Ora gli eurocrati capiranno che le culture non sono tutte uguali

GreciaL’Occidentale 16 novembre 2011 (Tratto da American Spectator)

di Roger Scruton

Tradotto da Enrico De Simone

Il mio primo viaggio in Grecia risale a cinquant’anni fa, ci arrivai dall’Inghilterra facendo l’autostop insieme a un compagno di scuola. Andavamo in cerca della mitica terra di Omero, Platone, Tucidide. Ovviamente, non la trovammo.

Però scoprimmo qualcosa di quasi altrettanto stupefacente: un posto in cui la chiesa e il clero dominavano la vita rurale e dove ogni paese di campagna era la casa di una comunità ben circoscritta, devota ai propri santi e alle proprie feste patronali, dove le antiche danze tradizionali continuavano ad essere ballate, gli uomini di qua e le donne di là, tutti vestiti di abiti sopravvissuti all’epoca ottomana; un ballo che invariabilmente si giocava sulla rappresentazione del classico dramma dei sessi, il matrimonio e i suoi conflitti.

Era un paese che doveva ancora entrare nel mondo moderno. I suoi ritmi erano quelli dei villaggi contadini, i suoi diritti e doveri quelli della campagna, un paese dove ogni momento era buono per abbandonarsi al sole, al mare, a una siesta. Era semplicemente inconcepibile, agli occhi di un anglosassone, come un tale paese potesse essere valutato con gli stessi parametri con cui si valutano la Francia o la Germania, o che potesse avere un qualche ruolo in un gruppo economico di cui quei due paesi avessero fatto parte, tantomeno su base paritaria.

Un giorno restai senza soldi e mi misi in fila a un ospedale di Atene dove si poteva donare sangue in cambio di qualche dracma. Il dottore di turno balzò dalla sedia per dare il benvenuto all’alto ragazzo dai capelli rossi che entrava nel suo studio; poi mandò via i due uomini – entrambi mingherlini – che erano entrati con me, ritenendo che il loro sangue non servisse a nulla. I nomi dei miei sfortunati “rivali” erano Eracle e Dioniso.

Si trattò dell’unico segno colto in quella mia prima visita, della discendenza di quella gente dai Greci ai quali dobbiamo la nostra civiltà.Non ho alcun desiderio di tornare in Grecia, ho paura di quello che i turisti e la speculazione hanno potuto farle. Però so che, qualunque cambiamento ci sia stato, è impensabile che il paese abbia avuto uno sviluppo pari a quello della Francia o della Germania.

E’ ovvio che il paese si sia modernizzato, che siano state costruite strade e che le città siano cresciute, che il turismo abbia spazzato via le antiche, buone maniere contadine. C’è stata anche la rivoluzione sessuale – probabilmente più tardi del 1963, data indicata da Philip Larkin – ma con gli stessi, devastanti effetti sul matrimonio e la famiglia. Non c’è dubbio che le antiche canzoni siano andate perdute, o che le insegne delle multinazionali abbiano conquistato tanti negozi in tutto il paese. Ma è altrettanto sicuro che la cultura locale non è scomparsa.

La gente continua a considerare il tempo libero più importante del lavoro, i debiti come una cosa secondaria e i creditori come qualcosa di ancor più remoto nella propria rete di rapporti sociali. Se non avete imparato queste cose nei vostri viaggi in Grecia, le potete comunque apprendere leggendo Kazantzakis, Ritzos, Seferis, o qualunque altro scrittore di quel felice momento della letteratura ellenica che coincise con il crollo dell’Impero ottomano; altrimenti è facile da rintracciarsi ne “Il mandolino del capitano Corelli” di Louis de Bernières.

Chiunque tenga gli occhi aperti e sia capace di un giudizio sereno capirebbe che la Grecia è il prodotto di una cultura particolare, e una tale cultura, comunque si sviluppi, non potrà che portare il paese in una certa direzione, ad un certo ritmo.

Ma sembra che gli architetti dell’euro che non sapessero nulla di tutto ciò. Del resto, se l’avessero saputo, avrebbero compreso anche che l’effetto di imporre una stessa valuta a Grecia e Germania avrebbe incoraggiato la prima a trasferire i suoi debiti alla seconda, nella convinzione che più ci è lontano il creditore, meno stringente è l’obbligo a pagare.

Avrebbero dovuto sapere che, se la classe politica greca può usare il debito pubblico per pagare famiglie, amici e dipendenti e per comprare i voti che le servono per restare al potere, allora è proprio così che si comporterà. Avrebbero riconosciuto che cose come leggi, obblighi e sovranità non hanno uno stesso significato andando dal Baltico al Mediterraneo, e che in una società abituata a un governo cleptocratico la via d’uscita più ovvia da una crisi economica è la svalutazione – vale a dire, rubare equamente da tutti.

Perché mai gli architetti dell’euro non erano al corrente di tutte queste cose? La risposta risiede nel profondo del progetto europeo. Un progetto che celava un programma segreto: distruggere, attraverso una lunga negazione, quella realtà fattuale nota come “nazionalità”. E dato che le nazioni sono portatrici di cultura, un tale progetto implicava, alla fine, negare l’importanza delle culture nazionali. I fatti culturali sono sempre stati trascurati dagli eurocrati. Se si fossero permessi il lusso di considerarli, avrebbero corso il pericolo di rendersi conto che il loro progetto era irrealizzabile.

Peraltro, una tale prospettiva non sarebbe apparsa poi così tremenda se solo ci fosse stata un’altra ipotesi da seguire. Però – come tutti i progetti radicali – quello dell’Unione europea venne concepito senza un “piano B”. E adesso è destinato a naufragare, e con lui tutto il continente. Attorno al progetto dell’euro si è accumulata un’enorme massa di pretese, i cui confini vengono strenuamente difesi dall’attuale classe politica, che tenta di rintuzzare i costanti attacchi inevitabilmente sferrati dalla realtà delle cose. Ma questa mole di pretese è una piaga purulenta nel cuore del sistema, e un giorno esploderà, sommergendo tutto e tutti con il suo veleno.

Eravamo tenuti a pensare che l’antichissima differenza tra Nord protestante e Sud cattolico e ortodosso non avesse alcun peso a livello economico. Era un fatto culturale e quindi irrilevante, nonostante le tesi di Weber che ne fece il cardine della sua storia economica dell’Europa. La differenza tra la cultura della common law (diritto consuetudinario, ndr) e quella del Codice napoleonico, tra le eredità lasciate dall’Impero romano e da quello ottomano, tra un paese dove la legge è certa e i giudici incorruttibili e un paese dove la legge è nient’altro che l’ultima risorsa quando tutte le possibili corruzioni hanno fallito – tutti questi fatti devono essere esclusi a priori. I tempi e le velocità del lavoro, il bilanciamento tra lavoro e tempo libero – fattori al centro della vita di ogni comunità – devono essere ignorati, o al massimo regolati da un futile editto emanato dal centro del sistema.

E qualunque cosa deve essere messa in riga da due minacciosi organismi – la Corte di giustizia europea e la Corte europea dei diritti umani – dove siedono giudici non eletti che nessuno può chiamare a rispondere delle loro decisioni, l’agenda dei quali, improntata ai principi “nessuna discriminazione” e “unione sempre più stretta”, è costruita per spazzar via le residue tracce di orgoglio nazionale, moralità basata sulla famiglia, stili di vita tradizionali. Non sorprende affatto che un impero costruito su tali premesse divenga instabile.

Fu Marx a sostenere che il fondamento dell’ordine sociale, il meccanismo che lo muove, risiede nella struttura economica, e che la cultura non è altro che una sovrastruttura, fatta di istituzioni e ideologie, le cui fondamenta poggiano sull’economia. Dunque è a Marx che dobbiamo questo primo, disastroso tentativo di organizzare la società esclusivamente in base a principi economici, lasciando la cultura a se stessa.

Invece è la cultura che determina l’economia, non il contrario; e se c’è bisogno di una prova, basti guardare ai risultati dell’esperimento marxista. Ancora meglio, basta guardare alle economie di successo del primo mondo – per esempio, quella americana – e considerare quanto esse debbano, per la loro riuscita, al rispetto della legge, a contabilità oneste, all’etica familiare, alle forme di interazione sociale. Per analizzare l’intreccio di tutti i fili che formano la capacità dell’America di sviluppare un’economia virtuosa sul lungo periodo, si dovrebbe passare in rassegna la sua evoluzione culturale, fino alla sua fondazione e oltre.

Si dovrebbe tener conto dell’eredità protestante, della common law, di un’istruzione superiore tradizionalmente affidata a college privati, ai tanti piccoli nuclei che formano la galassia del volontariato. Si dovrebbe comprendere lo spirito della frontiera, la profonda fedeltà nazionale, il mix culturale da cui sono nati il jazz, Hollywood, i musical di Broadway.

Naturalmente, condivido l’opinione di tanti americani conservatori, secondo i quali una tale cultura è andata perduta e il paese ha già compiuto alcuni fatidici passi nella stessa direzione presa dall’Europa. Quanto accaduto è conseguenza di un cambio culturale. Lasciata a se stessa, l’economia americana non sarebbe incorsa nel fantastico debito pubblico gonfiatosi a dismisura con le amministrazioni Bush e Obama.

In entrambi i casi, sono stati fattori culturali a spingere la classe dirigente a fare del paese un ostaggio dei propri fini ideologici. Lo stesso accade in Europa. Non è stata l’economia, è stata la cultura e dar vita all’euro – la cultura di una classe dirigente in guerra con i popoli europei, ansiosa di stabilire ad ogni costo un governo transnazionale e speranzosa di cancellare qualunque traccia residua di sentimento nazionale.

Distruggendo le antiche valute con le quali le diverse genti d’Europa avevano gestito le rispettive peculiarità, le elìte europee speravano di compiere un passo decisivo verso l’Unione. Invece hanno caricato il continente di nuovi debiti, nuovi rancori, e della prospettiva di un disastro che non è stato previsto semplicemente perché scartato a priori come impossibile