Come il latino (e gli antichi classici) ci salvano la vita. Incontro con Silvia Stucchi

Ricognizioni 1 Giugno 2020

di Paolo Gulisano

Il latino non è affatto una lingu

a morta. Basti pensare che la parola più pronunciata in questo 2020 è “virus”, che in latino significa “veleno”. Un raro esempio di termine neutro con la desinenza “us”. Ma altri termini della lingua di Cicerone sono comunemente utilizzati, come “media”, plurale di medium, mezzo. E potremmo continuare ancora.

Ma la più completa e accurata disamina dell’importanza di questo antico idioma, incubo per molte generazioni di studenti liceali, è quella che ha fatto Silvia Stucchi nel suo recente libro Come il latino ci salva la vita (Edizioni Ares 2020, pagine 312 euro 15) dove spiega perché dobbiamo essere grati alla lingua di Virgilio e Tacito, e perché essa non è uno scoglio, ma un’ancora di salvezza che insegna a vivere meglio.

Con un percorso tematico sui grandi della latinità, da Orazio a Seneca, da Catullo a Petronio, da Lucrezio a Quintiliano, troveremo la risposta che gli uomini di duemila anni fa davano ai loro problemi, dall’innamoramento infelice all’insofferenza verso le feste comandate, dal rifiuto degli status symbol ai dispiaceri scolastici.

Risposte che possono lenire anche le nostre ansie quotidiane, o farci guardare al presente con un occhio diverso. Silvia Stucchi è docente a contratto di Lingua Latina presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Cattolica. Membro scientifico della SIAC (Société Internationale des Amis des Cicéron) e della SIEN (Société Internationale des Études Neroniennes), ha pubblicato saggi su Petronio e sulla sua ricezione, sulla tematica consolatoria nel mondo antico, su Seneca tragico, Lucano, su Ovidio, su Petronio e la sua fortuna.

Svolge inoltre attività di giornalista pubblicista su varie testate cartacee e on line. Il suo accattivante saggio ci porta, in un tempo di modernità liquida, a farci riscoprire non solo una lingua, ma una cultura, una civiltà, ancorate a forti fondamenta, ma senza idealizzazioni romantiche.

Anzi: l’autrice in fondo ci mostra come alcuni problemi sociali e come le principali debolezze e i vizi della contemporaneità abbiano in realtà radici profondissime, così peraltro come le virtù più belle. L’incontro con Silvia Stucchi a partire dal suo libro ci porta così ad andare in ricognizione nel mondo della antica civiltà romana.

Professoressa, perché un libro su una lingua cosiddetta “morta” come il Latino?

Mi rendo conto che, alcuni decenni fa, nessuno si sarebbe sognato di imbarcarsi in una apologia del latino, tanto l’offerta scolastica era monolitica e tutta e incentrata sugli studi umanistici. Eppure, già fioccavano le proposte di riforma: a una commissione ministeriale partecipò addirittura Giovanni Pascoli, chiamato a dare il suo parere su varie questioni, come quella dell’utilità della traduzione dal latino e dall’italiano. Infatti, nell’Italia post-unitaria ci si rese presto conto che, dopo anni di studio, solo rarissimi studenti riuscivano a tradurre un brano di poche righe: guarda un po’, proprio come accade ora! Nihil sub sole novi, nulla di nuovo sotto il sole, è il caso di dirlo.

Ora, la scuola è molto cambiata; ma, non appartenendo io alla schiera dei laudatores temporis acti per partito preso, tengo a ribadire che “cambiamento” non è sempre indice di decadenza irreversibile: diverso non significa necessariamente “peggiore”, ed è bene dunque riflettere un po’ sullo statuto di questa disciplina “togli-sonno”. Qualche anno fa, Nicola Gardini, italiano docente a Oxford, intitolò, provocatoriamente, il suo saggio (che avevo letto e recensito con grande piacere) Viva il latino. Storia e bellezza di una lingua inutile.

Ma è indubbio che chi ha studiato il latino ha delle risorse in più: per prima cosa, la sua padronanza della lingua italiana, del lessico, del periodare, è mediamente superiore e più consapevole di quella di chi non ha mai avuto la fortuna di studiare latino. Inoltre, il procedimento con cui affrontiamo una versione, il cosiddetto problem solving, è lo stesso che si applica per la risoluzione di un problema matematico. Inoltre, sottopongo all’attenzione dei lettori un paradosso: il latino non è mai morto, perché, forse, non è mai nemmeno nato.

Mi spiego meglio: il latino letterario, su cui si forma il 99% degli studenti, è una costruzione intellettuale raffinatissima, ma che certo non coincide con il latino parlato dalla gran massa dei cittadini di Roma e dell’Impero, il cosiddeto sermo cotidianus, per ricostruire il quale noi abbiamo pochi elementi: alcune iscrizioni sui muri, scampate all’azione distruttrice del tempo (penso a Pompei); alcune epigrafi che aprono uno squarcio, a volte, con i loro “errori”, sulla discrasia fra il latino ufficiale e quello di tutti i giorni; alcuni passi di autori anche celebri (penso alle chiacchiere dei liberti nella Cena di Trimalchione nel Satyricon di Petronio) che però sono sempre rielaborazioni artistiche del parlato, non certo inserti del latino usato quotidianamente inseriti tout court dall’autore nella sua opera.

Insomma, credo che se, per assurdo, potessimo incontrare Cicerone, credo proprio che resteremmo stupiti dal modo in cui si rivolge alla moglie Terenzia o alla figlia Tullia, ben diverso dal latino solenne che siamo abituati a leggere nelle sue orazioni e nelle opere filosofiche!

Leggendo il suo libro si ha l’impressione che il Latino non sia dietro di noi, ma davanti a noi…

Sì, per certi versi i Romani avevano uno sguardo molto lucido, che aveva individuato e anticipato alcune problematiche, magari ai loro tempi presenti in forma solo incipitaria e che oggi ci affliggono in forma massiccia: penso, per esempio, al tema dell’inquinamento ambientale, che era sperimentato soprattutto nelle metropoli del tempo, Roma, Alessandria, e poche altre; ma anche a esigenze apparentemente più frivole, come la smania di un aiutino per alcuni ritocchini estetici, un problema, evidentemente, che solo poche donne di condizione medio-alta potevano avvertire e su cui potevano intervenire, su cui Ovidio si sofferma in vari punti della sua produzione, nei Medicamina faciei femineae come anche nel terzo libro dell’Ars amatoria.

Ma soprattutto, se il latino è davvero, come ha detto qualcuno, il “codice genetico dell’Occidente”, mi pare che più che “davanti a noi”, esso sia “dentro di noi”: e mi sembra, che, paradossalmente, tanto più in campo medico stiamo scoprendo come la genetica sia la branca risolutiva per tante tipologie di problemi, dal punto di vista storico e culturale ci stiamo avviando, in massa, a un’opera di rimozione spensierata di quello che siamo nel profondo, e di quelle che sono le nostre origini. Eppure, ben difficilmente chi non sa chi è e da che storia proviene può sapere dove andare.

Scorrendo i vari capitoli, leggendo delle speculazioni politiche in Roma antica, gli scandali sessuali, la correzione, verrebbe da dire (ovviamente in latino): davvero Nihil sub sole novi.

Esattamente: già duemila anni fa, nonostante quel tempo e quella civiltà siano stati molto diversi da noi, ci si interrogava su problemi e drammi analoghi. Un po’ perché, mi piace pensare, sulla linea di un’autrice che con il latino non aveva nulla a che fare (non inorridite: penso a quella grande e, per molti versi, misconosciuta scrittrice che fu Agatha Christie con la sua Miss Marple), che la natura umana è sempre simile a se stessa.

Nel suo libro emergono anche figure di grandi maestri, uno sopra tutti Seneca…

Seneca era un uomo dall’intelligenza affilatissima, ma che ci conquista perché era umanissimo, pieno di contraddizioni, delle quali spesso si giustifica: penso, per esempio, a come, da filosofo, risponde alle critiche di quanti gli rinfacciavano che, dall’alto della sua posizione di primissimo livello a corte (precettore di Nerone e poi, di fatto, coreggente dell’Impero), aveva accumulato favolose ricchezze.

Ebbene, egli per prima cosa dice che un filosofo non deve per forza di cose essere povero: deve imparare che i beni materiali sono fugaci e passeggeri, e deve saper, all’occasione, fare a meno di essi, ma non è da imputargli a colpa il fatto di possedere un vasto patrimonio (Seneca ci fa capire che i soli orecchini della moglie valevano quanto le sostanze di una famiglia benestante).

Oppure, egli, dopo aver biasimato la mollezza di costumi tipica delle località di villeggiatura alla moda (Baia, la Montecarlo del tempo, frequentata anche da Nerone e da altri vip del tempo), descrive i passatempi dell’élite in vacanza con tale precisione da farci dire: “Beh, ma allora, se li descrive così bene, li conosce: ci è stato anche lui!” . Seneca stesso dice che, se la filosofia è medicina dell’anima, egli non è altro che un malato come tanti, giacente come tutti gli altri “malati” nello stesso ospedale, e capace di applicare rimedi palliativi, ma non terapie risolutive, alla sua malattia.

Seneca, inoltre, conosceva bene i mali dello spirito, oggi diremmo le distonie neurovegetative e gli attacchi d’ansia, e anzi, più volte, nelle Lettere a Lucilio, ci descrive proprio un attacco di questo male cui, ci dice, egli andava frequentemente soggetto: davvero sembra un nostro contemporaneo, per molti versi, anche per gli argomenti consolatori, modernissimi e a volte paradossali, che sa elaborare; ma di questo parlo nel mio prossimo libro, in uscita per Marietti 1820 a breve.

Questo autore, però, è chiamato in causa anche per quanto riguarda il capitolo che tratta del fallimento educativo: nel mio libro riporto l’ultimo colloquio del filosofo con il suo allievo, Nerone (riferitoci da Tacito, negli Annali): il giovane imperatore dimostra di aver recepito benissimo, anzi, sin troppo bene, gli insegnamenti del maestro, e si presenta come un interlocutore retoricamente ferratissimo, temibile e molto, molto insidioso.

Sul tema del fallimento, educativo, ma anche politico e familiare, chiamo in causa anche Cicerone, altro autore che ritorna in vari capitoli del volume: in effetti, noi siamo abituati a pensare ai classici come a personaggi esemplari, la cui grandezza è scolpita nel marmo, circonfusi di gloria, passati alla storia per il valore paradigmatico di quanto scrissero e per le loro azioni. Ma sono stati anche uomini, dunque non al riparo da cadute e fallimenti, a volte clamorosi.

Perché secondo lei non viene riconosciuto al Latino il merito che gli spetta nella nostra cultura?

Perché studiarlo e padroneggiarlo richiede tempo, applicazione, e un po’ di fatica. Non più che per altre materie, intendiamoci: penso alla matematica, alla chimica, alla fisica, tutte discipline in cui a scuola, anche dove sono materie di indirizzo, e quindi dove si richiede un certo grado di approfondimento, si registrano picchi di insufficienze. Il fatto è che viviamo in un tempo in cui tutto quello che è minimamente difficile, che richiede tempo, impegno, concentrazione non episodica (negli studi come nei rapporti umani) è disincentivato dal mainstream. Tutto deve essere easy e smart: e ne stiamo infatti vedendo i risultati.

Per concludere, in che modo la lingua e la cultura latina possono aiutarci a sopravvivere in questa oscura età della postmodernità liquida?

Spero che un po’ trapeli dalle pagine del mio libro anche un piccolo insegnamento che dobbiamo tenere presente come chiave del vivere meglio: saper relativizzare, saper guardare oltre il nostro angusto orizzonte personale. Chi vive affogando nei problemi quotidiani, quei piccoli problemi che avvelenano la vita, può vedere che l’amore infelice, il tradimento, i dissapori familiari, le delusioni scolastiche, non sono solo mali che affliggono noi, ma sono problemi che aveva già l’uomo romano di duemila anni fa, spesso in forma molto più massiccia. E, un pochino, relativizzare, è la chiave se non per vivere con maggior leggerezza, almeno per non affogare nei problemi.