Dentro il sistema dei lavori forzati in Cina: «Si lavora come animali»

Epoch Times 6 Settembre 2020  

«Le prigioni cinesi sono come l’inferno. Non c’è un briciolo di libertà personale»

di Eva Fu e Cathy He

Per tre anni consecutivi Li Dianqin ha lavorato per circa 17 ore al giorno alla produzione di indumenti di bassa qualità in una prigione cinese, dai reggiseni ai pantaloni. Lavorava senza una paga e rischiava di essere punita dalle guardie carcerarie se non riusciva a rispettare gli obiettivi di produzione stabiliti.

Una volta, una squadra di circa 60 detenuti che non riusciva a raggiungere l’obiettivo è stata costretta a lavorare per tre giorni di fila, senza poter mangiare o andare in bagno – ricorda la donna – e le guardie percuotevano i prigionieri con manganelli elettrici ogni volta che si appisolavano per la stanchezza.

La signora Li ha descritto il carcere femminile di Liaoning, situato nella città di Shenyang nel Nord-est della Cina, come «un posto dove gli esseri umani non dovrebbero stare […] Ti arrestano e ti fanno lavorare. Si mangia cibo che non è migliore del mangime per maiali, e si lavora come animali».

Li, che ora ha 69 anni e vive a New York, è stata imprigionata nella struttura dal 2007 al 2010 per aver rifiutato di abbandonare la sua fede nella pratica spirituale del Falun Gong. Il regime cinese sta infatti conducendo una vasta campagna di persecuzione contro il Falun Gong dal 1999, quando il leader Jiang Zemin ha deciso che lo sradicamento di questa pratica di meditazione era da considerarsi una delle priorità del Partito Comunista Cinese.

Uno dei ‘motivi’ della persecuzione è che secondo le stime ufficiali al tempo c’erano circa cento milioni di persone che praticavano il Falun Gong in Cina (più dei membri del Partito). Inoltre, il Falun Gong insegna a seguire dei valori (verità, compassione e tolleranza) propri della cultura tradizionale cinese, che il regime comunista ha cercato di sradicare con ogni mezzo da quando ha preso il controllo del Paese.

Oltre ai vestiti, la prigione produceva una serie di beni destinati all’esportazione: dai fiori artificiali, fino ai cosmetici e ai giocattoli di Halloween.

Naturalmente la signora Li non è stata che un minuscolo ingranaggio nella grande macchina del lavoro forzato del regime cinese, che ormai da alcuni decenni sputa fuori prodotti a basso costo da inserire nelle catene di approvvigionamento globali.

Negli ultimi mesi i funzionari della dogana statunitense stanno prestando particolare attenzione a questo fenomeno e hanno iniziato a sequestrare i prodotti di importazione che potrebbero essere stati fabbricati con la manodopera carceraria.

Dal settembre 2019, la dogana statunitense ha infatti emesso quattro ordinanze di sequestro contro delle aziende cinesi, impedendo l’ingresso delle loro merci nel Paese. Un sequestro particolarmente emblematico è avvenuto a giugno, quando la dogana degli Usa ha bloccato una partita di 13 tonnellate di prodotti a base di capelli umani proveniente dalla regione Nord-occidentale dello Xinjiang.

Secondo diversi ricercatori indipendenti e attivisti per i diritti umani, i capelli proverrebbero dai molti campi di lavoro forzato sparsi nella regione dello Xinjiang, dove sono detenuti un grande numero di uiguri e altre minoranze musulmane. Nel frattempo, nel mondo sono anche aumentate le pressioni sui marchi di abbigliamento internazionali, affinché tronchino i legami con le fabbriche dello Xinjiang, soprattutto dopo che a marzo i ricercatori hanno scoperto che decine di migliaia di uiguri sono stati trasferiti a lavorare nelle fabbriche di tutta la Cina in condizioni simili a quelle dei lavori forzati.

Queste strutture hanno prodotto merci per 83 marchi internazionali. Secondo Fred Rocafort, un ex diplomatico statunitense che attualmente lavora per lo studio legale internazionale Harris Bricken, il lavoro in prigione e i lavori forzati sono «un qualcosa che ha infettato la catena di produzione in Cina».

Rocafort ha lavorato per oltre un decennio come avvocato commerciale in Cina, dove ha condotto più di 100 controlli di fabbriche per verificare se stessero effettivamente tutelando la proprietà intellettuale dei marchi stranieri che lui rappresentava e, in alcuni casi, per controllare se stessero usando il lavoro forzato.

L’avvocato ha dichiarato che «si tratta di un problema che esiste da molto prima dell’attuale crisi dei diritti umani nello Xinjiang». E ha aggiunto che quando le aziende straniere esternalizzano la propria produzione verso fornitori cinesi, questi ultimi stipulano contratti con aziende che sfruttano il lavoro dei detenuti, o anche direttamente con le carceri. «Se sei il direttore di una prigione in Cina, hai accesso al lavoro, e potresti essere in grado di offrire prezzi molto competitivi […] al fornitore cinese», sostiene Rocafort.

L’avvocato ha anche precisato che storicamente i marchi stranieri non hanno fatto molti sforzi per accertarsi che le proprie catene di fornitura in Cina fossero libere dal lavoro forzato, ma la crescente consapevolezza nel corso degli anni ha portato un certo progresso. Tuttavia, continua a non essere facile per le aziende internazionali ottenere informazioni accurate sulle pratiche di lavoro dei loro fornitori e sui fornitori dei loro fornitori. La «mancanza di trasparenza corre lungo tutta la catena di fornitura» cinese.

Un business criminale

La signora Li ha raccontato che il carcere femminile di Liaoning era diviso in molte unità di lavoro, ognuna composta da centinaia di detenute. Li faceva parte dell’unità carceraria n. 10, dove le detenute erano costrette a produrre vestiti dalle 7 del mattino alle 21, ogni giorno. Dopo di che, ogni detenuto doveva produrre circa 10-15 steli di fiori artificiali. Lei di solito non riusciva a completare il lavoro prima di mezzanotte.

I più lenti – specialmente gli anziani – a volte restavano svegli tutta la notte per finire il lavoro, ha precisato Li. «Le prigioni cinesi sono come l’inferno. Non c’è un briciolo di libertà personale». La signora ricorda ancora l’odore acre che si propagava da un’unità carceraria che produceva cosmetici destinati alla Corea del Sud.

L’odore di bruciato e la polvere che permeava il piano della produzione toglievano il respiro alle lavoratrici-detenute ed erano motivo di continue lamentele, che però non dovevano essere udite dalle guardie altrimenti sarebbero state picchiate, ha raccontato Li.

Una volta le è capitato di sentire una conversazione tra le guardie carcerarie, durante la quale ha appreso che la prigione «affittava» i detenuti tramite l’ufficio provinciale della giustizia al prezzo di circa 10 mila yuan (1.240 euro) a testa all’anno. La donna ha anche ricordato che una volta il direttore del penitenziario ha convocato i detenuti per esortarli a «lavorare sodo» perché «la prigione crescerà e si espanderà».

La prigione produceva anche delle decorazioni per Halloween a forma di fantasma che erano contrassegnate per l’esportazione. Il compito della signora Li era quello di fissare un panno nero intorno ai fantasmi utilizzando un filo di ferro. In seguito, nel periodo di Halloween, le è capitato di vedere lo stesso tipo di decorazione appeso sopra la porta di un appartamento a New York.

In effetti, nel corso degli anni, i consumatori occidentali hanno scoperto diversi messaggi nascosti all’interno di prodotti cinesi, che spesso denunciavano con poche parole la condizione del lavoro forzato in Cina. Questo fenomeno ha contribuito ad accrescere l’attenzione dell’opinione pubblica sulla realtà dei campi di lavoro in Cina.

Nel 2019, il gigante britannico dei supermarket Tesco ha interrotto i suoi rapporti con un fornitore cinese di biglietti d’auguri natalizi dopo che un suo cliente ha rinvenuto un messaggio all’interno di uno di questi biglietti che indicava il prodotto come realizzato da prigionieri vittime dei lavori forzati.

Nel 2012, una donna dell’Oregon ha trovato una lettera scritta a mano all’interno di un kit di decorazioni per Halloween che aveva comprato al Kmart. La lettera era di un uomo detenuto nel famigerato campo di lavoro di Masanjia, nella città di Shenyang, nel nord della Cina, e forniva un resoconto delle torture e delle persecuzioni subite nella struttura. L’uomo in questione si chiama Sun Yi ed è un praticante del Falun Gong che è stato condannato a 2 anni e mezzo di lavori forzati nel 2008; pare che Sun abbia nascosto molte lettere nelle decorazioni di Halloween che è stato costretto a produrre e confezionare.

Ma anche la signora Li nel 2000 è stata detenuta nel campo di lavoro di Masanjia, dove ha lavorato dalla mattina alla sera per produrre fiori di plastica. I fiori finivano per sembrare «stupendi», ha detto Li, ma farli era una tortura. Ai detenuti non venivano forniti guanti o maschere per proteggersi dai residui tossici che riempivano l’aria, mentre tutte le guardie indossavano le maschere.

Come se non bastasse, non erano concesse pause, tranne che per andare in bagno, e anche questo richiedeva la firma di una guardia. Naturalmente le norme igieniche erano inesistenti, come ricorda la signora Li: «Lavarsi le mani non ha importanza. Lavorare di più è l’unica cosa che conta».

Lo scorso anno Yu Ming, un praticante del Falun Gong scappato negli Stati Uniti che è stato detenuto più volte nel campo di Masanjia, ha rilasciato un filmato che è riuscito a fare uscire di nascosto dal campo, un filmato registrato nel 2008 che mostra i detenuti del campo intenti a costruire diodi, dei piccoli componenti elettronici destinati ai mercati internazionali.

Un vasto apparato

Wang Zhiyuan, direttore dell’Organizzazione mondiale non profit statunitense per indagare sulla persecuzione del Falun Gong, ha reso noto che l’industria del lavoro nelle prigioni cinesi è una macchina economica tentacolare che ricade sotto la supervisione del sistema giudiziario del regime.

Ha descritto la capacità del regime di sfruttare questa fonte di lavoro occulta come una «potente arma strategica» per favorire le ambizioni economiche globali di Pechino: «Indipendentemente da quanti dazi gli Stati Uniti impongano alla Cina, l’industria del lavoro in schiavitù del Partito Comunista Cinese non verrà influenzata in modo significativo».

L’organizzazione ha pubblicato nel 2019 un’inchiesta in cui ha segnalato 681 aziende che utilizzano il lavoro carcerario in 30 tra province e regioni, e che producevano un’ampia gamma di prodotti: dalle bambole ai maglioni in vendita all’estero. Molte delle aziende in questione sono risultate di proprietà dello Stato, mentre alcune erano controllate dall’esercito cinese.

Inoltre, si è scoperto che i rappresentanti legali di 432 di queste imprese, ovvero circa due terzi del totale, sono anche i capi dell’amministrazione carceraria locale. Anche se il regime ha formalmente abolito il sistema dei campi di lavoro nel 2013, i risultati dell’inchiesta indicano che l’industria del lavoro forzato è ancora viva e vegeta.

I campi di lavoro hanno semplicemente cambiato nome e si sono fusi con il sistema carcerario, come ha riferito Wang citando un proverbio cinese: si tratta di «offrire la stessa medicina con un brodo diverso».

Articolo in inglese:

You Work Like Animals’: Inside China’s Vast Prison Labor System