Odio e fake sono un bel problema, ma la censura sarebbe molto peggio

l’Occidentale 4 marzo 2020

di Renato Tamburrini

La campagna contro l’odio, come ho cercato di spiegare in un altro articolo, è solo la versione più aggiornata di un’idea che ha trovato piena cittadinanza a sinistra già da qualche anno, ed è la convinzione che nei social i messaggi sovranisti, razzisti e omofobi abbiano comunque la meglio e che la rete sia diventata una colossale cassa di risonanza per questo tipo di propaganda. Da questa convinzione deriva una certa insistenza nella richiesta di controllo pubblico e, al limite, anche di censura ad opera di autorità o di commissioni di emanazione pubblica.

Se però andiamo un po’ più indietro scopriamo che il mondo progressista non ha sempre condiviso questa lettura: è vero che nel 2019 Barack Obama, intervenendo all’annuale Dreamforce Conference a San Francisco, è arrivato a denunciare la rete come principale responsabile della diffusione di razzismo e omofobia, ma non si deve dimenticare che nel 2008 lo stesso Obama aveva basato sui social una quota importante della sua campagna elettorale, ottenendo risultati decisivi anche in termini di penetrazione nei vari target etnici e sociali, addirittura mediante l’organizzazione di un apposito dipartimento.

Cosa è successo in un decennio? Ci sono varie spiegazioni, ma – senza timore di semplificare eccessivamente – dobbiamo prima di tutto constatare che il cambiamento di percezione in buona parte è avvenuto dopo il successo della campagna elettorale di Trump e l’esito del referendum sulla Brexit.

Alla fine degli anni 90 rispetto alla “rete” predominava l’aspettativa di crescita della consapevolezza democratica attraverso l’aumento della partecipazione; addirittura si ipotizzava che il web 2.0 – interattivo – avrebbe favorito un percorso virtuoso verso la democrazia diretta, con l’eliminazione più o meno radicale dell’intermediazione della classe politica (per giunta corrotta, vi ricorda qualcosa?). Il quadretto ottimistico corrispondeva in pieno al clima generale con cui da parte progressista si guardava alla globalizzazione: stava per nascere un mondo nuovo, senza frontiere politiche ed economiche, senza sovranità statuali, senza differenze e barriere di nessun tipo, culturali, nazionali e perfino sessuali.

Ma sappiamo che poi la storia ha preso un’altra piega, e la globalizzazione –complice una virulenta crisi economica mondiale- è stata segnata da varie criticità, quelle che hanno portato una parte consistente dell’opinione pubblica alla rivalutazione proprio delle realtà (viste come fastidiose incrostazioni sulla via del progresso) che ci si aspettava dovessero essere superate: sovranità, frontiere, identità nazionali e locali, legami comunitari e familiari.

In questa pendolarità fra aspettative e delusioni la rete ha mostrato un’intrinseca elasticità, e, come a suo tempo era stata il volano del progressismo globalista, a un certo punto è diventata la chiave – o almeno una chiave e di sicuro lo specchio– del successo di alcune istanze sovraniste e identitarie.

E così l’élite globalista ha sviluppato una crescente diffidenza verso il mezzo in sé, e ha cercato di capire i motivi di una svolta abbastanza inattesa.

Lo stupore per il successo dei temi agitati da Trump e dai sovranisti in generale ha dapprima prodotto il livello più elementare di spiegazione: sono stati i servizi russi a manipolare le elezioni. I servizi russi – una sorta di Spectre onnipresente – sono stati tirati in ballo per coprire qualche altro insuccesso, ma in maniera sempre meno convinta e, soprattutto, sempre più scarsamente convincente: se nessuno può escludere che servizi segreti di questo o quel paese abbiano interesse a manipolare notizie o a diffonderne di false, è difficile spiegare riduttivamente con questo argomento il voto di milioni e milioni di persone, spesso sociologicamente lontane dall’uso intenso della rete; persone oggetto di disprezzo, i famosi miserabili di Hillary Clinton, che si ingurgiterebbero di notizie false e che con esse alimenterebbero le proprie scelte politiche. In fondo è la riproposizione dello schema classico per cui se voti a destra sei per lo più un poveraccio ingannato: in Italia lo conosciamo benissimo, era applicato anche a chi votava DC e poi Berlusconi (quando la fonte di intossicazione era la TV), ma onestamente come strumento ermeneutico è piuttosto scadente e non va oltre la solita autocelebrazione di chi si ritiene detentore di una inossidabile superiorità antropologico-culturale.

Anche l’asserzione che le fake news siano apparse con la rete globale e con i social e li abbiano colonizzati ha le gambe cortissime: notizie false hanno circolato fin dall’antichità, e sono state abbondantemente credute e riciclate; in area nordamericana il temine è stato usato anche per i giornali cartacei e la TV. E oggi, se vogliamo essere davvero equanimi, le fake alla fine sono in larga parte semplicemente quelle che diffonde il mio avversario.

A un certo punto, di raffinatezza in raffinatezza, o piuttosto di scivolamento in scivolamento, si è parlato di post-verità, e anche questo soprattutto in riferimento al malefico Trump: sarebbe la condizione in cui la differenza tra vero e non vero perde di importanza, fino a svanire. Il termine ha un’origine e un senso nella filosofia della conoscenza, ma è sicuramente inapplicabile alla vita delle persone concrete, ognuna delle quali, polemizzando in rete, è convinta invece di possedere e ribadire la verità. I frequentatori della rete in realtà sono rocciosamente (anche se spesso inconsapevolmente) aristotelici, non seguono certo la tesi filosofica per cui i fatti non esistono, ma solo la loro interpretazione. Tant’è che il concetto di post-verità applicato all’universo della comunicazione in rete Alessandro Baricco lo ha definito senza mezzi termini “una bufala” e Roger Scruton “pure nonsense”.

Piuttosto, per capire meglio che cosa succede nell’universo comunicativo in cui siamo inseriti sembrano molto più appropriate altre spiegazioni, e prima di tutto la constatazione che le notizie false e le mezze verità circolano con velocità sconosciuta in passato a causa del potenziale tecnologico e della pervasività della rete.

Proprio la velocità e la rapidità fanno sì che le notizie, per continuare a “galleggiare”, in qualche modo perdano peso e diventino più leggere. La complessità tende ad essere bandita e, oltre ai falsi veri e propri, in rete viaggia un numero elevato di mezze notizie, chiamate felicemente “verità veloci” e anche “fattoidi”: si tratta di notizie in origine vere, ma che circolando perdono riferimenti temporali, complicazioni e sfumature.

Se una scuola introduce gli emoticon accanto ai voti in pagella, la notizia non è abbastanza acuminata per sfondare nella selva delle migliaia che affollano la rete, e sopravvive solo se diventa “abolita la pagella, le faccine sostituiscono i voti”.

Un fenomeno simile capita per taluni dei corsi “aboliti” delle università americane, alla cui base ci sono sempre notizie vere di affiancamento con corsi alternativi e politicamente corretti: è il prodotto di una crescente propensione al multiculturalismo e alla rimozione dell’egemonia bianca eurocentrica che agisce – e non da oggi (basta ricordare che il “Declino della mente americana” di Allan Bloom è del 1987) – come forte fattore di depotenziamento della cultura basata sul “canone occidentale” (secondo l’espressione coniata dall’altro grande Bloom, Harold).

L’alleggerimento e la velocizzazione delle notizie, con l’aumento della loro performance penetrativa, funziona per molte altre faccende, anche quelle che si prestano assai meno a scontri polemici, ma magari impressionano per la stranezza (Baricco in “Game” esamina il caso della notizia delle vendite dei dischi in vinile che avrebbero superato i cd, diffusa e commentata come notizia generale, ma che in realtà era riferibile a un breve periodo a Londra, complici i regali di Natale).

A cascata non solo i post e le repliche social, ma anche i commentatori pensosi a volte rilanciano le “verità veloci” e i “fattoidi” senza verificare le fonti, e contribuiscono a un generale processo di disinformazione, nel quale la notizia diventa irriconoscibile, mentre il giudizio e lo stigma viaggiano rinforzando i toni ad ogni tappa. È così che la realtà fattuale in qualche modo diventa davvero secondaria, e solo in questo senso non è fuori luogo parlare di “post-verità”.

La dinamica di alleggerimento e di perdita di spessore delle notizie è stata preceduta ed è robustamente accompagnata nella nostra società da una diffusa svalutazione delle autorità, delle competenze e del sapere professionale: questo processo non è cominciato ieri, e a ben guardare ha radici plurisecolari, ma si è innestato perfettamente nella polemica contro le élite e nella contrapposizione popolo/élite che ha seguito la crisi della globalizzazione. Sarebbe importante ripristinare correttamente gli ambiti e le distinzioni, ma non è un’operazione culturale facile, di fronte alla valanga della “democratizzazione” che ha colpito via via la religione, la filosofia e alla fine anche la scienza, con tutti i loro rituali e le loro rappresentazioni.

Non è difficile capire come tutto il quadro possa essere considerato davvero preoccupante, e che da più parti ci si industri a immaginare e perseguire interventi correttivi; ma il problema è che ci sono rischi ancora più preoccupanti, legati alla pretesa che autorità e commissioni di emanazione politica possano valutare ciò che circola in rete.

Al di là della zona penalmente rilevante, ci sono certamente vasti compiti educativi (al rispetto) e formativi (alla verifica delle fonti e all’apprezzamento delle competenze) che sono in carico alla famiglia, alla scuola e, nell’insieme, alle agenzie educative e alle istituzioni culturali. Si tratta di un lavoro faticoso e complesso, ma è l’unico con cui possiamo sperare di raddrizzare davvero le tendenze negative e l’unico che ci consente nello stesso tempo di mantenere ben tutelati gli spazi della libertà rispetto alla pretesa di instaurare censure, verità e rieducazioni di stato, e perfino versioni obbligatorie della storia.