Effetti culturali del coronavirus

Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân

sulla Dottrina sociale della Chiesa

21 Aprile 2020

Tavolo di Lavoro sul dopo-coronavirus

Pubblichiamo questo articolo che il prof. Giovanni Turco ha scritto appositamente per il nostro Osservatorio nell’ambito del Tavolo di lavoro sul dopo-coronavirus. Segnaliamo anche l’ampia intervista rilasciata dal Prof. Turco al nostro Direttore e pubblicata su La Nuova Bussola Quotidiana: https://www.lanuovabq.it/it/rischiamo-il-collasso-sociale-e-un-nuovo-

di Giovanni Turco

Riguardo agli effetti del coronavirus sotto il profilo sanitario molto è stato detto. Al punto che certe espressioni cliniche sono diventate ormai di uso comune, dando l’illusione, a che si fermi alla ripetizione delle formule, di avere acquisito (puramente per sentito dire) una certa competenza su un problema, riguardo al quale tanti esperti non di rado hanno confessato di avere più dubbi che certezze.

Molto meno, anzi pochissimo, però, è stato detto sugli effetti intellettuali – ovviamente contestuali e indiretti – della diffusione del virus.

Viste le dimensioni dell’epidemia, o meglio considerate le ricadute sulla vita di miliardi esseri umani di quanto è stato stabilito dagli Stati per l’emergenza-virus, non è azzardato opinare che siamo di fronte ad un tornante epocale. Tanto che si potrebbe osservare, parafrasando de Maistre, che quanto sta accadendo non è un avvenimento ma apre un’epoca.

In fondo, al di là dell’immediatezza emotiva (che certo non aiuta a riflettere) tutto lascia intravedere che le ultime settimane sono quelle che segnano una sorta di tornante della storia: come l’imbocco di una curva oltre la quale è difficile intravedere dove conduca la strada.

Ovviamente fatte le debite proporzioni, per cercare di rappresentare gli aspetti sociali della diffusione del coronavirus – anzitutto quanto alla sua proiezione globalizzata, alla sua rappresentazione mediatica ed alle misure pressoché uniformi di contrasto assunte dai governi – si potrebbe adoperare un’espressione usata da un contemporaneo per indicare la Rivoluzione francese: “uno spettacolo non mai più veduto nel mondo”.

Indubbiamente, il fenomeno al quale stiamo assistendo ha qualcosa di misterioso, qualcosa di singolarmente inedito. Sia perché dianzi ignoto (nei suoi termini fattuali), sia perché non interamente riconducibile ad una razionalizzazione del tutto orizzontale.

In tal senso appare come qualcosa che vede l’irrompere nella storia di qualcosa di “tutt’altro”, rispetto a determinati assetti apparentemente stabilizzati, presentati come irreversibili e futurogeni, nonché rispetto agli scenari dell’avvenire dati per certi (fino a qualche mese fa).

Questo accadere che sconvolge “i giochi” o le “regole del gioco” (soprattutto quelle giuspubblicistiche) si può percepire come “misterioso” – non fosse altro che per gli effetti dei provvedimenti ufficialmente di contrasto alla diffusione del virus – in quanto, anche coloro che se sembrano (a vario titolo) dominare gli eventi, decidere in un senso o in un altro, in fondo – e qui torna un ulteriore riferimento demaistriano – ne risultano come “trascinati”.

Insomma, quale che ne siano le cause prossime (biochimiche), almeno quanto agli sconvolgimenti sociali in atto ed all’incertezza dell’avvenire, attraverso l’epidemia si ripropone l’“ignoto”, almeno come qualcosa foriero di un ribaltamento, di uno “sgomento”, di un “silenzio”.

Ciò che non può essere colto se non ci si libera – almeno per qualche attimo – dal turbinio delle emozioni o dall’ansia dell’immediato. Ciò che non può essere in qualche modo capito se non con uno sguardo verticale, capace di levarsi verso l’essenziale, cioè verso il trascendente. Pena l’andare a tentoni, come chi al buio non riesce a trovare la via di uscita, perché non ha né punti di riferimento, né ha presenti le reali dimensioni del luogo in cui si trova.

Il primo di quelli che potrebbero chiamarsi effetti “culturali” o meglio di “carattere intellettuale” – beninteso circostanziali e indiretti – della situazione determinatasi come “riorganizzazione sociale” decisa per fronteggiare il virus è la crisi del razionalismo positivistico.

L’eclissi della nozione di ragione calcolante e dominatrice, capace di ridurre i dinamismi e gli avvenimenti a modelli quantitativi e a nessi meccanici. Perciò capace di prevedere l’avvenire soppesando gli effetti, e/o scommettendo sulla probabilità statistica delle variabili.

Ne esce seriamente indebolita la pretesa di dominare il futuro attraverso la prassi trasformatrice, e di antivederlo applicando schemi, algoritmi, proiezioni. In sostanza, il primato dell’azione, per il quale è decisivo il controllo degli effetti (soprattutto nel campo sociale) mettendo tra parentesi ogni riflessione sulle essenze, appare – nel clima di disorientamento generale – come una immagine restituita da un mondo ormai lontano.

Sicché potrebbe congetturarsi che la crisi partita dall’emergenza sanitaria suggella il passaggio dalla modernità alla postmodernità, o almeno sembra prospettare un complesso di sintomi psicosociali indicativi di una sorta di autocongedo delle promesse della modernità.

In questo contesto sembra dileguarsi all’orizzonte anche il mito dell’irreversibilità della storia. Con questo va incontro al tramonto anche la fiducia assoluta nel progresso rettilineo e necessario, per cui lo scorrere del tempo segnerebbe un irreversibile incremento qualitativo. Da cui deriva l’espressione arciabusata secondo la quale la storia non può che “andare avanti”, verrebbe da dire: come un convoglio posto su un binario.

Non registrerebbe la possibilità di elevazione o di involuzione, come è possibile per tutto ciò che è effetto della libertà umana. Nei frangenti attuali questo ottimismo progressista, come tanti altri elementi, che sembravano acquisiti e posti fuori discussione, sono generalmente messi in questione. Anzi ritenuti con ogni probabilità da modificare (quando non già mutati, quantunque per certi aspetti).

Analogamente sta accadendo per l’ideologia del globalismo ed i processi della globalizzazione. Molti commentatori hanno visto all’orizzonte se non la fine, almeno un ridimensionamento delle rosee attese, riposte nelle dinamiche globaliste. La rappresentazione di un mondo sempre più interconnesso e dagli intrecci sempre più anonimi (ma non per questo meno stringenti) appare – ad uno sguardo che cerca di cogliere le linee di tendenza in atto – quanto meno accantonata (se non eclissata).

E con essa anche la pretesa di pianificare l’organizzazione di aree del pianeta totalmente dedite a certe produzioni ed aree totalmente (o quasi) sprovviste, aree solo industriali ed altre quasi esclusivamente terziarizzate.

Mentre si scopre proprio la grande fragilità di un sistema che quasi sospinge alla delocalizzazione produttiva (e così depriva interi contesti), salvo trovarsi impreparato a reperire prodotti di vitale (aggettivo quanto mai appropriato) importanza, e comunque per nulla difficili da produrre. Come si riscopre l’importanza della disponibilità di risorse agricole interne o addirittura di prossime.

Con il globalismo appare entrato in crisi (anche solo sotto alcuni profili) anche l’europeismo, nel suo significato proprio, ovvero nelle sue radici illuministico-romantiche (ottocentesche) e nelle sue teorizzazioni tecnocratico-dirigistiche (novecentesche), fino ai vaticini che esibivano una laicissima “fede nell’Europa” (ovviamente quella indicata dal modello ideologico ritenuto caparra dell’avvenire).

Molti episodi emblematici e dichiarazioni, persino istituzionali, parlano di rischi di “decomposizione” o di “disintegrazione” dell’Unione, di sfide mancate le quali il futuro sarebbe assente. E questo non quali “esterne” critiche oppositive, ma quali espressioni di “interne” ansiose preoccupazioni.

Contestualmente sembra caduto nel dimenticatoio l’allarme planetario per il cambiamento climatico. Pur essendo rappresentato come emergenza primaria, fino a qualche mese fa, è stato eclissato da un’altra emergenza, di ben altro impatto diretto (almeno quanto alle possibilità di contagio).

Da tema ineludibilmente ricorrente, giudicato tra i prioritari dell’agenda globale, ha finito per rappresentare un ricordo di una cronaca recente, eppure quasi corrispondente ad un’immagine sfuocata di un mondo “di prima”. Quasi un’immagine di ansie passate o di iniziative rinviate a data da destinarsi.

Così, anche il vaticinio della fine delle frontiere è stato smentito dai fatti, molto più rapidamente di quanto si potesse immaginare. Nel volgere di qualche settimana è stato recuperato in gran fretta il vincolo dei controlli alle frontiere, fino alla chiusura per ragioni sanitarie. Con la corrispettiva esigenza (almeno dichiarata) non solo di fermare il contagio, ma anche di difendere una comunità abitante un determinato territorio da qualcosa – in questo caso, l’agente patogeno – proveniente da oltre confine.

Analogamente sembra il ricordo di un passato piuttosto lontano (anche se di certo contiguo nel tempo), l’appello insistentemente ripetuto a costruire ponti e ad abbattere muri.

Chi lo ripeteva ha presto smesso di farlo. Nei giorni della quarantena imposta per norma e della segregazione domestica come antidoto al contagio si riscopre l’importanza dei muri: delle mura di casa (per proteggersi dal virus), delle mura delle città, in certo senso circoscritte dagli snodi della viabilità (per verificare gli spostamenti), delle mura dei varchi di confine (per controllare i transiti). In sostanza,

il virus (senza saperlo) pare avere accelerato la crisi della futurologia delle ideologie e delle utopie. Con effetti che potrebbero essere detti decostruttivi o altrimenti disillusivi. Per segnare il pieno ingresso nella “fluidificazione” della postmodernità o per accennare un’inversione verso la normatività dell’essenziale? È presto per dirlo.

Ed in ogni caso tanto dipenderà dall’intelligenza e dalla responsabilità di ciascuno. Pur in un clima di bulimia del virtuale, ce n’è abbastanza per cominciare a riflettere, a mente serena, sugli effetti del coronavirus sotto il profilo del clima culturale.