Coronavirus: ecco le responsabilità della Cina

Corriere della Sera 27 Settembre 2020  

Milena Gabanelli e Luigi Offeddu

È accaduto anche con la pandemia da Coronavirus: la Cina, dal 1945 membro del Consiglio di sicurezza dell’Onu con diritto di veto, tace o nega da sempre quando le si chiede conto di come rispetta i diritti umani, in questo caso la libertà di informazione. Stavolta però il suo silenzio viene pagato anche da molti altri Paesi.

ll South China Morning Post, storico quotidiano di Hong Kong, riporta più volte informazioni da fonti governative:  il primo contagio del nuovo morbo è stato registrato in Cina il 17 novembre 2019. L’informazione all’Oms dovrebbe essere immediata, ma le autorità attendono fino al 31 dicembre prima di comunicare al corrispondente ufficio di Pechino una «strana polmonite» sviluppatasi a Wuhan nel mercato di animali vivi. I «wet market» erano già i principali indiziati del precedente Sars-Cov1 del 2002. Però solo il 9 gennaio 2020 Pechino parla di «nuovo coronavirus» simile al precedente Sars.

Il 30 gennaio l’Oms dichiara l’emergenza internazionale. Nel frattempo il business e il turismo mondiale va e viene dalla Cina come se nulla fosse. Solo nel mese di dicembre e solo con l’Europa i voli sono 5.523 (dati Eurocontrol). Secondo fonti dell’Enac – l’Ente nazionale italiano dell’aviazione civile – il 13 gennaio, mentre si prepara il lockdown di Wuhan, Pechino firma con l’Italia (ignara) un memorandum d’intesa per un aumento fino a 164 voli settimanali per parte, di cui 108 con decorrenza immediata. Poi c’è stato il blocco. Il prezzo di quel mese e mezzo di silenzio è incalcolabile.

La Cina nega ogni responsabilità e reagisce alla perdita di credibilità aumentando la repressione con lo schiacciamento della libertà a Hong Kong, con le nuove mire strategiche nel Mar Cinese Meridionale, con il pugno sempre più pesante sulle minoranze etniche, sulla libertà di espressione interna, con il gelo nei rapporti con la chiesa cattolica, con arroganti minacce agli Stati sovrani.

La notte di Hong Kong

È stata tenuta segreta fino a poche ore prima della pubblicazione, la notte del 30 giugno: settemila parole, 66 articoli. La nuova «legge sulla sicurezza» punisce con condanne fino all’ergastolo ipotesi di reato come «secessione, sovversione, collusione con Paesi stranieri per minacce alla sicurezza nazionale».

Elaborata a Pechino, ha posto fine a un anno e mezzo di proteste a Hong Kong, oggi regione amministrativa speciale, ma con il patto Pechino-Londra di conservarne alcune libertà civili fondamentali fino al 2047: «un solo Paese, due sistemi». Le proteste erano iniziate perché la Cina pretendeva di processare nei tribunali di Pechino gli imputati di presunti reati (anche politici) commessi a Hong Kong. La pretesa è stata poi ritirata, ma intanto «Pechino – spiega una fonte – ha approfittato della distrazione dell’Occidente causata dalla pandemia per varare la legge sulla sicurezza nazionale».

Così, rinviate di un anno le elezioni previste per metà settembre (i sondaggi davano già al 60% l’opposizione liberal), fuggiti in esilio i principali leader democratici, centinaia di arresti solo nei primi giorni, in manette anche l’editore liberal Jimmy Lai, con i due figli, ufficialmente per «collusione contro l’unità dello Stato cinese».

Dodici cittadini di Hong Kong sono invece stati arrestati nelle ultime settimane, mentre cercavano di raggiungere Taiwan in barca. Londra ha offerto «una nuova via di immigrazione» ai 3 milioni di cittadini residenti a Hong Kong che nel 1997 scelsero, con l’accordo di Pechino, di conservare il loro passaporto inglese. La risposta di Pechino: «non considero validi quei passaporti».

Il nodo Taiwan

Dal gennaio 2021 Taiwan avrà un nuovo passaporto. In copertina la parola «Repubblica di Cina» non si legge quasi più, al suo posto «Taiwan». Un segno preoccupante per Pechino che ha sempre ammonito: se «quelli dichiareranno l’indipendenza, attaccheremo militarmente». Perché Taiwan, indipendente di fatto dal 1949, non è uno Stato indipendente di diritto, non siede – per volontà di Pechino – nelle organizzazioni internazionali. Per la Cina è una «entità ribelle», e solo 14 Stati la riconoscono diplomaticamente.

Un solo esempio: Pechino ha impedito che l’Oms invitasse al suo vertice annuale 2020 Taiwan come esempio di buona gestione sanitaria. E l’Oms ha obbedito. Non è solo questione di orgoglio imperiale, ma soprattutto geostrategica, perché il Mar Cinese Meridionale è al centro dei suoi piani di espansione: gremito di isole artificiali cinesi, è una miniera sottomarina con 11 miliardi di barili di petrolio e 190 trilioni di piedi cubi di gas naturale. Taiwan si è attrezzata: tutti i suoi piani militari sono calibrati su un’ipotesi di invasione anfibia proveniente dalla Cina, che a sua volta si è armata con tecnologia in grado di distruggere e uccidere senza intervento umano.

Le esecuzioni

Secondo Amnesty International la Cina ha il primato mondiale delle esecuzioni capitali, previste per 46 diversi reati, inclusa la sovversione. Le esecuzioni sarebbero «migliaia all’anno», ma Pechino dice che non esistono «statistiche separate», che il numero include gli ergastoli e le pene oltre i 5 anni. In pratica le considera un segreto di Stato. Solo nel 2014 l’Onu ha approvato 20 raccomandazioni contro la pena di morte, tutte non vincolanti, lasciate cadere da Pechino come «inapplicabili e in contrasto con la realtà cinese».

Senza risposta anche le proteste del Consiglio Onu per i diritti umani: anzi, nell’aprile 2020, proprio in quel Consiglio da cui nel 2018 si è dimesso il rappresentante americano, la Cina, bocciata dalle periodiche «revisioni» del Palazzo di Vetro in tema di libertà e giustizia, ha ottenuto un suo seggio fino al 2021. Forse perché, sostiene il «Centro per una Nuova Sicurezza Americana», sta riempiendo il vuoto lasciato da Trump nelle organizzazioni internazionali, e perché ha appena promesso una donazione all’Onu di 2 miliardi di dollari nell’arco dei prossimi due anni.

Repressione delle minoranze etnico-religiose

Il Tibet è una regione autonoma, i suoi 3,1 milioni di abitanti sono quasi tutti buddisti, con una loro lingua e una identità nazionale risalenti al 127 a.C. Hanno sempre rivendicato l’indipendenza da Pechino e hanno pagato un prezzo: templi distrutti e repressione sanguinosa. Il Dalai Lama, premio Nobel per la Pace, vive in esilio nell’India del Nord, ha rinunciato a ogni potere temporale e alla linea indipendentista. Chiede però ancora «compassione» e il rispetto dei diritti umani.

Nella regione autonoma occidentale dello Xinjiang vivono 23 milioni di abitanti, il 47% sono musulmani uiguri. Inaccettabile per Pechino la loro richiesta di libertà religiosa. Alla repressione violenta si alterna la «rieducazione politica» o «formazione ideologica e civile» attraverso il lavoro forzato. Lo scorso 1 settembre il World Uyghur Congress, in occasione della visita a Berlino del ministro degli Esteri cinese Wang Yi, chiede aiuto al governo tedesco: da 1 a 3 milioni di uiguri sono detenuti senza accuse nei campi di «rieducazione», dove avvengono torture e sterilizzazioni forzate.

La Germania ha protestato più volte, anche se nello Xinjiang si trovano fabbriche tedesche come la Volkswagen (a Urumqi), la Siemens, la Basf. I 4022 campi di rieducazione sono stati formalmente aboliti nel 2013, ma un drone inglese ha catturato immagini di un campo nello Xinjiang dove migliaia di persone produrrebbero giocattoli, abiti, e merce a basso costo poi venduta in Occidente.

Pechino l’ha liquidata come propaganda trumpiana, ma non autorizza l’accesso agli ispettori Onu chiesto nel 2019 da 22 Stati con una lettera del Consiglio per i diritti umani. Dalla lettera mancava la firma americana, ritirata ormai da un anno. Intanto gli uiguri emigrati in Europa, e ormai cittadini di Olanda o Finlandia, quando denunciano il dramma dello Xinjiang vengono minacciati da agenti cinesi: «Pensa alla tua famiglia». Nella Mongolia esterna, indipendente dal 1921 e popolata dagli eredi di Gengis Khan, da quest’anno l’insegnamento non avverrà più nella lingua locale, ma sarà obbligatorio il mandarino.

Rapporti Cina-Vaticano

Oggi in Cina ci sono 10 milioni di cristiani, 101 vescovi, 146 diocesi, 4000 preti, circa 4500 suore. È in scadenza l’accordo provvisorio Pechino-Roma del 2018. Dovrebbe confermare che l’ultima parola nell’ordinazione dei vescovi spetta al Papa. Un compromesso teorico, insomma. Ma la situazione reale è ben diversa, sostengono proprio fonti cattoliche: i patti non sono stati rispettati dal regime, le chiese sono sbarrate e dominate dalla bandiera del partito, e chi aspira a essere assunto in un ufficio governativo deve prima rinunciare a ogni fede religiosa.

O meglio: lo Stato proclama la libertà religiosa e riconosce ufficialmente 5 fedi, ma poi spiega ai membri del partito che ogni culto è «anestesia spirituale», incompatibile con l’iscrizione al partito. Però la tessera di quel partito è almeno nei fatti indispensabile per accedere agli impieghi pubblici. Intanto i missionari italiani devono tornare a casa, incluso Bernardo Cervellera, direttore di AsiaNews.

Le minacce agli Stati sovrani

Che succede alle voci critiche? Cheng Lei, cittadina australiana di nascita cinese e nota conduttrice di una Tv pubblica di Pechino, è finita agli arresti domiciliari in un luogo sconosciuto, senza un’accusa esplicita. I leader di Tienanmen sono in esilio fra Usa, Francia, Australia e anche Italia. Le minacce si estendono anche agli Stati sovrani.

«Con gli amici noi usiamo del buon vino, e i fucili con i nemici», ha ringhiato l’ambasciatore cinese a Stoccolma quando il governo svedese ha annunciato di voler premiare l’editore e scrittore Gui Minhai, svedese nato in Cina, dove era stato condannato a 10 anni per presunto spionaggio. Durante il suo tour europeo il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha fatto tappa il 3 settembre nella Repubblica Ceca, e rivolgendosi al Presidente del Senato Miloš Vystrčil, che era appena stato in visita a Taiwan, ha dichiarato testualmente «pagherete caro il vostro opportunismo politico».

Il 31 agosto era passato dalla Norvegia. Un giornalista aveva chiesto al ministro cosa pensasse della possibilità di estendere «ai ragazzi di Hong Kong» il Nobel per la Pace. Risposta: «la Norvegia non usi il Premio per interferire nei nostri affari interni, pensi piuttosto a coltivare relazioni “sane” che si sono finalmente realizzate dopo il “gelido inverno” seguito al Nobel conferito nel 2010 al dissidente incarcerato Liu Xiaobo».

Il prezzo del silenzio

Quanto conta la libertà di parola in un mondo sempre più interconnesso, che dovrà fare i conti con minacce sanitarie e riscaldamento globale, e dove la Cina ha un ruolo centrale? Il giurista dell’università di Pechino He Weifang ha dichiarato: «l’assenza in Cina di libertà di parola e di espressione ha favorito il diffondersi del contagio», lo aveva ribadito un suo illustre collega, Xu Zhangrun, arrestato. Li Wenliang, l’oculista cinese che per primo individuò il virus è stato prima fermato, poi censurato, e infine ne fu vittima.

Oggi nel mondo si contano quasi un milione di morti, e una recessione globale. La Cina non si è scusata, ed esalta la superiorità del modello cinese, che avrebbe gestire in modo straordinario la pandemia, mentre i paesi democratici non sono in grado.

Oggi dichiara di avere solo 8 casi su 1,4 miliardi di abitanti. Impossibile sapere se quel numero sia reale. Non c’è dubbio che Stati Uniti, Brasile, e qualche Paese europeo abbiano sottovalutato, ma come sarebbero andate le cose se le autorità cinesi avessero subito informato la comunità internazionale della gravità di ciò che stava succedendo?

Non lo sapremo mai, come non sapremo esattamente cosa è successo perché l’inchiesta internazionale indipendente votata all’Oms all’unanimità a maggio, è ancora un pezzo di carta.