La Libia di Gheddafi. Le vicende di un dittatore deposto

GheddafiLa Civiltà Cattolica n. 3870
del 17 settembre 2011

Le rivolte  della primavera del 2011 hanno travolto l’assetto politico-istituzionale di importanti paesi del Nord Africa e hanno colpito duramente la Libia che, secondo alcuni analisti, avrebbe dovuto reggere alle ondate di protesta. La contestazione però in Libia è subito diventata protesta di popolo e guerra civile. Capire le ragioni di questo  scontro non è facile.

di Giovanni Sale

Il regno indipendente della Libia

La denominazione di Libia per indicare i vilayet della Tripoli-tania e della Cirenaica — che dal 1551 erano parte integrante del vasto impero ottomano — fu adottata per la prima volta dagli italiani nel 1911, quando, con il consenso delle maggiori potenze coloniali, occuparono militarmente quel vasto territorio desertico, povero di abitanti e di risorse economiche: occupazione che non fu né facile, come si pensava, né tanto meno incruenta.

Tale denominazione, che riprendeva quella usata dai romani per indicare la provincia africana dell’impero, fu adottata ufficialmente dal Governo italiano soltanto nel 1929, quando la colonia fu «riconquistata» sotto il fascismo. Nel 1934 il nuovo governatore italiano, Italo Balbo, unificò le tre province della Tripolitania, della Cirenaica e del Fezzan, costituendo un’unità statale centralizzata.

Nasceva così, sotto il profilo istituzionale, la Libia moderna, che pochi anni dopo fu annessa al territorio metropolitano italiano. La politica coloniale del fascismo aveva come obiettivo l’occupazione e lo sfruttamento dei terreni incolti (confiscati e dichiarati proprietà statale nel 1922), per essere consegnati ai nuovi coloni della madrepatria, i quali non avrebbero più dovuto varcare l’oceano alla ricerca di lavoro.

I primi 20.000 coloni sbarcarono in Libia nel 1938, con l’ambizioso progetto di fertilizzare il territorio costiero e pioneristicamente aprire la strada ad altri insediamenti ancora più importanti. Il progetto-Balbo suscitò a quel tempo forti critiche non soltanto in Italia, ma anche in Libia e nel resto del mondo arabo; esso fu però interrotto dallo scoppio della seconda guerra mondiale. La «quarta sponda italiana» nel 1942 fu conquistata dagli Alleati; le forze britanniche, aiutate dai senussi della Cirenaica, in poco tempo riuscirono a sbarazzarsi degli italiani e dei tedeschi, che furono definitivamente cacciati dall’Africa.

Dopo la seconda guerra mondiale, nella conferenza di Potsdam dell’estate 1945, le potenze vincitrici stabilirono di non restituire all’Italia la sua colonia africana; decisione che fu poi recepita nel trattato di pace che l’Italia ratificò, a malincuore, due anni dopo. Nel 1949 le Nazioni Unite incaricarono un commissario, l’olandese Adrian Pelt, di guidare il processo di transizione della Libia verso l’indipendenza.

Un Comitato dell’Onu propose la convocazione di un’Assemblea costituente, e questa nel novembre 1950 decise la creazione di un Regno federale. La corona fu assegnata al capo dei Senussi, Idris, che si trovava in esilio a Londra ed era considerato un fedele alleato degli inglesi. Il 24 dicembre 1951 Idris I proclamò ufficialmente l’indipendenza del Regno Unito della Libia (1).

Il nuovo Regno negli anni Cinquanta, sebbene ufficialmente riconosciuto in ambito internazionale, non aveva ancora l’autorità e la forza di un moderno Stato territoriale; i libici si identificavano per lo più con la famiglia, con il clan e la tribù di appartenenza e, in senso più generale, con l’Umma islamica di cui si sentivano parte; in ogni caso non si consideravano cittadini di una nazione indipendente e sovrana. Le pessime condizioni economiche in cui versava il Paese non aiutavano certo la popolazione a confidare nello Stato, né ad aspettarsi da esso interventi significativi.

La grande rivoluzione avvenne nel 1959, quando nello «scatolone di sabbia» si scoprì la presenza di petrolio di ottima qualità; nel giro di pochi anni esso costituì il 50% del prodotto interno del Paese (percentuale destinata ad aumentare nel tempo) e l’estrazione e la commercializzazione furono appaltate a imprese e capitali stranieri. Il petrolio libico presentava grandi vantaggi: era povero di zolfo ed era vicino alle coste europee, perciò non doveva passare attraverso il canale di Suez, che Nasser nel 1956 aveva nazionalizzato.

Improvvisamente la monarchia e le grandi famiglie dell’entourage reale si trovarono a gestire interessi economici enormi, che erano amministrati in modo privatistico. In quegli anni la Libia strinse rapporti economici e commerciali con diversi Paesi occidentali, in particolare con gli Stati Uniti, i quali ottennero, oltre che importanti contratti petroliferi, anche l’uso di due basi militari. Questo fatto fu molto criticato dagli altri Paesi arabi, in particolare dall’Egitto, che definirono la Libia «una portaerei americana».

La presenza di enormi flussi di capitali dovuti all’«oro nero», di cui si avvantaggiavano poche famiglie, mentre gran parte della popolazione viveva nella miseria, contribuì a creare nuova corruzione nella vita economica e amministrativa dello Stato e ad indebolirne la legittimazione e la credibilità dal punto di vista politico e istituzionale.

Re Idris I, che era un uomo schivo e pio, governò per 18 anni (1951-69) uno Stato prima federale, che fu poi unificato, ma non per sua iniziativa, o da una spinta nazionalista proveniente dalla classe politica o dal popolo, «quanto piuttosto dall’esigenza espressa dalle compagnie petrolifere di armonizzare le leggi e le pratiche burocratiche all’interno di un Paese» (2), bloccato da logiche familiste e soprattutto clientelari. Il regno di Idris I terminò in modo quasi incruento il 1° settembre 1969, quando un gruppo di ufficiali, capitanati da Moammar Gheddafi, con un colpo di Stato pose fine alla monarchia e assunse il potere.

La rivoluzione populista di Gheddafi

Da questo momento in poi la vicenda personale di Gheddafi, nato nel 1942 a Sirte, nella provincia del Fezzan, si intreccia con la storia politica e istituzionale della Libia contemporanea. Come gli altri «giovani ufficiali» anch’egli subì il fascino della rivoluzione nasseriana in Egitto e sposò interamente la causa del nazionalismo arabo.

Il leader egiziano divenne subito il suo modello di riferimento: ne ripeteva gli slogan politico-ideologici e ne imitava le gesta. Tra i due c’erano però differenze sostanziali. Nasser era nato in città in un Paese dominato dalla cultura occidentale e dove esisteva un ceto politico e amministrativo strutturato secondo il modello europeo; Gheddafi era un beduino nato in una delle regioni più povere del Maghreb e crebbe in un Paese che non aveva un ceto politico, una burocrazia, una classe media dedicata agli affari e neppure vere e proprie istituzioni statali (3). Il leader egiziano utilizzava l’islàm come fattore d’identità nazionale e al fine di mobilitare la popolazione, ma sostanzialmente era un rivoluzionario e un modernizzatore.

Anche Gheddafi fu un modernizzatore e negli anni successivi dotò il Paese di imponenti infrastrutture che ne resero più attivi la vita economica e il commercio. Ma sul piano politico e religioso il suo progetto era debole e, in qualche modo, anacronistico. Egli infatti era convinto che nel Corano e nella sharia ci fosse tutto ciò che era necessario per strutturare la società civile e per riguadagnare la passata grandezza.

Affermava inoltre la possibilità per ogni musulmano di accedere alla conoscenza della parola rivelata attraverso la lettura diretta del testo sacro, esautorando in questo modo la mediazione degli ulema e dei sufi, di cui la congregazione dei senussi era la più potente e autorevole. «Vi furono addirittura momenti in cui parlò dal pulpito delle moschee, sognò la ricostruzione del califfato, si avventurò in disquisizioni teologiche. Si servì della religione come di un instrumentum regni, ma la sua devozione appariva sincera» (4).

Appena salito al potere, Gheddafi assunse provvedimenti decisi secondo l’ideologia rivoluzionaria che aveva mobilitato i giovani ufficiali; già nel dicembre 1970 chiese il ritiro delle truppe straniere, sia statunitensi sia inglesi, dal territorio nazionale; cacciò dalla Libia gli ultimi coloni italiani, i quali detenevano gran parte della terra coltivabile e ne incamerò i beni. Da tale provvedimento furono escluse soltanto due grandi imprese, la Fiat e l’Eni, che erano impegnate nella modernizzazione del Paese.

Dal punto di vista politico, egli, per ottenere l’unità nazionale, abolì i partiti politici, modellati secondo i princìpi europei (ma che si erano dimostrati inutili sul piano politico), e diede vita all’Unione socialista araba, concepita sul modello nasseriano. La partecipazione del popolo alla gestione «diretta» dello Stato fu assicurata attraverso la creazione di comitati e assemblee popolari, che a loro volta «nominavano» i rappresentati da inviare al Congresso.

Una delle prime preoccupazioni del rais consistette nell’eliminazione dell‘elite politica preesistente, ancora legata alla monarchia senussita e agli antichi privilegi tribali. Alla direzione dei Ministeri nominò membri del Consiglio supremo della rivoluzione, che non sempre si dimostrarono all’altezza del compito; soltanto quello dell’economia, che si interessava delle forniture petrolifere, fu lasciato a uomini del vecchio apparato governativo. Negli anni successivi annunciò a scadenze quasi annuali modifiche istituzionali (variamente denominate), che non riuscirono però a coinvolgere la popolazione.

Tali riforme avrebbero dovuto creare una nuova leadership politica, proveniente dagli strati medio-bassi della società, ritenuti più vicini all’ideale rivoluzionario, ma esse abbassarono ulteriormente «il livello di qualità dell’operato del Governo». Insomma, uno dei fattori di debolezza del nuovo Stato consisteva nella difficoltà di creare una classe politica e amministrativa attiva, realmente rivoluzionaria, secondo lo spirito del socialismo e nazionalismo arabo, e sopratutto di dotare la macchina dello Stato di strutture solide e realmente rappresentative.

A fronte di tale debolezza sul piano politico-istituzionale, la Libia fece invece in quegli anni passi da gigante su quello economico. L’importanza del settore petrolifero era aumentata dai tempi della monarchia in modo esponenziale: il 99% del prodotto interno lordo era dovuto agli introiti dal petrolio. Proprio per questo una delle prime decisioni del nuovo regime consistette nella nazionalizzazione dell’industria petrolifera, che fino a quel momento era per lo più in mano a compagnie straniere. Il prezzo del greggio aumentò notevolmente (fino a quadruplicare nel 1973) e le maggiori compagnie petrolifere furono costrette a cooperare con l’impresa di Stato, cioè con la neonata Lnoc (Libyan National Oil Corporation).

A questa decisione seguì quella di trasferire settori chiave dell’economia sotto il controllo dello Stato, per evitare che il settore privato tornasse a giocare un ruolo importante nell’economia libica, contrastando così le spinte rivoluzionarie che il regime intendeva operare in ambito economico e sociale. Queste scelte di politica economica provocarono però l’aumento dell’inflazione, che colpiva soprattutto le classi meno abbienti, cioè la maggioranza della popolazione.

Il Governo intervenne volta per volta con politiche assistenziali di scarso respiro per colmare le falle che si aprivano nel sistema, in modo da arginare la contestazione e il dissenso interno. Alto però rimaneva il tasso di disoccupazione soprattutto tra i giovani: tale fatto rappresentò per decenni uno dei maggiori elementi di debolezza del regime. Di fatto la maggior parte dei libici erano occupati in settori poco remunerativi e, nonostante la ricchezza petrolifera, soltanto l’1% lavorava nel settore degli idrocarburi (5).

Nella carriera politica di Gheddafi il 1973 fu molto importante: fu l’anno della «rivoluzione culturale» e della diffusione della prima parte del «Libro Verde», che negli anni successivi divenne la vera Carta costituzionale della Libia. Il colonnello rais era consapevole che la maggior parte dei membri del Consiglio di Comando della Rivoluzione (Ccr), di cui egli era segretario, non approvava in pieno il suo programma politico, anzi alcuni di essi cospiravano per la sua eliminazione.

Egli inoltre sapeva di aver perso l’appoggio di buona parte della borghesia nazionalista, che guardava con sospetto alle sue «improvvisazioni» in materia politica ed economica, nonché il sostegno di molti intellettuali e accademici.

Due episodi in quegli anni rischiarono di mettere in crisi la leadership politica di Gheddafi: l’abbattimento nel cielo del Sinai, il 21 febbraio 1973, da parte dei caccia israeliani di un Boeing libico, che provocò la morte di 105 passeggeri, nonché la contestazione del 5 marzo da parte degli studenti dell’università di Bengasi, che denunciavano l’assenza di libertà negli atenei e soprattutto la politica panaraba perseguita in quegli anni dal rais.

Rientrato dall’Egitto dopo uno dei suoi infruttuosi tentativi di convincere Sadat a stringere i tempi dell’unione tra i due Paesi, Gheddafi riunì il Ccr e rassegnò le dimissioni. Egli era convinto che il Consiglio, come in altre occasioni, le avrebbe immediatamente respinte, invece le accettò. Amareggiato per l’inaspettata sconfitta, egli si ritirò per qualche giorno (seguendo l’esempio del Profeta) nei luoghi della sua infanzia per studiare e organizzare il contrattacco.

Il 15 aprile, giorno del mawlud, cioè della nascita di Maometto, si recò a Zuàra al-Gàrbia, centro importante della Tripolitania orientale e vi tenne un memorabile discorso, destinato a cambiare radicalmente la storia recente della Libia. Tra le altre cose, in tono ispirato, disse: «Sono pronto a condurre una rivoluzione contro l’amministrazione che blocca le decisioni.

Voglio distruggere l’apparato amministrativo che è ancora troppo tradizionale e di conseguenza blocca il processo della rivoluzione». Rivolto poi al mondo universitario che contrastava il suo indirizzo politico aggiunse: «Vi annuncio che, fra qualche tempo, noi chiuderemo università e scuole e voi sarete mobilitati per difendere gli interessi arabi là dove sono minacciati. L’unità araba è una convinzione alla quale non rinunceremo mai, anche a costo di provocare una guerra civile» (6).

Egli in quella occasione sintetizzò in cinque punti il suo programma politico, che svolse con puntigliosa determinazione negli anni successivi. Esso prevedeva: 1) la sospensione delle leggi in vigore, ad esclusione di quelle contenute nella sharia; 2) la messa al bando di tutti gli avversari della rivoluzione, in particolare i Fratelli Musulmani, i comunisti e i baathisti; 3) la consegna delle armi al popolo, perché assicurasse la difesa della rivoluzione; 4) la proclamazione di una «rivoluzione amministrativa», poiché l’amministrazione esistente, pigra e corrotta, si era arricchita alle spalle dello Stato e non agiva secondo gli interessi del popolo; 5) l’avvio di «una rivoluzione culturale per combattere lo spirito demagogico e le influenze straniere». «Colui — sentenziò alla fine il rais — che si oppone all’unità araba, al socialismo, alla libertà del popolo, sarà annientato» (7).

Il giorno successivo ripetè gli stessi princìpi, in modo ancora più concitato, a Tripoli, davanti a una grande folla di sostenitori, esortando il popolo libico «a bruciare i libri che contengono le idee importate dall’oscurantismo capitalista e dal comunismo ebraico. La sola ideologia che sarà autorizzata è quella che proviene dal Corano».

La rivoluzione, aggiunse, comincia soltanto oggi, «i precedenti tre anni sono serviti solamente a preparare questo momento». Nei giorni successivi i suoi sostenitori si mobilitarono in tutto il Paese dando attuazione al suo programma di «rivoluzione culturale»: furono bruciati in falò pubblici i libri occidentali, denunciati gli amministratori ritenuti disonesti e arrestati gli oppositori politici. Ad esclusione delle società petrolifere e delle banche, le maggiori istituzioni pubbliche del Paese passarono sotto il comando dei Comitati popolari, che si erano massicciamente mobilitati per mettere in pratica il programma dettato dal rais.

«Coinvolgendo nella rivoluzione — scrive Angelo del Boca — le classi più povere delle campagne e le qabile nomadi da sempre contrapposte alla borghesia urbana, Gheddafi riuscì ad ottenere un consenso mai prima acquisito, tanto che buona parte del Ccr si schierò con lui e lo sostenne nel nuovo processo rivoluzionario» (8).

L’avvio della rivoluzione culturale fu poi sostenuto, come aveva fatto Mao in Cina, dalla pubblicazione e dalla diffusione della prima parte del cosiddetto «Libro Verde» (le altre due furono pubblicate negli anni successivi), che trattava della gestione dello Stato e della partecipazione del popolo ai processi decisionali. Su tali temi si prospettava una sorta di «terza via» rispetto al capitalismo occidentale e al comunismo orientale, i quali per il loro carattere «settario» si erano dimostrati contrari agli interessi del popolo. Gheddafi, prendendo le distanze da tali dottrine politiche, pensava la Libia come una Jamahiriyya, cioè come una repubblica delle masse, basata non sul principio di rappresentanza, ma sulla partecipazione diretta del popolo alla gestione della cosa pubblica.

Tale ideologia rivoluzionaria, con tutta la sua carica di propaganda e di vacuità politica, con il passare del tempo iniziò a palesare i suoi punti deboli. Nell’agosto del 1975 alcuni membri del Ccr tentarono un colpo di Stato per sbarazzarsi di Gheddafi, il cui indirizzo politico era ritenuto demagogico e inefficiente nell’affrontare la crisi politica del sistema. Egli ancora una volta non solo riuscì a sbaragliare i suoi oppositori, ma addirittura a rafforzare la propria posizione.Dopo tale fatto ridimensionò i poteri del Consiglio rivoluzionario, riducendo il numero dei membri a cinque fedelissimi; inoltre nel giro di pochi mesi rimosse dall’amministrazione dello Stato tutti i funzionari che riteneva poco affidabili o a lui ostili e nominò nei posti di maggiore responsabilità membri della sua tribù di appartenenza, cioè la «Gheddafa».

Negli anni successivi egli si dedicò a realizzare il suo sogno rivoluzionario; impose una riforma costituzionale separando le attività di Governo da quelle propriamente rivoluzionarie, di cui assunse la direzione. Istituì inoltre la cosiddetta «Autorità rivoluzionaria» formata da Comitati popolari, che finirono per emarginare le strutture formali di Governo e di direzione politica del Paese, a cominciare dal Congresso.

Questa mancanza di vere istituzioni formali, secondo alcuni studiosi, era funzionale ai progetti panarabi (e successivamente pana-fricani) di Gheddafi, che costituivano uno degli elementi di fondo della sua visione politica. Fin dai primi giorni della sua ascesa al potere Gheddafi aveva ripetutamente cercato di «unire» la Libia ad altri Stati arabi, e cioè all’Egitto, alla Tunisia e al Marocco, sostenendo la necessità che essi si legassero in un’unica entità statale.

La Libia era pronta a portare in dote ai suoi partners l’enorme ricchezza petrolifera, in cambio della creazione di uno Stato arabo forte e intraprendente anche sul piano internazionale. Nonostante gli accordi firmati da Gheddafi con i Paesi arabi confinanti, nessuna di queste promesse di «matrimonio» andò a buon fine. Tale fatto indispettì molto il rais di Tripoli, spingendolo ad azioni aggressive nei confronti degli ex-pretendenti, in particolare l’Egitto.

Dopo tali delusioni e per colmare lo svantaggio nei confronti degli altri Paesi arabi, Gheddafi, utilizzando le enormi somme guadagnate col petrolio, pensò di fare della Libia il Paese più armato dell’Africa e del Vicino Oriente. Tra il 1972 e il 1984 egli spese in armamenti somme ingenti. Il primo Paese che fornì armi alla Libia fu l’Italia, subito dopo seguirono la Francia e la Gran Bretagna; a partire dal 1974, però, il maggiore fornitore fu l’Unione Sovietica, la quale inviò in Libia anche migliaia di tecnici e di consiglieri militari.

«All’inizio degli anni Ottanta — scrive Del Boca — Tripoli dispone dunque di circa 3.000 carri armati, 2.000 veicoli blindati, 1.500 cannoni, 300 caccia, alcune centinaia di velivoli di addestramento, trasporto e ricognizione, 30 unità della marina e un numero imponente di missili» (9). La presenza di questo arsenale militare, che con gli anni continuava ad aumentare, iniziò a impensierire gli Stati Uniti e gli altri Paesi del blocco occidentale. Esso era avvertito come una sorta di spina nel fianco sul dispositivo difensivo meridionale della Nato.

Il rischio sarebbe poi aumentato, sostenevano le Cancellerie occidentali, nel caso in cui Gheddafi avesse aderito, per fare un torto all’Occidente, al Patto di Varsavia, mettendo a disposizione dell’Unione Sovietica il proprio arsenale militare. In quegli anni, inoltre, egli propose ad alcuni Paesi arabi (che rifiutarono la collaborazione) di lavorare insieme per la costruzione di una «bomba [atomica] islamica», da contrapporre a quella israeliana. Gheddafi negli anni successivi non rinunciò a tale ambizioso progetto, e, a partire dal 1988, cominciò anche a finanziare progetti per la costruzione di armi chimiche.

Gheddafi tra terrorismo e ripresa economica

Negli anni Ottanta, anche in seguito ai tentativi di Gheddafi di annettersi la striscia di Aouzou ai confini con il Ciad, le relazioni diplomatiche della Libia con gli Stati Uniti e con la Francia (che era intervenuta a difendere i propri interessi «africani») andarono rapidamente deteriorandosi. La Libia fu accusata in particolare dagli Stati Uniti di produrre armi di distruzione di massa, di impedire il processo di pace in Medio Oriente e di finanziare con i suoi capitali il terrorismo internazionale.

Secondo i rapporti annuali della Central Investigation Agency (Cia) e di altri organismi di intelligence sia statunitensi sia europei, il regime libico in quegli anni non si era limitato, come sosteneva Gheddafi, ad aiutare finanziariamente i movimenti di liberazione nazionale del Terzo Mondo, ma insieme ad altri Paesi (come la Siria, l’Iran e l’Iraq) aveva agito (e continuava ad agire) da centrale del terrorismo internazionale anti-occidentale.

Secondo David Newsom, sottosegretario di Stato statunitense ed ex-ambasciatore a Tripoli, il Governo libico promuoveva «assassinii, insurrezioni e appoggio ai Governi più rivoluzionari […]. Oltre ad aiutare i gruppi palestinesi, i libici misero a disposizione denaro, addestramento e, in taluni casi, armi, virtualmente ad ogni gruppo intorno al mondo che porti credenziali rivoluzionarie» (10).

Inoltre, Gheddafi fu accusato di sovvenzionare o di armare la maggior parte dei movimenti indipendentisti o terroristici europei: in Spagna l’Età, in Germania la banda Baader-Meinhof, in Italia i terroristi di Ordine Nuovo e le Brigate Rosse, in Francia il movimento che combatteva per l’indipendenza della Corsica e altri piccoli gruppi ancora. Come reagì il rais di Tripoli a queste accuse mossegli dai Paesi Occidentali, che lo definivano il maggiore «sponsor del terrorismo internazionale»?

Egli di solito rifiutò categoricamente ogni addebito a suo carico; soprattutto negò il coinvolgimento della Libia in atti terroristici sanguinosi. Spesso però rispose ai suoi interlocutori occidentali operando distinzioni fra aiuti ai movimenti di liberazione nazionale e aiuti a gruppi che praticavano il terrorismo come arma politica di pressione: «Non c’è alcun rapporto — disse nel gennaio 1982 in un’intervista a un giornalista europeo — fra i movimenti di liberazione e le bande dei terroristi.

Ma i sionisti, che dominano i mass-media, seminano deliberatamente la confusione, con il proposito di gettare il discredito sulla lotta legittima dei popoli e, in particolare, su quella del popolo palestinese […]. Ciò spiega che gli atti nobili della Libia, come il suo sostegno ai movimenti di liberazione, sono presentati come appoggio al terrorismo» (11).

Ora, se nel corso degli anni Settanta gli Stati Uniti si erano limitati a criticare il regime libico senza prendere misure «dissuasive» contro di esso, poiché ritenevano che uno scontro aperto avrebbe avvicinato «l’inaffidabile» Gheddafi all’Urss, con l’avvento dell’amministrazione Reagan le cose cambiarono completamente. Lo scontro iniziò quando nel golfo della Sirte due caccia libici furono abbattuti dalla sesta flotta americana, che stazionava in acque internazionali.

Nel 1982 gli Stati Uniti, già in lotta aperta con Gheddafi, posero l’embargo sulle esportazioni di petrolio libico. Quattro anni dopo Reagan attraverso un Emergency Act bloccò tutti i prestiti al regime libico, congelò i beni libici presenti negli Usa e dichiarò illegali tutte le transazioni economiche tra cittadini statunitensi e Governo libico. Ma il casus belli che autorizzò il bombardamento di Tripoli e Bengasi nell’aprile del 1986 (provocando anche la morte di una figlia adottiva del rais, che però alcune recenti dichiarazioni sostengono essere ancora viva) da parte dell’aviazione statunitense fu l’attentato, immediatamente attribuito a Gheddafi, a una discoteca di Berlino, frequentata da militari statunitensi, che provocò la morte di alcuni di essi. Da allora in poi fu lotta aperta fra il rais di Tripoli e le potenze occidentali.

I più terribili e micidiali atti terroristici imputati a Gheddafi e al regime libico si verificarono però negli anni successivi. La sera del 21 dicembre 1988 un aereo della Pan American esplose nel cielo di Lockerbie in Scozia, provocando la morte di 254 persone a bordo e 11 persone a terra. Un anno dopo, l’aereo civile francese Uta 772 esplose nel Niger causando la morte di 170 persone. In questo caso, è stato detto, la Francia pagava la sua «intromissione negli affari libici», prendendo le difese (in realtà non disinteressatamente) del Ciad.

Dopo il caso Lockerbie la Libia fu accusata dai Paesi occidentali di aver avuto parte attiva nell’attentato terroristico. Addebito che il rais negò. L’Onu chiese la consegna ai tribunali competenti di due cittadini libici, accusati di aver partecipato all’attentato, ma Gheddafi rifiutò la consegna. Nell’aprile del 1992 l’Onu con la Risoluzione numero 748 sanciva un pesante embargo economico contro la Libia; provvedimento questo che, sebbene fosse adottato in modo flessibile (l’Italia continuò a importare greggio dalla Libia), assestò un duro colpo alla fragile economia del Paese, che si reggeva soltanto sugli introiti del petrolio.

Le sanzioni contro la Libia durarono circa un decennio: un periodo nel quale Gheddafì alternò atteggiamenti aggressivi e dichiarazioni provocatorie a misure distensive e tentativi di riconciliazione. Sul fronte interno, egli aveva adottato un ambizioso programma di liberalizzazione dell’economia nella speranza di rilanciare il mercato, ma tale esperimento non portò i frutti sperati. In ogni caso, il rais libico desiderava uscire dall’isolamento (che penalizzava fortemente la stabilità del regime) e riprendere i contatti con la comunità internazionale.

Diede prova di buona volontà quando accettò di consegnare i due imputati a un tribunale olandese. Stanziò un milione di dollari per ciascuno dei morti di Lockerbie, e così anche per i morti dell’Uta 772 e per le vittime di Berlino. Questi «gesti di collaborazione», come furono definiti, condussero alla sospensione nell’aprile 1999 delle sanzioni Onu. Ciò diede una salutare boccata di ossigeno all’economia libica che da anni versava in grave crisi (la disoccupazione giovanile era salita al 30%).

Gheddafì negli anni successivi fece anche di più nei confronti dell’Occidente, che fino a quel momento aveva demonizzato: nel 2001 condannò duramente l’attentato alle Torri Gemelle; due anni dopo giustificò l’intervento militare della coalizione in Afghanistan. Inoltre nel 2003 ammise l’esistenza di un programma per la costruzione di una bomba nucleare e mise tutti gli impianti libici a disposizione degli ispettori occidentali.

Che cosa spinse Gheddafì a cambiare strategia nei confronti dell’Occidente e in particolare degli Stati Uniti? Certamente le motivazioni furono di varia natura, come, ad esempio, la caduta del regime di Saddam Hussein in Iraq, nonché, come si è detto, gli effetti disastrosi che le sanzioni Onu avevano causato sull’economia libica, ma ciò che spinse il rais nell’orbita dell’Occidente fu la lotta al fondamentalismo islamico. Infatti, come si è detto, non c’era mai stato grande accordo tra Gheddafì e gli islamisti, che lo consideravano un governatore empio e nemico del vero islàm.

Il pericolo islamico cominciò a concretizzarsi nel 1987 quando il rais mandò a morte nove islamisti appartenenti al gruppo dello jihad islamico. In quell’occasione Gheddafi definì questi gruppi «peggiori del cancro e dell’Aids». In realtà, il «problema islamico» sorse in Libia soltanto negli anni Novanta, dopo la fine della guerra in Afghanistan, quando molti reduci che avevano combattuto contro i russi in difesa dell’islàm, ritornarono in patria.

Tali gruppi in quegli anni organizzarono diversi attentati contro alcuni membri dell’entourage di Gheddafi e contro lo stesso rais nel 1998. Il loro obiettivo era rovesciare il regime, ritenuto illegittimo ed empio. «Invocare la resistenza contro un oppressore come Gheddafi — è detto in un comunicato — è diventato persino più importante della fede in Allah». Nel 2008 tali gruppi, su richiesta del rais di Tripoli, furono inseriti nella lista americana delle organizzazioni terroristiche internazionali.

Negli ultimi anni, la Libia, rinnegando il suo passato di Stato sostenitore del terrorismo internazionale, ha dato all’Occidente garanzie di attendibilità. Grazie alla fine delle sanzioni economiche del 1999, ha anche goduto di una ripresa economica considerevole e ha stretto rapporti di amicizia e di collaborazione economica con molti Paesi europei, in primo luogo con l’Italia, alla quale il rais rimproverava il passato coloniale e chiedeva un risarcimento sia morale sia economico.

Negli ultimi tempi, allertato dalle recenti rivolte tunisine ed egiziane, Gheddafi per impedire disordini e contestazioni di piazza assunse preventivamente alcune misure di carattere economico-sociale che da tempo erano state richieste al Governo. «Essendo la Libia un rentier state — scrive Karirn Mezran — il regime negli ultimi tempi ha potuto attingere alle ingenti risorse di cui dispone per realizzare diversi interventi allo scopo di ottenere il consenso» (12).

Tra gli interventi principali ricordiamo la riduzione dei prezzi dei beni alimentari (in particolare pane e farina), del costo dell’elettricità e la possibilità offerta ai cittadini di rateizzare il pagamento dei servizi pubblici, nonché l’elargizione di vari aiuti economici destinati ai neo-laureati. Era stato anche annunciato dal Governo un investimento di 24 miliardi di dollari per realizzare nuove case popolari nelle maggiori città e per garantire lo sviluppo delle comunità locali economicamente più svantaggiate.

Nonostante la salda struttura di potere creata da Gheddafi per contenere il dissenso interno (sia politico sia islamista) e le misure di welfare assunte dal Governo a favore degli strati meno abbienti della popolazione e dei giovani, il cosiddetto effetto domino, posto in atto dalle insurrezioni popolari che nei primi mesi del 2011 hanno travolto buona parte dei Governi autoritari nordafricani, ha colpito duramente anche Gheddafi, il cui regime è stato alla fine, dopo mesi di sanguinosa guerra civile, rovesciato da una coalizione di oppositori, che hanno goduto del sostegno attivo delle democrazie occidentali e di molti Paesi arabi, nonché dei maggiori organismi internazionali, l’Onu in testa.

In ogni caso il futuro della Libia rimante tuttora incerto e aperto a diverse soluzioni, anche perché, come è stato giustamente notato da molti osservatori, a tutt’oggi si sa chi ha perso la guerra, ma non è ancora chiaro chi l’abbia vinta e chi al posto della fazione e del clan di Gheddafi andrà al potere a Tripoli (13). Ciò che la comunità internazionale in questo momento desidera è che la rifondazione dello Stato libico avvenga pacificamente evitando nuovo spargimento di sangue e inutili regolamenti di conti, e attraverso un «concertato» processo di democratizzazione indirizzato a rinnovare le strutture dello Stato e a sensibilizzare i cittadini alla partecipazione politica e ad una nuova mobilitazione sociale.

Note

1) Cfr D. VANDEWALLE, A History of Modern Libya, Cambridge, University Press, 2006, 53; M. KHADDURI, Modern Libya. A Study in Politicai Development, Baltimora, Hopkins Press, 1963, 67; A. PELT, Libyan Indipendence and United Nations, New Harven, Yale University Press, 1970, 65.
2) K. MEZRAN – S. COLOMBO – S. VAN GENUGTEN, L’Africa mediterranea, Storia e futuro, Roma, Donzelli, 2011, 56.
3) Cfr S. ROMANO, La quarta sponda. La guerra di Libia: 1911-1912, Milano, Tea, 2007, 272.
4) Ivi, 273. Sul rais di Tripoli si veda il recente M. CRICCO – F. CRESTI, Gheddafi. I volti del potere, Roma, Carocci, 2011.
5) Cfr K. MEZRAN – S. COLOMBO – S. VAN GENUGTEN, L’Africa mediterranea…, cit., 60
6) Citato in A. DEL BOGA, Gheddafi. Una sfida dal deserto, Roma – Bari, Laterza, 2010, 70.
7) Ivi.
8) Ivi, 72.
9) Ivi, 114.
10) ANSA, New York, 5 agosto 1980.
11) H. BARRADA – M. KRAVETZ – M. WHITAKER (eds), Kaddafi: «Je suis un opposant a l’échelon mondial», Lausanne, Favre, 1984, 66.

12) K. MEZRAN – S. COLOMBO – S. VAN GENUGTEN, L‘Africa mediterranea..,, cit., 69. Va ricordato che negli ultimi anni la Libia ha conosciuto uno sviluppo economico considerevole. Il Pil pro capite è di 9.714 dollari ed è molto superiore a quello di molti altri Paesi arabi, come, ad esempio, l’Algeria (4.029 dollari), l’Egitto (2.270 dollari), il Marocco (2.811 dollari), la Tunisia (3.792 dollari). Il regime, inoltre, ha di recente avviato una riforma del sistema economico in senso liberista, abbandonando le politiche populiste del passato, ma non è riuscito ad arginare la crescente disoccupazione e il malcontento specialmente tra le classi meno abbienti. L’alto grado di disoccupazione — che colpisce soprattutto le donne e i giovani, anche laureati — è dovuto anche alla vertiginosa crescita della popolazione. Nel 2009 la Libia contava più di 6 milioni di abitanti mentre nel 1950 ne contava poco più di un milione; va inoltre aggiunto che la maggioranza di essi hanno meno di 15 anni. Ciò significa che nel futuro la disoccupazione giovanile è destinata ad aumentare. Il regime ha provato ad affrontare tale situazione attraverso politiche di «libianizzazione» delle imprese straniere, richiedendo a queste ultime di assumere personale libico. Tuttavia tali misure si sono dimostrate insufficienti e non hanno ottenuto i risultati sperati: cfr ivi, 68.
13) Cfr S. ROMANO, in Corriere della Sera, 22 agosto 2011.