortunato saggio di Francis Fu-kuyama, la «fine della storia». Il dissolvimento del comunismo viene vissuto come il risultato di una pacifica e simpatica «autoriforma». È generale la convinzione di avere di fronte la prospettiva di uno sviluppo unidirezionale, quasi automatico e senza alternative, in un mondo ormai pacificato secondo parametri comuni e un indiscusso primato dell’economia occidentale.

Quel che si deve fare non richiede particolari discussioni. Si afferma quindi in Italia una generale convinzione di essere di fronte a una strada obbligata che tanto più agevolmente potrà essere percorsa con meno partiti, meno politica, meno Stato e anche meno Italia e più Europa. Privatizzazioni e Moneta Unica si stagliano come una salvifica fuoriuscita dall’Italia, un’Italia in cui i partiti, la politica, lo Stato sono stati solo un peso, un freno, un’entità burocratico-parassitaria.

«Tangentopoli» celebra il processo che libera gli italiani dalla partitocrazia, dal regime dei partiti e dal primato della politica. Gerardo Bianco con Nicola Guiso offre elementi di meditazione critica su quell’euforia ’92-’94. Una riflessione «controcorrente» che però, a vent’anni di distanza, non manca di ragioni.

Proprio recentemente, al Meeting di Rimini, Giorgio Napolitano, che pur aveva affiancato come Presidente della Camera in quel biennio quasi acriticamente Oscar Luigi Scalfaro nel sostenere la «rivoluzione giudiziaria», ha posto in modo energico la necessità di una svolta critica nei confronti di quanto all’epoca fu prevalente. Quel che maggiormente colpisce nel discorso di Giorgio Napolitano a Rimini è infatti la datazione di un processo involutivo che è alla base dell’attuale crisi politica italiana.

«È un fatto», ha affermato Napolitano, «che da due decenni è in aumento la diseguaglianza nella distribuzione del reddito dopo una marcia secolare in senso opposto e lo stesso può dirsi del tasso di povertà. Si impone perciò una svolta». Alla denuncia del declino economico e sociale si salda quindi quella del degrado politico: «Non fatevi condizionare», ha detto ai giovani ciellini, «da quel che si è sedimentato in meno di due decenni: chiusure, arroccamenti, faziosità, obiettivi di potere e anche personalismi dilaganti in seno a ogni parte».

Grava cioè il peso di un ventennio negativo di cui liberarsi non come se fosse una mera parentesi, e cioè con il ritorno al passato, ma per costruire un futuro libero da mistificazioni e sulla base quindi di una rilettura critica e veritiera dei fatti di cui questo libro di Bianco e Guiso, dedicato appunto a quell’«ultima battaglia», è s è sicuramente un utile e fondato avvio.