La Roma dei concili e della Chiesa (*)

Studi Romani Anno X – settembre-ottobre 1962

Testo del discorso con il quale il 10 ottobre 1962 in Campidoglio, nella Sala degli Orazi e Curiazi, S. E. Em. il Cardinale Giovanni Battista Montini, Arcivescovo di Milano, inaugurava il ciclo delle conferenze sui Concili Ecumenici organizzato dall’Istituto di Studi Romani sotto gli auspici del Comitato italiano per il Concilio.

Onorevole Signor Sindaco della città di Roma, che, insieme con il Signor Presidente dell’Istituto di Studi Romani, avete invitato in questa storica aula quanti siamo presenti e quant’altre Autorità politiche, civili, accademiche, giudiziarie, militari, della Città e della Nazione italiana; voi, Signori Diplomatici, che rappresentate presso la Repubblica italiana e presso la Santa Sede così vasta e così illustre corona di Nazioni ed ora, qua convenuti, al nome di Roma recate l’onore della presenza; e voi Signori, cittadini dell’Urbe, che qui siete quasi esponenti del suo fatidico popolo, accogliete il mio devoto e cordiale saluto.

Debole, assai debole voce sarebbe quella che lo proferisce, se al duplice titolo, che gli conferisce qualche personale valore: quello cioè di aver io stesso trascorso a Roma, in laboriosi uffici, la maggior parte della mia vita, tutta e sempre presa dal misterioso fascino di questa città, e quello di poterle offrire il mio riverente omaggio come umile ma autentico Arcivescovo di Milano, la città che a Roma imperiale e papale fu nella storia seconda e a Roma sempre fedele; al duplice titolo, io dico, un altro oggi più solenne, nel fatto e nel sentimento, non si aggiungesse, quello di essere io stesso un membro dell’imminente Concilio Ecumenico, e di poter così interpretare, sicuro di non errare, gli animi degli Eminentissimi Signori Cardinali presenti, e degli altri Eccellentissimi Arcivescovi e Vescovi e Prelati ed Ecclesiastici qui assistenti, con tanta loro bontà e con tanto loro interesse.

Ebbene, forte di queste ragioni, che trascendono la modestia della mia persona, sono lieto e fiero di porgere a Roma e all’Italia, al popolo romano ed italiano ed ai suoi Magistrati il saluto riverente ed augurale dei Padri del Concilio Ecumenico Vaticano II.

Già hanno risuonato ai nostri cuori e li hanno commossi di plauso sincero e di sentita gratitudine le nobilissime parole del Signor Presidente della Repubblica, quelle alte ed eloquenti dei Signor Presidente del Consiglio dei Ministri e le vostre dal timbro quirite, Signor Sindaco di Roma; e mi pare dover subito tributarvi, a nome di quanti della Santa Sede e della Chiesa cattolica io possa ora rappresentare, una viva espressione di omaggio, di augurio, di ringraziamento.

Si prepara così come meglio non si potrebbe desiderare, il grande avvenimento.

Si apre il Concilio Ecumenico Vaticano II. Esso ha già fatto tanto parlare di sé che ne siamo tutti informatissimi. Certamente meritava un avvenimento di tanta importanza un’ampia e preventiva illustrazione.

Noi fortunati se siamo pronti ad assistere ad un fatto così grande e così singolare, ed anche, come a ciascuno è dato, a parteciparvi con la preparazione che ci faccia valutare la sua singolare natura, la sua incidenza storica, la sua funzione nella vita della Chiesa, le sue coerenze morali e sociali, le sue possibili ripercussioni nella presente e nelle future generazioni.

Resta un aspetto da considerare, che sembra in questa vigilia prendere evidenza: quale rapporto questo Concilio Ecumenico abbia con Roma. Ed è chiaro che così dicendo nessuno di noi pensa al rapporto esteriore, che deriva dal fatto che un tale avvenimento si celebra a Roma, obbligata ed onorata ad esercitare un’ospitalità verso forestieri, che qui si sentono cittadini. La considerazione si addentra a cercare il perché di questa loro cittadinanza e a valutare il rapporto spirituale che intercede tra l’Urbe e la riunione dei Vescovi di tutto il mondo intorno al Vescovo di Roma.

È questa l’osservazione, io penso, alla quale tutti ci invita questo Istituto di Studi Romani, tanto fervoroso e sagace cultore di ogni realtà che a Roma si riferisca, e tanto benemerito nel sigillarne le espressioni in opere di alto valore documentario e scientifico, e nel divulgarne la notizia con metodica e indefessa premura.

Ora, Signori, per cogliere in qualche suo intimo e notevole significato tale rapporto, mi pare che in questo momento non vi sia bisogno di qualche lirica e sonante declamazione, alla quale facilmente ci tenterebbe la zampillante varietà delle reminiscenze storiche e letterarie, provocata dai due termini posti a confronto: Roma e il Concilio; vi è piuttosto bisogno di un momento di silenziosa riflessione, d’uno sforzo di precisazione e di approfondimento del fatto che avvicina sotto i nostri occhi questi due concetti, o meglio queste due realtà, e che ci sollecita a meglio comprenderle e a meglio classificarle nel nostro pensiero.

Questo semplice discorso perciò, più che al servizio della mia parola, si affida alla virtù del vostro silenzio interiore, teso ad ascoltare il linguaggio delle grandi cose che abbiamo davanti.

Occorre osservare. Pare innanzi tutto notevole il fatto che questo imminente Concilio si celebri a Roma, la quale lo accoglie con molto onore e con molta circospezione, e si trova in condizioni ben diverse dalla Roma che accolse il primo Concilio Vaticano: Roma papale quella, Roma italiana questa. Il confronto fra l’Urbe del 1870 e la città del 1962 sorge spontaneo alla mente per rilevare non tanto l’aspetto esteriore enormemente e splendidamente migliorato della Roma odierna e assai differente dal volto, sempre regale ma invecchiato e sofferente, della Roma ottocentesca di allora, quanto per ricordare il comportamento ideale e politico, stanco ed inquieto a quel tempo, febbrile e vario, ma ben definito al tempo nostro.

Non si può dimenticare che la presenza del Concilio Ecumenico a Roma nel ’70 non valse a placare il fermento politico che dentro e fuori l’agitava, né a contenere la pressione degli avvenimenti, che portarono, proprio in quei giorni, alla caduta del potere temporale del Papa, ed insieme, con la Bolla Postquam Dei munere del 20 ottobre 1870, alla sospensione del Concilio Vaticano I, praticamente – lo abbiamo appreso adesso – alla sua fine.

Parve un crollo; e per il dominio territoriale pontificio lo fu; e parve allora, e per tanti anni successivi, a molti ecclesiastici ed a molti cattolici non potere la Chiesa romana rinunciarvi, e accumulando la rivendicazione storica della legittimità della sua origine con l’indispensabilità della sua funzione, si pensò doversi quel potere temporale ricuperare, ricostituire.

E sappiamo che ad avvalorare questa opinione per cui fu così travagliata e priva delle più cospicue sue forze, quelle cattoliche, la vita politica italiana, fu l’antagonismo sorto tra lo Stato e la Chiesa.

Parole concilianti, ma seguite da contrari fatti severi, non valsero a rassicurare il Papato che privato, anzi sollevato, dal potere temporale, avrebbe potuto esplicare egualmente nel mondo la sua missione; tanto più che nell’opinione pubblica a lui avversa era diffusa la convinzione, anzi la triste speranza, che la secolare istituzione pontificia sarebbe caduta, come ogni altra istituzione puramente umana, col cadere dello sgabello terreno sul quale appoggiava da tanti secoli i suoi piedi, voglio dire la sua presenza politica nel mondo e la sua sempre mal difesa indipendenza.

* * *

Ma la Provvidenza, ora lo vediamo bene, aveva diversamente disposto le cose, quasi drammaticamente giocando negli avvenimenti. Il Concilio Vaticano I aveva infatti da pochi giorni proclamata somma ed infallibile l’autorità spirituale di quel Papa che praticamente perdeva in quel fatale momento la sua autorità temporale.

Il Papa usciva glorioso dal Concilio Vaticano I per la definizione dogmatica delle sue supreme potestà nella Chiesa di Dio, e usciva umiliato per la perdita delle sue potestà temporali nella stessa sua Roma, ma com’è noto fu allora che il Papato riprese con inusitato vigore le sue funzioni di Maestro di vita e di testimonio del Vangelo, così da salire a tanta altezza nel governo spirituale della Chiesa e nell’irradiazione morale sul mondo, come prima non mai.

Oggi ci è difficile e quasi molesto comprendere le passioni che tanto commossero e amareggiarono le vicende di quel tempo e degli anni successivi. Qualche cosa mancò alla vita italiana nella sua prima formazione, non foss’altro la sua interiore unità, la sua consistenza spirituale, la sua umanità patriottica, e di conseguenza la sua piena capacità a risolvere i problemi della sua società disuguale, tanto bisognosa di nuovi ordinamenti, e già fin d’allora attraversata da fiere correnti agitatrici e sovversive.

Per nostra fortuna abbiamo raggiunto una soddisfacente composizione con la famosa conciliazione del 1929 e con l’affermazione della libertà e della democrazia nel nostro Paese. Ci è concesso così di celebrare la vigilia di questo imminente Concilio Ecumenico Vaticano II con ben altri auspici di quelli che salutarono il primo. Il viaggio della scorsa settimana di Papa Giovanni XXIII a Loreto e ad Assisi è magnifico preludio esteriore al grande prossimo avvenimento e ci dimostra in quale serena atmosfera esso sia accolto e da quale rispettosa comprensione esso sia circondato.

Come il tragico periodo dell’ultima guerra mise a dura prova la formula giuridica della conciliazione mostrandone sì la validità, ma sotto alcuni aspetti i limiti ed i pericoli, e sotto altri la provvidenzialità che valse a Roma la salvezza, così il prossimo Concilio instaura un nuovo collaudo di quella formula, non già per quanto tocca l’incolumità del Papa e le sorti della Città, ma per quanto riguarda la possibilità del Papa di avere rapporti con la Chiesa e con il mondo, la sua capacità di celebrare i più grandi avvenimenti della vita della Chiesa in casa propria; in altri termini, la sua indipendenza, la sua libertà, la sua funzionalità, che è quanto costituì il nucleo essenziale della questione romana. Il collaudo si prospetta positivo. Roma ne gode. Plaudono la Chiesa ed il mondo.

Ma questo accostamento di Roma civile al Concilio Ecumenico è fecondo di ben altri pensieri. Il Concilio è celebrato proprio in quella porzione del suolo dell’Urbe, che per amore di pace ha perfino rinunciato a denominarsi romana, contentandosi giuridicamente del nome vaticano (ch’è poi ancora d’una porzione di autentica Roma, di terra, di storia, di spirito), e si solleva il Concilio, davanti agli occhi della Capitale d’Italia come una sua maestosa immagine, affascinante e conturbante.

Roma civile non può non riconoscere nella vicina Città religiosa, che in lei stessa si compone di singolari e liberi cittadini, venuti da ogni parte del mondo, con sembianze trasfigurate di forme modellate romanamente, certi suoi propri lineamenti, i quali proprio per la maestà, la bellezza, la profondità che in quella piccola grande Roma vaticana vengono col Concilio assumendo, si fanno a Roma nazionale più noti e più impressionanti.

Osserviamo bene. Avviene tra Roma e il Concilio Ecumenico Vaticano II un fenomeno di mutuo rispecchiamento. Roma si riflette nel Concilio e il Concilio in Roma. E reciprocamente prendono più nutrita coscienza di sé. Non è un semplice gioco di immagini storiche, o di prospettive concettuali. È l’avvicinamento di due realtà, che hanno strani caratteri di rispettiva corrispondenza, di somiglianza e di distinzione, i quali invitano ad un confronto ed a una nuova precisazione di rapporti.

Perché: che cosa vediamo? Vediamo, innanzi tutto, che si tratta, come dicevo, di due realtà. Che sia realtà storica, concreta e grande Roma italiana, nessuno lo contesta, anzi tutti lo affermiamo senza riserve. La stiamo vivendo e celebrando noi stessi questa realtà nel momento presente mentre stiamo parlando di Roma sul Colle fatidico, il Campidoglio che di Roma simboleggiò nei secoli la forza e la gloria.

Questa Roma si è posta come entità nuova storica e politica, fissando a se stessa le sue dimensioni e le sue funzioni nell’ambito d’una circoscrizione statale. Risparmiamoci le citazioni e le testimonianze. Basti ricordare che il Risorgimento italiano ebbe per meta di dare al nuovo Stato italiano capitale Roma.

E basti per tutte la voce di Cavour, che nel marzo 1861 affermava con commozione e con forza, plaudente il primo Parlamento italiano, che nessun’altra città fuori di Roma poteva dare alla Nazione italiana la pienezza della sua dignità statale. Così fu e così è.

Ma Roma può essere soltanto nazionale se vuol essere pari a se stessa? Può bastare a soddisfare il suo radicale universalismo la memoria del suo glorioso passato? Può bastare la compiacenza dell’apporto imperituro del genio romano alla cultura mondiale? Può bastare la celebrazione poetica della «Dea Roma»? Io non lo so.

So che tutto questo alimenta in Roma la coscienza di una sua eccezionale vocazione, la nostalgia romantica del suo regale passato, la velleità ideale di avocare oggi a sé tutto il retaggio del suo nome e del suo destino, quasi che la sua odierna misura la potesse tutta contenere, o il conato verso un nuovo impossibile imperialismo; e so che tutto ciò dimostra che Roma ideale è più grande di se stessa reale, e che Roma definendosi nazionale non può, da sé, rivestire carattere realmente sovranazionale, come vorrebbe quella sua originaria vocazione, né presumere di porsi oggi come vero centro mondiale pro pulsare e coordinatore della vita moderna. Così che Roma, oggi, resta problema a se stessa. Contenta di sé, cerca di superarsi.

Non diciamo nulla di originale se ricordiamo che sopravvive un’altra Roma, sopra un altro piano, la Roma della fede cattolica. Ma questo è il momento di ripensare a questo fatto e di fissare lo sguardo nelle evidenze essenziali ch’esso sempre presenta, ma che ora acquistano particolare splendore.

Dovrei parlare piuttosto di Chiesa che di Roma, ma per il fatto appunto che la «Ecclesia», la grande assemblea dell’umanità cristiana, nelle persone dei suoi Vescovi, si raduna a Roma, e sembra ivi collocarsi per misteriosa e connaturale coincidenza, i due termini assumono una singolare corrispondenza, quasi un’equipollenza.

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Quale Roma è questa? Viene in esame il suo atto di nascita, la sua età; e non solo la durata cronologica della sua esistenza, ma il prodigio della sua durata storica: nessun organismo umano vanta eguale persistenza, eguale coerenza, eguale debolezza di strutture terrene, eguale esperienza di avversità esterne ed infermità interne, eguale pretesa di tutto abbracciare ed eguale esiguità di forze umane per farlo.

Non è una mummia che un secolo tramanda all’altro; è una vita; e quale vita, la più nobile, la più inquieta, la più versatile, quella dello spirito! Una vita, che ha tale mandato di resistenza e tale coscienza di immortalità storica, da definirsi con paradossale contrasto una pietra: Tu sei Pietro.

Una città che non ha paura del tempo, del dinamismo umano, del progresso e della decadenza, della sua stessa possibile distruzione. È una Roma che per se stessa rimane. Roma eterna. Non solo quella degli Imperatori, quella anche degli Apostoli. Il paragone non è per decidere quale delle due sia più durevole, ma per osservare come entrambe giochino a sfidare i secoli.

E che l’appellativo, per enfatico che possa sembrare, non sia retorico, non sia anacronistico, altri aspetti della seconda Roma, oggi mentre il Concilio la popola, resi sensibilmente evidenti, ci confortano a credere. La sua universalità fra tutti. È l’aspetto che più risalta agli occhi di qualsiasi osservatore.

Il Concilio porta a Roma il mondo, come a casa sua. Che sia mondiale l’assemblea del Concilio ognuno lo vede. Vengono alle labbra le parole di Sant’Agostino: «Chorus Christi jam totus mundus est» (in Ps.149,7, P. L.37,1953). Che trovi a Roma la sua sede congeniale sembra parimente chiaro.

Ma si tengano presenti, a questo riguardo, due cose: la prima, che la Chiesa di Cristo, collocandosi a Roma, non diventa cattolica cioè universale come autorevolmente, ma a torto, è stato asserito da alcuni, ma si ritrova quella ch’essa già è per nativa costituzione, cioè cattolica. La Pentecoste precede ogni determinazione locale e storica della Chiesa.

Il fatto meraviglioso e misterioso si è che il primo, il capo anzi degli Apostoli, Pietro, abbia scelto per sede del suo ministero, il ministero di Vicario di Cristo, la città capitale del mondo civile di quel tempo, stranamente avversa a condividere con Lui qualsiasi autorità, ma stranamente predisposta a interpretare nella civiltà terrena le esigenze del messaggio evangelico, e che Pietro vi abbia così fissato il cardine della centralità, dell’unità della Chiesa; come è meraviglioso e misterioso il fatto parallelo che il primo Apostolo delle Genti, il primo Promotore della Cattolicità, Paolo, per divino comando, sia parimente venuto a Roma e vi abbia predicato con la parola e con sangue, Lui cittadino romano, il nome di Cristo.

Non si può dimenticare, perché ha in sé qualche cosa di profondo e di decisivo, la visione notturna di Paolo, nella quale il Signore lo ammonisce: «Sii forte… Tu devi anche a Roma (il nome di Roma appare nelle intenzioni divine!), anche a Roma portare la mia testimonianza» (Act.23; II).

Così che i due umili Apostoli, uno principalmente simbolo della unità della Chiesa, Pietro, l’altro Paolo, della cattolicità, fondavano nella città pagana quella cristiana; l’una e l’altra coincidenti per luogo e per cittadini: originali entrambe ma consonanti per armonia di concezioni di piani e di scopi e insieme radicalmente distinte per strutture e per fini, e ponevano, anche nell’avversa fortuna fin dall’arrivo alla città dei Cesari, il principio della duplice potestà (donde scaturisce il vero ordine civile) dello Stato e della Chiesa, il principio che postula al tempo stesso l’armonia fra i due poteri, e la loro reciproca liberazione, la liberazione cioè dello Stato da funzioni sacerdotali non sue e la liberazione della Chiesa da funzioni temporali egualmente non sue.

E ciò che fu embrionalmente all’inizio, che fu anzi nel pensiero e nel volere di Cristo, oggi felicemente lo mostra realizzato, e quasi lo celebra il Concilio Ecumenico, episodio quant’altri mai grande e significativo di unità e di cattolicità per il genere umano, che conferisce alla città di Roma ed a ciò che essa rappresenta incomparabile onore e vivissima attualità, senza che ciò venga a confondere il rapporto o a menomare la libertà che reciprocamente la Chiesa e lo Stato hanno a sé conferiti. Questo è significativo, questo è storico, lo dovremo ricordare.

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La seconda cosa, che mi pare doversi notare nell’accostamento connaturale dello spirito di Roma con quello del Concilio si è che i rapporti giuridici vigenti vengono ad essere integrati da rapporti spirituali. Lo vediamo dal vibrare della Città, dei suoi Magistrati ed anche più in alto e più intorno nelle Autorità dello Stato e nel cuore del popolo italiano all’approssimarsi dell’eccezionale avvenimento.

Questo dimostra, nella spontaneità delle sue manifestazioni e nel gradimento con cui sono accolte, che alla reciproca volontà di conservare piena efficacia ai rapporti giuridici si accompagna la comprensione delle peculiari condizioni da essa derivanti.

Già i Patti Lateranensi parlano del «carattere sacro di Roma» il quale impegna a dare al volto di Roma una particolare dignità morale, che tanti cittadini ed ancor più tanti pellegrini e forestieri godono, quando la vedono difesa e onorata: è una esigenza del mondo.

Così il mondo, e non solo quello cattolico, si compiace quando ammira in Roma la vita religiosa che compete alla sua altissima funzione spirituale, e trova che il popolo romano ha il culto intelligente del suo patrimonio storico, artistico, archeologico e liturgico.

Se Roma dev’essere la patria del mondo cattolico, come oggi il Concilio la fa luminosamente apparire, bisogna ch’essa sia in grado di sostenere lo sguardo osservatore di quanti a lei confluiscono ed averne non soltanto la legge, ma l’esempio altresì, e per assidersi alla sua scuola autorevole non soloper forbita dottrina, ma anche per professione di virili, di romane virtù e di evangelica perfezione e di cristiana pietà.

Se questa integrazione potrà mostrarsi fervida ed operosa, come tutto lascia felicemente sperare, durante tutto il Concilio, l’Assemblea conciliare si sentirà certamente confortata a perseguire le sue alte finalità rinnovatrici, come quella di dare alla Chiesa nuovi ordinamenti più consoni alle forme di vita della società odierna, o quella di assumere al livello d’un umanesimo cristiano moderno i grandi fenomeni della vita economica, culturale, scientifica e sociale dei nostri giorni, quella di aprire fiducioso ed amico dialogo col mondo contemporaneo e di offrirgli contributi originali e indispensabili di sapienza, di carità, di grazia alla soluzione di quei grandi problemi, che gli uomini con le sole loro forze, anche se dotati della migliore volontà – come con franca ed alta parola il Presidente degli Stati Uniti d’America si esprimeva nella sua lettera per il Concilio – non sanno risolvere.

Roma pertanto, nelle sue genuine e migliori espressioni, può, dal di fuori del recinto conciliare, moltoal di dentro influire. La presenza del Concilio, che celebra nella sfera religiosa alcune prerogative della Roma civile, viene con ciò stesso a svegliare nella Roma stessa la sua secolare vocazione alla giustizia, all’ordine, all’universalità del vivere civile, alla romanità, e postula così da Roma l’offerta morale rinnovata della accessibilità del mondo moderno al messaggio evangelico e alla civiltà cristiana, alla cristianità, mentre presenta, con la sua vicinanza locale e morale, al magistero spirituale della Chiesa una sua esperienza umana, eletta e significativa, degna di meritarne la fiducia ed il favore.

Questo nobile atteggiamento morale e spirituale di Roma, rispetto al Concilio, può essere coefficiente di grande valore per il buono svolgimento e per l’efficacia finale del Concilio stesso, anzi per il progresso morale del mondo.

Può dipendere, ad esempio, anche da tale contegno consapevole e favorevole, l’orientamento dei cristiani separati dalla Chiesa cattolica, che per molti di essi si chiama senz’altro Chiesa romana, e che spesso è da loro giudicata, con empirismo non del tutto illegittimo, non solo dai suoi dogmi, dalle sue gerarchie e dai suoi riti, ma dal modo di vivere e dalla religiosità del popolo che dimora accanto al centro della Chiesa e che deve dare primo il saggio della superlativa irradiazione della sua azione evangelizzatrice.

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E nessuno dubiti che questa consonanza tra Roma e il Concilio, che si riflette nel più largo cerchio delle relazioni tra lo Stato e la Chiesa, ed in quello ancora più largo dei rapporti fra il mondo e la religione cattolica, possa significare altra cosa che armonia nella reciproca libertà. Sarebbe nocivo pregiudizio al comune vantaggio che dal Concilio tutti variamente ci ripromettiamo, sarebbe dimenticare tante indiscutibili voci di ieri e di oggi, che di tale libera e volente rosa armonia si fanno garanti.

Valga per tutte quella di Papa Giovanni XXIII, echeggiante la scorsa settimana da Assisi: «E tu Italia diletta alle cui sponde venne a fermarsi la barca di Pietro – e per questo motivo primieramente, da tutti i lidi vengono a te, che sai accoglierle con sommo rispetto ed amore, le genti tutte dell’universo – possa tu custodire il testamento sacro che ti impegna in faccia al cielo e alla terra».

Saluto più solenne e più paterno non poteva in quest’ora venire da Colui che presiederà all’imminente Concilio Ecumenico alla terra che lo ospita, e preludio e presagio migliore non vi poteva essere per la sua felice e romana celebrazione.

Card. Giovanni Battista Montini

Arcivescovo di Milano

(*) titolo a cura della redazione di Rassegna Stampa