La condanna moralistica della storia occidentale è il cardine del politicamente corretto

L’Occidentale 15 Giugno 2020

di Eugenio Capozzi

Chi si sorprende ancora per il fatto che le proteste sedicenti “antirazziste” americane ed europee si siano tradotte in abbattimenti delle statue, in oltraggi ai monumenti, in censura alle opere d’arte – e insomma nel dichiarato intento di riscrivere la storia “epurandola” di qualsiasi parte oggi giudicata “razzista” da una minoranza autonominatasi portatrice dei valori di progresso e civiltà – non ha evidentemente ancora compreso la natura dell’ideologia di cui quell’”antirazzismo” è portatore.

I rivoltosi che nella loro furia iconoclasta travolgono simboli, personaggi illustri, opere del passato non sono preda di un impeto di furore alimentato da autentiche ingiustizie sociali, ma al contrario mettono coerentemente in pratica un sistema di pensiero che da decenni ha egemonizzato la cultura politica delle sinistre occidentali, e che con la lotta alle diseguaglianze sociali, attuali o passate, non ha nulla a che spartire.

Quel sistema di pensiero è il progressismo “diversitario”, tradotto nell’insieme di precetti, censure, delegittimazioni noto come “politicamente corretto”. È l’ideologia delle élites borghesi “immateriali”, “liquide”, sganciate dalle dinamiche otto-novecentesche di produzione e lavoro, e legate invece all’economia digitalizzata, alle tecno-burocrazie, al sistema mediatico globalizzato.

Élites “post-sessantottine” che rifiutano l’idea stessa di essere gli eredi di una lunga storia, quella della civiltà occidentale. Se ne ritengono indipendenti, scisse, come se la società in cui vivono fosse immersa in una sorta di indefinito presente “fluido”, aperto su un futuro di infinite potenziali gratificazioni per i desideri soggettivi, liberati dal peso dei condizionamenti di un qualsiasi passato.

In realtà quelle élites sono tanto strettamente eredi della storia occidentale da riassumere in sé, in una forma estenuante ed esasperata, tutte le pretese di eliminare il male dal mondo manifestate dalle ideologie sorte in Europa tra Otto e Novecento.

In particolare, il progressismo da loro abbracciato si fonda sull’idea che per raggiungere il paradiso in Terra sia necessario estirpare la tendenza al dominio e alla discriminazione del “diverso” stratificata per secoli (se non per millenni) nella mentalità dell’Occidente, per approdare ad una cultura “inclusiva”, cioè priva di principi fissi, aperta a qualunque suggestione, integralmente relativistica.

La visione del mondo da esse propugnata si traduce, dunque, in una forma rudimentale di illuminismo fondata su una contrapposizione radicale tra oscurantismo (ogni tradizione ereditata, ogni codice morale universalistico) e progresso (l’assoluta “diversità” e fluidità del vitale come unica norma, la distruzione di ogni gerarchia).

In tale luce, la concezione del “razzismo” indicato come nemico assoluto dai rivoltosi ultra-borghesi e dalla propaganda politicalcorrettista si chiarisce nel suo specifico significato, che in realtà è lontanissimo da quello tradizionalmente consolidato nel linguaggio comune, e riflesso nella cultura politico-giuridica liberaldemocratica.

Per quest’ultima, infatti, il razzismo indica quel complesso di dottrine che tra Otto e Novecento hanno predicato la superiorità fisica o spirituale di una razza, una etnia, una cultura su altre, e dunque hanno giustificato la diseguaglianza civile e politica su quelle basi.

Per la sinistra diversitaria in cui si inseriscono anche i movimenti come Black Lives Matter e Antifa, invece, razzismo è qualsiasi fenomeno materiale e culturale che nella storia abbia condotto ad un qualsiasi vantaggio dell’uomo “bianco” occidentale sul resto del mondo.

E’ razzista è chiunque non voglia disconoscere interamente quella storia, chiunque la rivendichi, o addirittura chiunque, pur convinto dell’uguaglianza tra tutti gli uomini, di fatto tragga qualche vantaggio dalle posizioni di potere sedimentatesi in quel percorso temporale.

E’ questo il razzismo “sistemico”, il “white privilege” rispetto al quale i manifestanti mobilitati dopo i fatti di Minneapolis e i loro aedi intellettuali/mediatici pretendono che venga dato ai “neri” – intesi in blocco come afroamericani, o addirittura in generale come tutti i “non bianchi”, non euro-occidentali, del mondo – un adeguato “risarcimento”.

Per tale motivo il progressista diversitario deve necessariamente “abbattere le statue” e censurare parole, idee e azioni dei suoi antenati in base alla dottrina che vorrebbe imporre a tutti nel presente, accomunando in pratica sotto l’etichetta di razzista e oppressore ogni protagonista rilevante della storia occidentale.

Secondo la sua manichea contrapposizione tra luce e tenebre, la storia non è una dialettica, anche conflittuale, attraverso la quale si edificano gradualmente istituzioni, princìpi, modelli, spazi di convivenza più adeguati ad esprimere il valore assoluto della vita umana, ma al contrario è un cumulo di violenze, soprusi, sopraffazioni operate in nome dell’imposizione di “verità” in realtà funzionali al dominio, e da cancellare con un tratto di penna per tornare ad un’innocenza edenica perduta, ad una libertà senza il peso della responsabilità.

Mentre, insomma, la cultura liberaldemocratica occidentale è pervenuta alla condanna della schiavitù, del colonialismo, delle discriminazioni civili fondate su razza ed etnia recuperando e implementando una concezione universalistica dell’uomo derivata direttamente dalla radice ebraico-cristiana dell’Occidente (tutti gli esseri umani sono uguali in quanto fatti ad immagine e somiglianza di Dio), e intendendo i diritti umani in senso individualistico (cioè come propri di ogni essere umano in quanto tale, non per la sua appartenenza ad un determinato gruppo), l’”antirazzismo” ideologico predicato dal progressismo politicamente corretto è fondato invece su un “assolutismo relativista”, secondo il quale tutte le storie e le culture sono equivalenti, e l’appartenenza ad un gruppo “discriminato” deve assicurare non tanto l’eguaglianza della dignità e dei diritti, quanto un trattamento preferenziale dei “diversi”, che garantisca loro una qualità della vita, uno “stile di vita” pari ai loro desideri.

Per gli appartenenti alla civiltà occidentale il progresso non può consistere, secondo questa visione del mondo, che nell’”espiazione” dei propri “peccati”, nella mortificazione, nel mettere in dubbio tutte le proprie certezze per accogliere la “redenzione” portata dall’Altro.

Nell’ideologia politicalcorrettista, dunque, la lotta contro il razzismo come “privilegio bianco” non può non essere strettamente legata a quella contro il “sessismo”, inteso come privilegio “patriarcale”, da scalzare in nome di una totale “fluidità” di genere. E persino al rifiuto verso ogni idea di una centralità della specie umana rispetto alle altre forme di vita, in nome di una torsione “panica” e “antispecista” dell’ambientalismo, concepito come difesa dell’”ecosistema” al di fuori di qualsiasi scala di valori imperniata sul perseguimento della civiltà.

In tutte le tre principali espressioni del “diversitarismo” emerge, insomma, lo stesso disprezzo per la storia, per la sua interpretazione razionale, per il valore universale di alcuni traguardi raggiunti dalla civiltà occidentale, per la democrazia liberale come patrimonio comune da salvaguardare.

La sua furia distruttiva punta a sostituire all’umanesimo occidentale uno spazio vuoto, un luogo anomico di libertà senza scopo, sospeso tra aspirazioni superomistiche e attrazione del nulla. Specchio fedele di una classe dominante senza una morale e senza una fede, che cinicamente si serve dei ceti marginali come strumenti del suo dominio