Come spiegare l’evoluzionismo ad una figlia

coverversione integrale dell’articolo pubblicato con alcune modifiche su www.origini.info

di Fernando De Angelis

(insegnante di scienze naturali in pensione)

1. PREMESSA

Nel considerare come l’evoluzionismo è trattato a scuola applicherò due criteri: esame di un libro di testo e oggettività delle argomentazioni. Con un obiettivo dichiarato: far vedere agli studenti che la questione dell’origine dei viventi, sul piano scientifico, non solo non è risolta, ma appare sempre più irrisolvibile, perciò la risposta che ciascuno necessariamente si deve dare, dipende soprattutto dalle convinzioni di partenza (i presupposti) con i quali si comincia a ragionare.

TESTO SCOLASTICO DI RIFERIMENTO: A. Gainotti e A. Modelli, “Scienze della natura”, Zanichelli, terza edizione, 2008. In particolare “Unità 3, La teoria dell’evoluzione” (pp. C50-C67), facente parte della “sezione C, La varietà della vita”.

2. MESCOLANZA DI TESI DIVERSE

Se si sostengono contemporaneamente tesi diverse o perfino contrapposte, si può dare l’impressione di aver dimostrato tutto risolvendo solo il problema più semplice, o addirittura quello contrario! Il libro di Darwin si intitola “L’origine delle specie…” e l’origine più difficile da spiegare è quella della PRIMA forma vivente, cioè l’origine della vita, ma su questo aspetto Darwin e gli evoluzionisti tendono a sorvolare.

C’è poi da spiegare come si è passati dalla prima forma di vita unicellulare e acquatica, agli organismi pluricellulari acquatici e poi a quelli pluricellulari terrestri. Com’è potuta comparire la prima cellula? Come si è arrivati ai pesci, come hanno fatto certi pesci a diventare anfibi (rane)? Come hanno fatto certi anfibi a diventare rettili, poi uccelli e infine mammiferi? Il prodursi di questi cambiamenti è totalmente diverso dal prodursi dei cambiamenti all’interno di una specie (le diverse razze di cani, per esempio). Bisogna infatti spiegare come compaiono organi nuovi e non basta dire che si modificano organi vecchi, cioè già esistenti.

Insomma, bisogna distinguere la macroevoluzione (cioè una evoluzione che produrrebbe specie molto diverse da quella di partenza e con organi nuovi), dalla microevoluzione (cioè dalle modifiche di organi già esistenti e che non cambiano le strutture di base della specie). Siccome poi la tesi fondamentale dell’evoluzionismo è quella di un aumento della complessità, allora è importante non metterla insieme con quei cambiamenti che comportano una perdita della complessità e che chiameremo perciò involuzione.

Mentre la microevoluzione e la involuzione sono chiaramente dimostrate e constatabili (evoluzione osservata), la macroevoluzione non è stata mai vista e dimostrata (evoluzione supposta). La domanda che perciò ci poniamo è se il testo scolastico in esame fornisce prove di macroevoluzione (per esempio, passaggio da rettili a uccelli o da mammiferi terresti a mammiferi acquatici): d’ora in poi, comunque, per evoluzione intenderemo soprattutto la macroevoluzione.

I tre fenomeni (microevoluzione, involuzione e macroevoluzione) sono insomma chiaramente distinti e non si possono portare esempi di microevoluzione (o peggio, di involuzione) come se dimostrassero la macroevoluzione. Per esempio, se viene fuori una nuova razza di pecore con le gambe sensibilmente più corte, e quindi non in grado di saltare i recinti, non siamo in presenza di una macroevoluzione, ma di una involuzione. E di involuzione si tratta pure quando, da un normale moscerino della frutta, ne nasce qualcuno con le ali deformate o, addirittura, senza ali.

3. LE “PROVE” RACCOLTE NEL VIAGGIO SULLA BEAGLE

A p. C53 è riportato il noto viaggio di Darwin, iniziato nel 1831, con la nave Beagle, «che salpava per un viaggio di 5 anni con lo scopo di esplorare le coste dell’America del Sud». Sarebbero i fatti osservati durante questo viaggio a spingere poi Darwin a formulare la sua teoria scientifica. Il testo prosegue poi osservando che «anche se le prove a sostegno dell’evoluzione delle specie diventavano sempre più convincenti, egli era ben consapevole di quanto questa idea fosse dirompente sia dal punto di vista religioso sia culturale».

È per questo che non le avrebbe pubblicate, decidendosi a farlo solo dopo 23 anni (1858) quando Wallace, avendo messo per scritto idee simili, lo costrinse a venire allo scoperto (p. C54).

Qui il parallelo fra Darwin è Galilei è solo adombrato, mentre in molti altri testi è reso esplicito: il paragone è però improponibile. Nell’Inghilterra di Darwin, infatti, si era radicata da due secoli una democrazia parlamentare e un pluralismo religioso che consentivano di esprimersi con grande libertà; anzi il dissentire dalla maggioranza (essere cioè “non conformisti” o “anticonformisti”) era da non pochi reclamato come un titolo di merito.

La controprova evidente di tutto ciò è che, quando Darwin pubblicò il suo libro (1859), ottenne un grande successo e grandi onori, perché le idee di Darwin seguivano la tendenza della società inglese di quel tempo, piuttosto che essere di opposizione. Quando si portano motivi inconsistenti, c’è da supporre che si vogliano nascondere quelli veri ed il vero motivo, per il quale Darwin rischiava di morire senza aver esposto le sue grandi scoperte scientifiche, è che le prove accumulate erano insufficienti per dimostrare le sue tesi, perciò aspettava nella speranza di poterne trovare di meglio. Ma sull’insufficienza delle prove portate da Darwin ci torneremo.

4. LA SELEZIONE ARTIFICIALE COME “PROVA” DELL’EVOLUZIONE NATURALE?

Qui il ragionamento è contro ogni logica. Scrive il testo: «Darwin sapeva, per esempio, che gli allevatori di piccioni (o colombi) avevano ottenuto in poco tempo, a partire dalla specie selvatica Columba livia, varietà molto diverse fra loro». Darwin allora «si pose questo problema: esiste, in natura, un equivalente della selezione artificiale?» Rispondendosi che esiste perché non tutti i figli possono sopravvivere e perciò emerge la “selezione naturale”.

Non porta però esempi di selezione naturale che facciano vedere come da certe forme se ne possano ottenere altre diverse.

Considerare i dati osservati in ambiente artificiale come prova di ciò che sarebbe avvenuto in ambiente naturale è un’assurdità logica che non dovrebbe essere presa nemmeno in considerazione. C’è poi un’altra questione: ci sono tante razze di cani perché quelle che deviano dalle precedenti vengono protette e selezionate dall’uomo, le varietà di lupo sono invece ristrettissime perché, quando nasce un lupo che devia da quello normale, risulta meno efficiente e finisce per soccombere. In natura, insomma, il tipo nuovo viene ostacolato e non protetto. L’esempio dei piccioni portato da Darwin, poi, è un esempio di microevoluzione, non di macroevoluzione, perciò non dimostra quello che dovrebbe dimostrare.

C’è però un’altra assurdità logica della quale in genere non ci si accorge ed è che la selezione tende a diminuire la variabilità genetica complessiva e tutt’al più separa geni già esistenti, perciò non può essere la causa dell’aumento della variabilità.

“Selezionare” significa “eliminare” e perciò non può essere la selezione (naturale o artificiale) a dimostrare l’evoluzione (attraverso la quale comparirebbero caratteri nuovi). Il testo infatti riconosce che «L’ambiente, mediante la selezione naturale, non causa i mutamenti negli organismi» (p. C56) ma poi non chiarisce quale sarebbe la causa e passa ad un altro argomento.

Se non si fa attenzione, allora, si ha l’impressione che sia stato risolto il problema di come siano spuntate le ali ad un serpente facendolo diventare un uccello, mentre il problema di come possano emergere caratteri veramente nuovi e che aumentino la complessità non è stato nemmeno affrontato! Certo, un evoluzionista dirà che la variabilità è data dalle mutazioni, ma lì entriamo in un’altra questione con la necessità di mettere in evidenza altri problemi: dato però che in queste pagine il testo scolastico non ne parla, evitiamo anche noi di affrontare l’argomento.

Subito dopo, nella stessa pagina C56, troviamo ben espresso il metodo della mescolanza di concetti diversi (vedere punto 2). C’è infatti scritto che gli esseri viventi «diventano più adatti, e basta: la degenerazione dei parassiti, che divengono incapaci di vivere senza l’ospite, o la cecità degli animali cavernicoli sono perfette quanto l’elegante corsa di una gazzella».

Certo, se definisco l’evoluzione come il divenire “più adatti”, allora perdere la funzionalità degli occhi equivale al vederli comparire in una specie che non li possedeva, ma vedere un animale cieco (involuzione), dimostra che una struttura di una complessità enorme come l’occhio può comparire per caso (evoluzione)?

5. A VOLTE IL TITOLO MASCHERA IL CONTENUTO

I paragrafi 6 e 7 (pp. C58 e C59) danno l’impressione di risolvere veramente la questione, perché si intitolano “La selezione naturale all’opera” e “L’origine di nuove specie”. Poi però si parla della solita farfalla Biston betularia nella quale prevarrebbe una varietà più scura o più chiara a seconda dell’ambiente. Il testo è onesto nel riconoscere che «non si è trattato, è vero, di grandi cambiamenti: non si è formata alcuna specie nuova», ma poi usa il solito trucco e conclude che «ciò nonostante si è trattato di un vero processo evolutivo».

Se gli evoluzionisti si ostinano a far vedere esempi che non dimostrano ciò che veramente dovrebbero dimostrare, c’è da pensare che di esempi migliori non ne abbiano (fra l’altro, nella letteratura specializzata si è ormai chiarito che i dati sui cambiamenti della Biston betularia sono stati manipolati da chi li ha introdotti, ma come in altri casi, anche gli argomenti “scaduti” continuano irrefrenabilmente a circolare).

Sulla questione dell’origine di nuove specie vengono portati due giusti esempi: quello del pipistrello (che sarebbe una specie di topo adattatosi al volo) e quello di un tipo di pesce diventato anfibio. Solo che oggi esistono topi comuni e pipistrelli, pesci e anfibi, mentre non si vedono quei numerosissimi passaggi intermedi che il darwinismo richiede.

Gli “anelli mancanti”, insomma, continuano a mancare: nessuno però può dimostrare che non sono mai esistiti, perché si può sempre obiettare che non si sono ancora trovati. Dato comunque che il mondo è stato ampiamente setacciato e dato che si tratta di animali provvisti di ossa (e perciò più facilmente di altri reperibili in forma fossile), è fondato il sospetto che non solo non siano stati ancora trovati, ma che non siano mai esistiti.

6. GLI “ALBERI EVOLUTIVI”

Gli “alberi evolutivi” sono anche detti “alberi genealogici” e “alberi filogenetici”, perché servono per individuare i progenitori delle attuali specie. Hanno la forma ad albero perché fanno vedere come, a partire da UNA “specie progenitrice” rappresentata dal tronco, si siano poi diversificate NUMEROSE specie rappresentate dai rami, per arrivare infine alle ATTUALI specie rappresentate dalle foglie: le foglie (specie attuali) sono così riunite in basso da quei “progenitori comuni” rappresentati dai rami e da quel “progenitore unico” rappresentato dal tronco.

È un modo efficace per far vedere l’evoluzione, insomma, utilizzando sia le specie tuttora esistenti che i reperti fossili. Questi “alberi evolutivi” sono però sistematicamente truccati e danno solo l’illusione di vedere i “progenitori comuni”: se vengono presentati solo FALSI “alberi evolutivi”, viene allora il sospetto che i progenitori comuni non sono stati ancora trovati e ciò fa sospettare che non siano mai esistiti.

Uno dei trucchi usati è quello presente in fondo a p. C63 (fig. 27), dove si mostrano due specie con qualche carattere in comune, cioè la giraffa e l’okapia, le quali hanno progenitori che fra loro si assomigliano ancora di più, fino ad arrivare a quel lontano “nonno” che è stato “l’antenato comune”.

Permettetemi di esemplificare la situazione con una storiella, nella quale l’okapia va dalla più famosa giraffa a dirle: «Ho scoperto che, nonostante non sembri, siamo veramente imparentati attraverso un “antenato comune”, dal quale derivano i nostri “progenitori”». La giraffa, dall’alto della sua nobiltà, si incuriosisce e si preoccupa, chiedendo: «Quali sarebbero questi “progenitori” e questo “antenato comune”?».

L’okapia risponde: «Non ho ancora trovato né il nome né la fotografia, ma mi sembra evidente che ci siano». La giraffa, girando prima le zampe anteriori e poi il collo, saluta dicendo: «Quando avrai trovato qualcosa di concreto portamelo, ma per il momento devo scappare altrove». Nella figura di pagina C63, infatti, il progenitore originario è chiamato “antenato comune” e gli altri sono messi lì senza nome.

Un altro trucco, pur’esso visibile nella fig. 27 di p. C63, è quello di usare i disegni in modo ambiguo. Dopo aver messo più sopra le foto di giraffe ed okapie, nell’albero genealogico c’è il disegno delle medesime e così si crea l’associazione che ad un disegno corrisponda una realtà. Anche i disegni dei progenitori sono fatti con lo stesso stile e così si ha l’impressione che anche a quei disegni corrisponda una realtà… invece a quei disegni non corrisponde nessuna specie vivente e nessun fossile, ma sono solo frutto dell’immaginazione.

L’uso di falsi alberi genealogici è sistematico e chi non ha “visto” in qualche disegno i nostri supposti progenitori scimmieschi sempre più “umani”? Nel testo stesso ci sono altri esempi e ora ne vedremo qualcuno rapidamente. Nella fig. 20 di p. C15 viene ricostruito “l’albero filogenetico” del gatto attraverso un “felino ancestrale” SENZA NOME che sarebbe esistito 10 milioni di anni fa e che avrebbe prodotto “rami laterali” di “felini ancestrali” pure essi SENZA NOME, i quali avrebbero poi dato origine al gatto domestico: tutto sul piano della libera fantasia, insomma.

Nella fig. 3 di p. C25 ci sarebbe «l’albero evolutivo che sintetizza le attuali CONOSCENZE» ma che invece è «l’albero evolutivo che sintetizza le attuali SPERANZE»; perché fra i supposti “antenati ancestrali”, che costituiscono il tronco dell’albero, e le punte estreme, non c’è assolutamente niente, né un nome e nemmeno un disegno!

Nella fig. 36 a p. C41 c’è una TRUCCO GRAFICO molto usato e che proviamo a descrivere un po’, ma non è facile. In basso ci sono raffigurati scorpioni, acari e ragni, rappresentati da tre rametti che convergono in un ramo che va verso l’alto e che raggruppa i tre ordini nella classe degli aracnidi, alla quale vengono affiancate le altre classi rappresentate da insetti, crostacei e miriapodi.

Le quattro classi vengono poi collegate in un “ramo” più elevato rappresentato dal tipo artropodi, al quale si affiancano altri tipi (poriferi, molluschi, cordati, ecc.) che sono infine riuniti nel regno animale, che sarebbe il tronco dal quale si dipartono i vari rami, in un albero che in questo caso è messo con i rami in giù. La figura è concettualmente corretta, ma si vuol dare l’impressione (rafforzata dai commenti del contesto) che la figura faccia vedere i progenitori dei ragni, mentre se si risale con attenzione l’albero, si incontrano solo nomi generici (aracnidi, artropodi, animali) e di progenitori non c’è traccia.

Nella figura a p. C48, infine, c’è una grafica di tipo diverso (assomigliante più alla ramificazione di un percorso stradale che ad un albero) ma il succo è sempre lo stesso, perché fra i «primi pluricellulari», posti come tronco di base, e le estremità (artropodi, vertebrati) non c’è niente di definito, ma solo libere supposizioni.

7.  L’EVOLUZIONE “A SALTI”

Il testo dedica un paragrafo (pp. C62-C63) per fare il punto della situazione attuale, introducendo così la moderna teoria degli “equilibri punteggiati”, formulata da Gould e Eldredge, con la quale si cerca di spiegare come mai non si trovano quegli “anelli di congiunzione” supposti da Darwin.

La nuova teoria si chiama anche evoluzione “a salti” perché, invece di ipotizzare dei cambiamenti lenti e costanti come ha fatto Darwin, suppone dei cambiamenti significativi in tempi molto brevi, ai quali seguirebbero poi dei lunghi periodi nei quali la specie rimane pressoché invariata. Insomma, per farne un’illustrazione, secondo Darwin l’evoluzione avanzerebbe come una formica, mentre per Gould sarebbe una specie di cavalletta che salta proprio nell’attimo nel quale non la stiamo guardando.

Gould rivaluta molto il “catastrofista” Cuvier, di solito poco apprezzato dagli evoluzionisti (vedi C52-C53) e, pur dichiarandosi evoluzionista, ne ha messo in crisi l’impianto geologico: anche la sua nuova teoria ha però il solito vecchio difetto, perché anche “l’evoluzione a salti” resta un’ipotesi che nessuno ha mai visto.

8. NON FAR PARLARE L’ACCUSA

Se in un processo si mettono tutti d’accordo per non far parlare l’accusa è evidente che l’imputato verrà assolto. Anche riguardo a Darwin viene data la parola sola alla difesa, con la scusa che gli oppositori sono creazionisti che dicono solo scemenze. Fui convinto 40 anni fa che, sul piano dei fatti osservati, era più credibile la Bibbia che Darwin.

Allora erano pochissimi a pensarla così e non trovai nemmeno un libro che prendesse una chiara posizione contro il darwinismo. Oggi i libri in commercio che si oppongono alle idee di Darwin si contano a decine, ma ce ne sono tre particolarmente rilevanti, perché scritti da tre scienziati italiani che sono internazionalmente stimati: Giuseppe Sermonti (che nel 1980 ha pubblicato “Dopo Darwin” e poi, fra l’altro, “Dimenticare Darwin”, Il Cerchio, 2006), Antonino Zichichi (“Perché io credo in Colui che ha fatto il mondo”, Saggiatore, 1999) e Massimo Piattelli Palmarini (che, con Jerry Fodor, ha appena pubblicato “Gli errori di Darwin”, Feltrinelli, 2010).

Di grande rilevanza, in Italia, è stato un convegno promosso da un’Istituzione pubblica prestigiosa, cioè dalla Vice-Presidenza del Consiglio Nazionale delle Ricerche, convegno incentrato proprio su un esame critico del darwinismo: il libro che ne raccoglie gli Atti è a cura di Roberto de Mattei (Vice-Presidente del CNR) e si intitola “Evoluzionismo: il tramonto di una ipotesi”, Cantagalli, 2009.

Questi quattro scienziati di rilievo non interpretano la Bibbia alla lettera e non possono essere certamente definiti “creazionisti”: anche i loro quattro libri contengono solo scemenze? Gli scienziati che rifiutano il confronto e la critica si comportano da scienziati o assomigliano proprio a quei religiosi intolleranti che vogliono combattere?

Un libro che presenta solo la difesa di Darwin, qual è il testo scolastico esaminato, costringendo gli oppositori ad usare espedienti vari per far arrivare la critica, fa vergogna ad una scuola che dovrebbe essere “palestra di idee” e non indottrinamento.

9. BIBBIA E/O DARWIN? UNA QUESTIONE DI FEDE

C’è chi è convinto che Darwin abbia ragione, chi ha più fiducia nella Bibbia, chi cerca di mescolare il pensiero di Darwin con quello della Bibbia e chi la vede in qualche altro modo. Trattandosi di questioni che non solo la scienza non ha risolto, ma che sono al di là del suo campo di indagine, ognuno dovrebbe sentirsi libero nelle proprie valutazioni e decisioni.

La scuola dovrebbe trattare l’argomento mostrando le diverse prospettive, non è invece onesto presentare una tesi criticabile (qual è il darwinismo) come se fosse “verità scientifica non rifiutabile”.