Bahrain, la rivoluzione interrotta

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Bahrain, manifestazione

La Bussola quotidiana 15 aprile 2011

di Massimo Introvigne

A chi importa del Bahrain, l’isola del Golfo Persico dov’è in corso una dura repressione dell’ennesima rivolta araba? Dev’esserselo chiesto anche Barack Obama, che su quanto avviene nel piccolo regno ha emesso dichiarazioni contraddittorie, considerando alternativamente i rivoltosi dei combattenti per la libertà o dei pericolosi agenti iraniani.

Alla fine, qualcuno gli avrà spiegato che il Bahrain in effetti è molto importante. È il luogo dove – tra l’Arabia Saudita, l’Iraq e l’Iran – ha la sua base la Quinta Flotta americana. Il suo ruolo geopolitico è uno dei più cruciali del Medioriente. È anche, di questi tempi, la prova dell’ipocrisia delle monarchie del Golfo e dell’Occidente. La repressione della rivolta iniziata il 14 febbraio non è meno violenta di quella di Muhammar Gheddafi in Libia.

Il Qatar, il grande alleato della Francia nel Golfo, è intervenuto in Libia contro Gheddafi. È intervenuto anche in Bahrain: semplicemente, schierandosi dalla parte opposta. Le sue truppe hanno dato man forte a quelle del governo per reprimere i rivoltosi. L’Occidente si è limitato a qualche blanda censura. Quello che succede in Bahrain è la dimostrazione finale delle bugie sugli interventi umanitari che sarebbero inevitabili quando i governi sparano sui loro popoli.

E tuttavia anche in questo Paese dire che i rivoltosi sono i buoni e i sostenitori del governo i cattivi sarebbe semplicistico. Come spesso accade, la crisi economica fa venire a scadenza cambiali secolari. Come in Siria e nello Yemen, Paesi di cui abbiamo già parlato su La Bussola Quotidiana, anche in Bahrain è al potere una minoranza religiosa.

La popolazione dell’isola – e delle altre minori dell’arcipelago, che insieme costituiscono il Regno del Bahrain – è in maggioranza sciita da molti secoli. Ma nel 1783 Ahmed bin Muhammad al Khalifa (?-1796), il capo di una tribù sunnita della penisola arabica che controllava all’epoca anche il Qatar, invade il Bahrain e se ne proclama hakim (governatore).

Da allora, la dinastia al Khalifa controlla il Paese, grazie a una lunga alleanza strategica con la Gran Bretagna – ancor più stretta dopo la scoperta del petrolio nel 1932 – che ha permesso ai suoi esponenti, sia pure sotto protettorato inglese, di rimanere emiri del Bahrain e di resistere alle rivendicazioni dell’Iran, che considera l’arcipelago una sua provincia sulla base di argomenti storici e geografici.

Contrariamente a quanto spesso si legge, non è stato l’attuale governo a dare il via a una politica di naturalizzazione di lavoratori sunniti immigrati per bilanciare l’egemonia sciita. Lo hanno fatto in funzione anti-iraniana i britannici fin dagli anni 1950. Dopo la fine del protettorato inglese le naturalizzazioni sono continuate, provocando le proteste degli sciiti, che costituiscono tuttora il 70% dei cittadini del Regno.

Nel 1973 l’emiro Isa (1933-1999) concede una Costituzione che ammette un limitato pluralismo politico, ma ne sospende gli effetti nel 1975. Ne seguono tentativi di colpo di Stato e una lunga agitazione da parte di sciiti, marxisti e fondamentalisti sunniti, strani alleati che tuttavia danno vita insieme dal 1994 al 1998 a un movimento semi-insurrezionale detto Intifada del Bahrain. La situazione si calma con la morte dell’emiro e l’ascesa al potere del figlio Hamad, che promette riforme e nel 2002 prende il titolo di re.

Il malessere degli anni 2000 deriva, sostanzialmente, dal fatto che le promesse riformatrici del re non si sono realizzate. Gli sciiti lamentano la concentrazione del potere nelle mani della minoranza sunnita e la continuazione della vecchia politica di cittadinanze facili concesse agli immigrati sunniti. I fondamentalisti sunniti denunciano la corruzione politica e morale e chiedono misure contro la prostituzione e la vendita di alcolici. I marxisti e altre forze di sinistra criticano l’assenza di riforme economiche a vantaggio dei più poveri.

La crisi economica e il successo delle rivolte in Tunisia e in Egitto fanno così da detonatore alla «rivoluzione del 14 febbraio», quando dimostranti di diversa provenienza prendono il controllo della centrale Piazza della Perla nella capitale Manama. La polizia reagisce facendo sette morti, ma non riesce a riprendersi la piazza, mentre all’interno della famiglia reale si manifesta una dialettica – forse non fittizia – fra la linea dura del primo ministro Khalifa – cugino del re e in carica dal lontano 1971 – e quella dialogante dell’erede al trono Salman.

La prima linea sembra prevalere quando – senza consultare l’amministrazione statunitense – truppe dell’Arabia Saudita, degli Emirati Arabi Uniti e del Qatar sbarcano sull’isola il 14 marzo per stroncare la rivolta. Il 15 marzo il re impone lo stato d’emergenza, ma ogni settimana ci sono tentativi di dimostrazioni illegali a Manama, e scaramucce nei villaggi lontani dalla capitale e dai giornalisti.

Chi sono i rivoltosi? Il re Hamad ha concesso una limitata democrazia, e in Bahrain si vota per il Consiglio dei Rappresentanti, una camera che ha in realtà ben pochi poteri. È così possibile tracciare una mappa delle forze politiche sulla base delle elezioni del 2010. L’elettorato sunnita vota un partito fondamentalista espressione dei Fratelli Musulmani, al-Minbar (due seggi), uno tradizionalista che propugna il modello saudita, affine ma non identico al progetto dei Fratelli Musulmani, al-Asala (tre seggi), e soprattutto candidati indipendenti vicini alla famiglia reale (diciassette seggi), nei cui confronti le accuse non sono tanto di brogli ma di un disegno dei distretti elettorali che assicura la maggioranza parlamentare ai sunniti, che pure sono minoranza fra gli elettori.

Gli sciiti votano un blocco di forze molto diverse fra loro, unite dalla rivendicazione di maggiori diritti per la maggioranza sciita, al-Wifaq (diciotto seggi). Ma un gruppo sciita, i seguaci del Grande Ayatollah iracheno Mohammad Hussaini Shirazi (1928-2001) e dei suoi discendenti, ha deciso di boicottare le elezioni del 2010 e preferisce per il Bahrain un futuro repubblicano. Lo stesso chiedono i partiti laici – i nazionalisti di Azione Nazionale Democratica, i marxisti del Forum Progressista e il Gruppo Nazionale Democratico, ispirato alla figura dell’ex-dittatore iracheno Saddam Hussein (1937-2006) – i quali, coinvolti nel generale discredito dei regimi laico-nazionalisti, non sono riusciti nel 2010 a conquistare alcun seggio.

È interessante notare che in Piazza della Perla si sono visti esponenti di tutti i partiti politici, compresi i sunniti legati all’islam politico di al-Minbar e al-Asala, i quali si sono però ritirati quando la guida della rivolta è apparsa saldamente in mani sciite e hanno approvato la proclamazione dello stato d’emergenza. Per quanto molto minoritari nel Paese, laici e comunisti hanno mostrato di poter mobilitare diversi attivisti. E molti giovani convocati via Facebook non facevano riferimento ad alcun partito.

Il re – ma soprattutto il primo ministro – agitano lo spauracchio dell’Iran sciita per convincere i vicini arabi sunniti a intervenire, e gli Stati Uniti e l’Europa a non condannare la repressione della rivolta. È vero che, subito dopo la rivoluzione iraniana del 1979, l’Iran cercò di organizzare nel 1981 un colpo di Stato sciita in Bahrain, e che mantiene contatti con diverse componenti del partito di maggioranza relativa al-Wifaq.

Ma è anche vero che nessun partito sciita vuole la riunificazione del Bahrain con l’Iran, e che tutti accettano – in teoria, anche l’Iran – i risultati di un referendum del 1970 condotto sotto l’egida delle Nazioni Unite, in cui la maggioranza degli abitanti dell’arcipelago scelse di rimanere indipendente anziché diventare una provincia iraniana. L’Iran ha celebrato i «martiri» della repressione, ma nello stesso tempo i suoi media non hanno troppo divulgato le richieste di effettiva democrazia dei manifestanti di Piazza della Perla, che potrebbero evidentemente contagiare anche gli iraniani.

Gli Stati Uniti, che come accennato mantengono una presenza navale nel Bahrain, avrebbero potuto influenzare la famiglia reale e favorire un dialogo istituzionale inteso a disinnescare la rivolta concedendo maggiori diritti agli sciiti. Anche nella vicenda del Bahrain è emersa però l’impreparazione dell’amministrazione Obama ad affrontare complicate questioni di politica medio-orientale. Così, l’Arabia Saudita, gli Emirati e il Qatar – quest’ultimo forte del legame a filo doppio con la Francia – hanno preso l’iniziativa di mandare le loro truppe sull’isola.

Per la prima volta un’operazione militare nel Golfo è avvenuta senza che gli Stati Uniti l’approvassero preventivamente. Questa mossa ha restaurato l’ordine pubblico nel Bahrain, ma ha creato un pericolo di dimensioni regionali. Il primo ministro iracheno Nouri al-Maliki, teoricamente filo-americano ma sciita, si è unito all’Iran nel denunciare la gravissima provocazione sunnita nei confronti di tutto il mondo sciita, e in un discorso si è spinto fino a prevedere che la prossima guerra medio-orientale non sarà fra filo-occidentali e anti-occidentali ma fra sciiti e sunniti.

Quella del Bahrain è una rivoluzione interrotta che – finché gli Stati vicini appoggiano militarmente il governo – non può vincere. Ma nello stesso tempo la repressione dei correligionari nel Bahrain rischia di riavvicinare gli sciiti dell’Iraq a quelli dell’Iran, e di giocare a favore del regime di Teheran, frustrando decenni di sforzi dell’Occidente per impedire agli ayatollah iraniani di prendere la guida di un blocco della Shi’a che potrebbe andare da Beirut alle zone sciite del Pakistan.