Gianfranco Miglio e la fine dello Stato risorgimentale ottocentesco

Cultura cattolica lunedì 24 agosto 2020

di Gianfranco Amato

Assurdo è il pregiudizio ideologico che tende a precludere aprioristicamente la messa in discussione del modello di stato unitario ottocentesco, risorgimentale, accentratore e napoleonico, già in fase di decomposizione e comunque destinato inevitabilmente all’implosione.

Non è con la logica dello struzzo che si affrontano i cambiamenti, e non è razionale restare sentimentalmente ancorati a modelli istituzionali ormai superati dal tempo e dalla storia.

Rilanciamo «Più società e meno stato»!

Diciannove anni fa moriva a Como Gianfranco Miglio, «il maggior tecnico delle istituzioni e l’uomo più colto d’Europa», secondo la definizione che di lui diede il grande giurista tedesco Carl Schmitt.

Gianfranco Miglio

Più volte mi è capitato, nei primi anni ’80, di incrociarlo nei chiostri del Bramante che ospitano l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. Allora io frequentavo la facoltà di Giurisprudenza e lui insegnava Storia delle dottrine politiche alla facoltà di Scienze Politiche, di cui è stato preside. Ricordo anche di averlo incontrato più volte alla stazione Cadorna quando scendeva dal treno per recarsi in università. Era certamente un personaggio fuori dal comune.

Qualcuno lo ha paragonato ad un gentiluomo mitteleuropeo, anche per l’abbigliamento impeccabile e squisitamente demodé.  Durante le sessioni d’esame metteva sempre un papillon e d’inverno indossava cappotti con pelliccia e copricapi alquanto eccentrici. Con il colbacco assomigliava molto a Roald Amundsen il noto esploratore norvegese delle regioni polari. Comunque sia, era uno degli uomini più intelligenti che abbia conosciuto.

Confesso che durante il tempo libero mi capitava qualche volta di andare a sentire le sue lezioni, per curiosità e interesse personale, dato che non insegnava nella mia facoltà. Mi affascinava la sua critica allo Stato moderno, le cui origini identificava in un’esigenza molto prosaica: fare la guerra.

Il Fisco è nato, secondo Miglio, principalmente per recuperare soldi e consentire al Sovrano di guerreggiare. Il venir meno di questo scopo avrebbe alla lunga fatto cessare una delle funzioni principali dello stato moderno. Profetizzò la fine del parlamento su base nazionale, il cui destino sarebbe stato quello di un organismo dotato di una sempre più ridotta capacità decisionale e, soprattutto, scavalcato sulle questioni politicamente ed economicamente più importanti da istituzioni che agiscono dall’esterno.

Profetizzò anche la scomparsa dei grandi partiti di massa, sostituiti da quelle che lui definirà «aggregazioni di interessi, nelle quali non conta più l’ideologia ma il carisma dei capi e l’uso scientifico della propaganda».

Profetizzò la fine delle Costituzioni nate sul modello del diritto pubblico europeo soprattutto ottocentesco, intese come totem sacri intoccabili ed immodificabili, e la loro sostituzione con strumenti molto più flessibili, dinamici e variabili di generazione in generazione.

Profetizzò, soprattutto, che il progresso tecnologico e l’avanzata dei processi di automazione avrebbero assestato un colpo ferale ad un altro fondamentale pilastro dello Stato moderno: l’apparato burocratico. Soprattutto l’innovazione digitale avrebbe rivoluzionato la vecchia struttura amministrativa napoleonica, con la conseguente eliminazione di decine di migliaia di funzionari di ogni livello.

Profetizzò, infine, che l’avanzata tecnologica, soprattutto nel settore bellico con gli armamenti atomici, avrebbe definitivamente fatto tramontare l’idea della guerra convenzionale di confine e il concetto di forze armate come lo si poteva immaginare fino al XX secolo. Un esercito di pochi professionisti che svolge compiti di polizia e simboliche missioni di pace all’estero non è certo l’esercito da guerra dello stato nazionale novecentesco.

Ora, di fronte a questo inesorabile scenario profetico, in gran parte già realizzato, Gianfranco Miglio ebbe il coraggio di formulare alcune proposte di ristrutturazione istituzionale in senso federale e autonomista.

Ricordiamo, per esempio, l’idea delle tre macroregioni e i principi indicati nel cosiddetto “Decalogo di Assago” del 1993. Sono ipotesi che si possono condividere o meno, ma che certo prima o poi dovranno inesorabilmente essere oggetto di dibattito.

Quello che reputo assurdo è il pregiudizio ideologico che tende a precludere aprioristicamente la messa in discussione del modello di stato unitario ottocentesco, risorgimentale, accentratore e napoleonico, già in fase di decomposizione e comunque destinato inevitabilmente all’implosione.

Non è con la logica dello struzzo che si affrontano i cambiamenti, e non è razionale restare sentimentalmente ancorati a modelli istituzionali ormai superati dal tempo e dalla storia.  La stessa emergenza pandemica del Covid-19, peraltro, ha chiaramente evidenziato l’assoluta esigenza di una vera e concreta autonomia dei territori e delle diverse comunità locali.

La realtà, dando ragione a Miglio, ci ha purtroppo insegnato che gli stati unitari, centralisti e burocratici sono diventati oramai macchine fiscali insaziabili, indebitate e fuori controllo, destinate ineluttabilmente a bruciare le ricchezze prodotte dalla società, e incapaci di rispondere alle concrete e diverse esigenze delle comunità locali.

Solo dei politici irresponsabili e criminali possono ignorare quest’altra grande verità evidenziata da Miglio: non è possibile migliorare la macchina statale lasciando intatta la sua struttura di fondo. Solo un incosciente oggi potrebbe non rendersi conto che lo Stato italiano è ormai irriformabile.

La burocrazia, la giustizia, il fisco – solo per citare alcuni esempi – non sono più riformabili. E qualunque tentativo di miglioramento, avrebbe gli stessi effetti dei classici pannicelli caldi.  La struttura istituzionale del nostro Paese nel suo complesso è come un’automobile con un motore fuso. Non è sostituendo lo spinterogeno o il carburatore che un motore fuso può ripartire. E non è neppure un problema di pilota. Anche il campione mondiale di Formula Uno non sarebbe in grado di guidare un’auto con un motore grippato.

Chiunque aspiri, dunque, ad amministrare questo Paese come fa a non porsi il problema della sostituzione del motore?  L’opposizione pensa davvero di poter governare l’Italia con l’attuale sistema istituzionale? Con l’attuale struttura amministrativo-burocratica? Con l’attuale regime fiscale? Con l’attuale sistema della giustizia?

C’è un solo modo per essere credibili ed è quello di ipotizzare un reset totale, un azzeramento completo ed una ricostruzione ex novo sulla base di un diverso assetto istituzionale non più rivolto agli schemi ottocenteschi ma orientato al futuro, verso modelli più moderni, in cui sia ridotta la presenza pervasiva dello Stato a vantaggio della società e di una vera autonomia delle comunità locali.

Chi ha la pretesa di candidarsi a guidare la nostra nazione ha il dovere morale di dire agli elettori con quale nuovo motore vuol sostituire quello fuso.