Che faranno i Paesi poveri se i “ricchi” si ammalano

la Nuova Bussola quotidiana

11 Aprile 2020

Anche in piena epidemia Oxfam non cambia musica: chiede ai Paesi ricchi di aiutare quelli poveri a combattere il coronavirus. Ma la Ong non si chiede perché i Paesi poveri siano poveri. La risposta si trova nel tribalismo, nella corruzione e nella violenza delle loro classi dirigenti. Sarebbe meglio chiedere a loro i soldi necessari.

di Anna Bono

Oxfam, la confederazione di organizzazioni non profit impegnata dal 1942 a combattere la povertà, lancia una raccolta di firme per rivolgere ai leader del G20 cinque richieste: garantire l’accesso gratuito alla sanità per tutti; sostenere la diffusione delle pratiche per prevenire il coronavirus; raddoppiare la spesa sanitaria degli 85 Paesi più poveri del pianeta finanziandoli con aiuti e la cancellazione del debito; assumere e formare 10 milioni di nuovi operatori sanitari; rendere vaccini e terapie un bene pubblico globale.

In sostanza Oxfam vuole che i Paesi industrializzati si assumano, ancora una volta, l’onere di aiutare quelli in via di sviluppo. È con il loro denaro, in realtà soprattutto quello di una parte dei Paesi – Stati Uniti, Stati europei, Unione Europea – che da sempre l’Ong combatte la povertà attraverso l’erogazione di aiuti umanitari e la realizzazione di progetti di sviluppo.

In realtà però gli aiuti umanitari non sconfiggono la povertà, ne attenuano i disagi fornendo ai poveri ciò che non sono in grado di procurarsi. Se l’assistenza viene meno, chi la riceveva ripiomba nello stato di indigenza. In altre parole, chi viene aiutato resta povero, ma risente meno della mancanza di risorse. I progetti di sviluppo invece se hanno successo consentono alle persone alle quali sono indirizzati di diventare autosufficienti.

Tuttavia molti progetti, sia per oggettive difficoltà sia, e più ancora, per scelte ispirate da ideologie antioccidentali – ostilità nei confronti del mercato, del modo di produzione capitalistico, del modello di vita occidentale – sono concepiti per superare la soglia di povertà, aggiungendo qualche risorsa a quelle limitate, irregolari e incerte che l’economia di sussistenza produce. Quindi chi ne beneficia continua ad avere bisogno di aiuto nella vita quotidiana e all’insorgere di difficoltà.

Quando si aggiornano i dati sulla povertà, seppure con giusta soddisfazione per il suo costante calo, non si spiega che chi ne supera di poco la soglia non è comunque in grado ad esempio di acquistare un paio di occhiali da vista, curare i denti, abitare in case e quartieri salubri e difficilmente si riprende da un incidente o riesce ad affrontare con i propri mezzi una crisi.

Ad aggravarne la situazione, la maggior parte delle persone di cui Oxfam e altre organizzazioni internazionali impegnate in interventi umanitari si preoccupano – Ong, agenzie Onu, fondazioni… – sono povere perché vivono in paesi male amministrati, in cui assistenza e previdenza sociale funzionano poco o sono assenti, in cui molte difficoltà dipendono dall’incuria, se non peggio, di chi controlla l’apparato statale: più che dalla mancanza di risorse, dal loro uso sconsiderato.

Casi esemplari sono lo Zimbabwe, annichilito da decenni di politiche economiche deliranti, il Sudan del Sud, scampato alla persecuzione di un governo criminale solo per piombare due anni dopo la secessione dal Sudan in un cruento conflitto tribale, la Guinea Equatoriale, da 41 anni governata da una famiglia che considera e usa i proventi del petrolio di cui il paese è ricco come proprio patrimonio.

Per restare in Africa, ma vale per paesi di altri continenti, oltre agli scontri politici, religiosi, tribali che aprono crisi sociali ed economiche, governi e istituzioni sono responsabili delle emergenze sanitarie che sono conseguenza di condizioni abitative e di lavoro malsane, di denutrizione e malnutrizione e di sistemi sanitari inadeguati. Il fattore umano inoltre è all’origine anche di emergenze dovute a fenomeni atmosferici avversi di cui moltiplica i danni.

Negli 85 Paesi più poveri del pianeta centinaia di milioni di persone si ammalano e molte muoiono a causa di malattie altrove scomparse o curabili e di cui è possibile prevenire l’insorgere, altrettante subiscono impotenti e abbandonate a se stesse inondazioni, siccità, uragani, persino invasioni di locuste.

Nella Repubblica democratica del Congo oggi le epidemie da combattere sono cinque: oltre al Covid-19, la malaria che nel 2019 ha colpito 1,5 milioni di persone, il colera, che è endemico, e di cui lo scorso anno si sono registrati più di 30mila casi, il morbillo che nel 2019 ha ucciso più di 6mila persone, in gran parte bambini, e ne ha contagiate 310mila, e infine Ebola,comparso nell’est nell’agosto del 2018 e forse finalmente sconfitto perché dal 3 marzo non si registrano contagi, ma devono trascorrere 42 giorni senza nuovi casi per esserne sicuri.

L’Oms, in collaborazione con Unicef, Medici senza frontiere e altri organismi, nel 2019 in Congo ha vaccinato contro il morbillo 18 milioni di bambini, ha fornito mezzi, denaro e servizi rivolti alla popolazione e ha formato 60 operatori sanitari alle dipendenze del ministero della sanità congolese, ora in grado di svolgere una serie di servizi e attività. Per Ebola, Oms, Msf e altre Ong hanno creato dal nulla presidi, ambulatori, postazioni mobili, aiutati per la prima volta da un vaccino che ha consentito di contenere l’epidemia, il numero di ammalati e le vittime.

Che ne sarà di queste e di tutte le altre emergenze umanitarie precedenti al coronavirus, niente affatto risolte, ora che ogni Paese del pianeta deve pensare a mettere il proprio sistema sanitario in grado di far fronte all’epidemia e deve usare le risorse di cui dispone per arginare la crisi economica e sociale generata dal virus? Oxfam le firme dovrebbe raccoglierle per sollecitare i governi degli 85 Paesi più poveri a soddisfare le sue richieste.

Dovrebbe farlo perché per la maggior parte non sono affatto Paesi poveri, al contrario. Dovrebbe farlo perché sarebbe giusto. Non lo fa perché sa che non gli darebbero ascolto e perché è abituato a pensare che debbano e possano provvedere i Paesi “ricchi”, come hanno sempre fatto.