Sui valori non negoziabili

stopHumanitas n.4 luglio-agosto 2011

di Luciano Monari

Più volte il Papa ha affermato che esistono per il cristiano alcuni valori definiti “non negoziabili”, valori che, per loro natura, non possono essere messi in discussione ma debbono essere difesi integralmente e in qualsiasi contesto. Di conseguenza, ha affermato il Papa, un cristiano che operi in politica non può mai accettare compromessi su questi valori, ma deve affermarli come intangibili e assoluti.

Queste affermazioni appaiono ad alcuni non solo difficili da accettare ma anche da capire. Se la politica è arte del negoziato, perché alcuni temi sarebbero per principio sottratti al confronto? Non significa, questo, negare il metodo democratico di decidere? O imporgli vincoli dall’esterno? Non siamo allora davanti a un’espressione di integralismo che non sopporta obiezioni e non riconosce alcun valore all’opinione altrui? Le domande sono interessanti e vale la pena riflettere, almeno per cogliere le coordinate del problema.

L’ordine politico rientra nelle strutture indispensabili di un’esistenza umana associata; suo scopo è garantire i diritti di ciascuno nel libero intrecciarsi delle persone e dei gruppi sociali; la vita sociale è un “gioco” e, perché esso possa funzionare, è indispensabile che a tutti sia garantito l’accesso al tavolo di gioco e la correttezza nello svolgimento del gioco stesso.

A sua volta la democrazia è una configurazione concreta di ordine politico; essa permette di giungere a decisioni riguardanti la collettività attraverso una procedura chiaramente definita e orientata a far emergere un consenso di maggioranza.

Naturalmente l’ordine politico non parte da zero, non è il risultato puro e semplice del negoziato tra le persone. Prima dell’ordine politico esistono uomini e donne che si relazionano gli uni con gli altri, discutono, collaborano, litigano, progettano, dialogano. L’ordine politico cerca di regolare questo complesso di interrelazioni in modo che la società possa realmente funzionare.

Insieme decidiamo quale ordine economico preferiamo realizzare, quale posto dare alla partecipazione pubblica e quale alla impresa privata, come regolare la libertà di espressione perché non siano lesi diritti di nessuno e così via.

Ebbene, secondo la visione della Chiesa, ci sono alcuni diritti che non dipendono dal riconoscimento e dalla decisione dei gruppi sociali, non emergono dal confronto e dal compromesso tra le diverse opinioni e interessi, ma precedono ogni confronto, sono (almeno implicitamente) presupposti in ogni trattativa.

Questi diritti non possono mai essere messi in discussione; l’unica eventuale decisione può riguardare i modi in cui la collettività riesca a difenderli e proteggerli con maggiore efficacia. Sono diritti che garantiscono l’esistenza stessa dell’ordine sociale e la sua positività per l’uomo.

II primo di questi diritti è naturalmente quello alla vita. Sto facendo un’affermazione lapalissiana: ogni diritto riconosciuto alla persona presuppone il riconoscimento del suo diritto alla vita. Se proclamo la libertà di espressione, sottintendo il diritto alla vita di coloro per i quali
rivendico il diritto di espressione; se proclamo il diritto al lavoro, presuppongo il diritto alla vita di coloro che debbono poter lavorare e così via.

La questione va osservata con attenzione: qualsiasi diritto io riconosca a una persona (libertà di opinione, diritto al lavoro, alla salute, diritto di associazione…), debbo riconoscergli nello stesso tempo il diritto alla vita, pena l’irrilevanza di ogni particolare diritto che io desidero affermare.

Sarebbe contraddittorio dire: hai il diritto di esprimerti liberamente, ma non hai il diritto di vivere. La cosa è così evidente che non vale nemmeno la pena di sottolinearla. La conseguenza logica è che lo statuto di ogni diritto non può essere maggiore dello statuto che si riconosce al diritto alla vita. Non si può dire – ad esempio – che il diritto alla salute è assoluto mentre il diritto alla vita è condizionato; o che la libertà di opinione vale per tutti, mentre il diritto alla vita vale per qualcuno. Lo statuto che si riconosce al diritto alla vita determina il punto massimo di dignità e di valore, di riconoscimento e di difesa di qualsiasi altro diritto.

Ma si pone un interrogativo: chi è il soggetto titolare di questo diritto alla vita, presupposto in qualsiasi altro diritto proclamato o desiderato? Mi sembra che l’unica risposta ragionevole a questo interrogativo sia quella che rifiuta ogni discriminazione cioè ogni decisione che separa chi avrebbe questo diritto da chi non lo avrebbe.

Sono evidentemente escluse le discriminazioni di razza del tipo: ha diritto alla vita chi è di razza ariana, non possiede questo diritto chi è di razza semitica. Sono escluse le discriminazioni di tipo religioso (avrebbe diritto di vivere solo chi professa alcune religioni e non avrebbe il medesimo diritto chi ne professa altre), o di tipo politico o di tipo economico e così via.

Posso ipotizzare che abbia diritto di votare chi è nato in un certo paese e non chi è nato in un altro (votano in Italia le persone nate in Italia, non, ad esempio, gli Indiani o i Malesi – a meno che, s’intenda, non acquisiscano la cittadinanza italiana); ma non posso ipotizzare che una discriminazione simile sia accettabile nell’ambito del diritto all’esistenza (non posso pensare che un Malese non abbia diritto di vivere se non acquisisce la cittadinanza italiana o se non adempie qualche altra condizione).

Qualsiasi legge che proponga una discriminazione in questo campo sarebbe ingiusta; e lo sarebbe non solo perché viola un comandamento morale («fa’ agli altri quello che vorresti fosse fatto a te»), ma anche perché distrugge in radice l’edificio stesso del diritto, lo rende impossibile.

La formulazione di questa esigenza potrebbe essere la seguente: ogni essere umano, per il semplice fatto di esistere come essere umano, ha diritto di vivere e quindi di vedere sempre riconosciuto e tutelato questo suo diritto. Che si tratti di un bianco o di un nero, di un giovane o di un anziano, di un povero o di un ricco, di un comunista o di un fascista, di un cristiano o di un buddhista…

Ogni determinazione particolare appare irrilevante. È uomo? Se sì, la sua vita deve essere tutelata. Non esistono e non possono esistere condizioni particolari che determinino l’esistenza o la non-esistenza di questo diritto.

Si tratta, in questo caso, di un diritto che non dipende dal riconoscimento degli altri o della maggioranza o dello Stato. Proprio per questo il diritto alla vita precede ogni negoziazione, non dipende dalla formazione di un consenso; al contrario, è l’esistenza di questo diritto che rende possibile l’esistenza degli altri diritti e quindi rende significativa ogni altra negoziazione.

Supponiamo, per assurdo, che questo diritto venga negato. Questo non produrrebbe solo una
ferita per l’ordine politico – qualsiasi violazione della legge costituisce una ferita della vita civile – ma smentirebbe l’ordine politico stesso perché renderebbe impossibile (irrilevante) il riconoscimento e la difesa di qualsiasi altro diritto, cioè distruggerebbe ciò per cui l’ordine politico esiste. Sarebbe come promulgare un regolamento degli scacchi che preveda la possibilità, in alcuni casi, di escludere dal gioco il re

Questo non solo creerebbe uno squilibrio nel gioco, ma impedirebbe il gioco stesso che ha il suo fine esattamente nel mettere a scacco il re avversario. Tutto il gioco verrebbe alterato; regina e alfieri e torri non saprebbero più come muoversi per favorire la vittoria o impedire la sconfitta; qualsiasi strategia di gioco diventerebbe impossibile, il gioco intero perderebbe senso.

Se ci sono casi in cui il diritto alla vita può essere negato, l’intero ordine giuridico subisce una ferita mortale perché diventa potenzialmente irrilevante l’affermazione di qualsiasi altro diritto (ti riconosco il diritto di parola, ma non quello di vivere…!)

Prendiamo allora in considerazione il fattore tempo. L’esistenza umana si compie nella storia e nel tempo l’uomo nasce, cresce, si modifica, si realizza, muore. In questo ampio arco dell’esistenza umana, c’è un momento in cui il diritto alla vita diventa operante? Un momento a partire dal quale si configura la possibile violazione di questo diritto?

Il problema si pone perché lo sviluppo dell’essere umano è reale ma continuo. C’è un momento in cui l’uovo fecondato si annida e inizia a tessere una relazione diretta con il corpo della madre, c’è un momento in cui comincia a formarsi la corteccia cerebrale, c’è un momento in cui il feto diventa viabile (quindi può essere mantenuto in vita anche fuori del corpo materno), c’è il momento traumatico della nascita in cui inizia l’autonomia biologica, c’è il momento dello svezzamento, c’è il momento della maturità fisica e di quella psichica, c’è il momento della maggiore età giuridica..

Quale di questi momenti (di queste trasformazioni) è in grado di far nascere il diritto alla vita?
Non è possibile alcuna risposta sensata alla domanda se non quella che dice: da quando c’è una vita umana. Ogni discriminazione sulla base del tempo (il diritto alla vita scatta a tre mesi; o a quattro mesi; o…) si configura come una discriminazione simile a quella sulla base della salute o della razza o di qualsiasi altro elemento e finisce quindi per distruggere il diritto alla vita in se stesso.

Se per godere del diritto alla vita ho bisogno di adempiere prima una condizione qualsiasi oltre al fatto di vivere, allora non esiste diritto alla vita umana in quanto tale ma solo diritto a una vita umana fornita di qualche qualità. Ma allora è aperta la strada ad altre discriminazioni – sulla base della razza o del censo o di qualsiasi altra qualità

Se posso dire: «Hai diritto di vivere solo se hai quattro mesi compiuti», non diventa impossibile dire: «Hai diritto di vivere solo se hai la pelle scura». Ogni ulteriore determinazione appare arbitraria e quindi appare come una determinazione posta in essere dalla volontà assoluta del legislatore – esattamente quello che non può darsi nel caso del diritto alla vita. Il legislatore può determinare che chi ha diciotto anni acquista il diritto di votare alle elezioni; ma non può determinare che a “x” anni o mesi o settimane o giorni o ore nasce il diritto di vivere, perché questo diritto non può dipendere dal suo riconoscimento giuridico; e non può dipendere da questo riconoscimento perché è presupposto dal fatto stesso di discutere di qualsiasi diritto. Il diritto alla vita ha uno statuto proprio, non paragonabile con quello di nessun altro diritto; negarlo significa minare la coerenza e quindi la consistenza del sistema politico stesso.

È questo fatto che rende così delicato il problema di un regolamento giuridico dell’eutanasia. È naturalmente possibile che qualcuno desideri mettere fine alla propria vita; ed è saggezza non esprimere giudizi affrettati su chi attua il suicidio. Ma sarebbe tragico che il suicidio diventasse un diritto riconosciuto dall’ordinamento giuridico, una prassi accettata e favorita e gestita dallo Stato.

In questo caso, vita e morte starebbero infatti con uguale dignità davanti alla presa di posizione dello Stato; a seconda del desiderio (scelta) della persona, lo Stato assumerebbe l’atteggiamento di difesa della vita o di conferimento della morte. Sarebbe la rivendicazione assoluta dell’autodeterminazione del soggetto; ma sarebbe la disgregazione inevitabile dell’ordine politico.

Questo, infatti, diventerebbe non lo strumento per permettere alle persone di partecipare al gioco sociale in modo corretto, ma unicamente una serie mutevole di regole per permettere il massimo soddisfacimento dei desideri individuali. Si illude chi pensi che una determinazione giuridica sul suicidio assistito abbia effetto solo sulla persona che lo chiede (il suicidio) e su quanto avviene negli ultimi istanti della sua vita; una tale determinazione inevitabilmente muta la fisionomia dell’intero edificio del diritto.

Può darsi che questa trasformazione sia inevitabile in una cultura individualista, ma bisogna perlomeno che ne siamo consapevoli per non fare scelte a occhi chiusi e trovarci a fare i conti con effetti indesiderati Ma c’è un altro fronte, ancor più controverso, che il Papa, andando chiaramente contro corrente, considera “non negoziabile” ed è la istituzione “famiglia” fondata sull’unione stabile di un maschio e di una femmina.

Secondo il Papa, un politico cristiano non potrà mai accettare o negoziare una legge che equipari alla famiglia le unioni omosessuali. Anche in questo caso se ci chiediamo il perché di questo modo di vedere le cose, la risposta è simile a quella che abbiamo delineato sopra: l’unione di uomo e donna non è semplicemente una possibile determinazione dei rapporti interpersonali ma è quella determinazione che, unica, rende possibile l’esistenza (la sopravvivenza) dell’umanità in quanto tale.

La sessualità è un patrimonio che interessa in modo supremo la società perché è quel patrimonio che permette alla società di perpetuarsi nel tempo.

Se si riconosce giuridicamente l’equiparazione di valore tra la sessualità vissuta in modo fecondo e quella vissuta in modo pregiudizialmente sterile, la società riconosce come valido al suo interno un ordine giuridico che per principio può produrre la sua scomparsa rendendo così impossibile non solo l’unione eterosessuale, ma anche quella omosessuale e qualsiasi altro tipo di unione.

Insomma, un ordinamento sociale non può riconoscere come elemento di valore della sua struttura l’unione omosessuale in quanto tale perché in questo caso smentirebbe se stesso e legittimerebbe la propria fine tornando all’esempio degli scacchi, sarebbe come fare un regolamento che preveda come possibile muovere il re mettendolo in condizione di scacco: questo farebbe immediatamente terminare il gioco rendendolo impossibile – o insignificante.

Naturalmente questo ragionamento non viene infirmato dal fatto che in ogni modo rimarrebbero anche coppie eterosessuali e che sarebbero queste a prolungare l’esistenza della specie umana. Si tratta non solo di un problema di fatto, ma di un problema di diritto.

Si tratta di ipotizzare un ordine dì diritto che prevede e accetta la possibilità della sua scomparsa, che equipara, al livello dei valori, la sua continuazione o la sua estinzione; un ordine di questo genere sarebbe inevitabilmente un ordine contraddittorio e non riuscirebbe a giustificare se stesso.

Tra parentesi, questo è il motivo per cui anche una scelta celibataria non può essere equiparata alla famiglia. Non si tratta di proibire il celibato e nemmeno di proibire l’omosessualità, ma di non proteggere e difendere queste scelte di vita come si difende l’istituzione familiare.

Si capisce, allora, che nei “valori non negoziabili” non si tratta affatto di cercare di imporre a tutti un’etica cristiana; si tratta piuttosto di impostare un ordine politico coerente al suo interno, non contraddittorio in se stesso, non orientato o rassegnato alla sua stessa scomparsa. La Chiesa non cerca di far passare come dovere per tutti quello che essa ritiene essere un dovere etico dei credenti; cerca solo di promuovere un ordine politico e di diritto che difenda se stesso perché solo un tale ordine politico può difendere la persona e i gruppi sociali.

Ancora: non si tratta, nel modo di pensare del Papa, di non cedere su valori considerati importanti; si tratta di accettare l’esistenza stessa di un ordine politico inteso non come mosaico capriccioso di leggi diverse, ma come ordine umano in quanto tale, ordine inteso alla difesa della singola persona umana nel momento stesso in cui difende l’esistenza della società degli uomini.

Nella nostra riflessione non abbiamo introdotto il concetto di “natura umana” che alcuni ritengono inadatto a cogliere la essenziale storicità dell’uomo; abbiamo posto invece l’accento sull’esigenza di coerenza interna del sistema politico e giuridico perché una mancanza grave di coerenza produce inevitabilmente, poco alla volta, il collasso del sistema stesso.

Insomma, si tratta di riconoscere che esistono alcuni valori “fondanti” il cui riconoscimento è presupposto nell’affermazione di tutti gli altri valori; lo “statuto” di questi valori è unico, diverso da quello degli altri valori. Mentre il riconoscimento degli altri valori nasce attraverso la riflessione, il confronto in modo che un valore viene confrontato coi valori alternativi alla ricerca dell’equilibrio migliore, i valori “non negoziabili” sono presupposti dall’affermazione di qualsiasi altro valore e quindi non sono sottoponibili a negoziato.

Questo naturalmente richiede anche di non moltiplicare l’elenco dei valori “non negoziabili”: non sono semplicemente valori più importanti degli altri, valori che desideriamo vedere rispettati nell’ordine politico in cui viviamo. Sono valori dai quali per principio dipendono tutti gli altri.

Il rischio insito nella moltiplicazione di questi valori è che venga indebolita la percezione del loro “statuto” unico con la conseguenza di fare apparire anche questi valori simili agli altri con solo un po’ più di urgenza.