La seconda rivoluzione d’Egitto. Sempre di velluto?

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Sancara, Egitto. Inizia la rivoluzione

La Bussola quotidiana 13 aprile 2011

di Massimo Introvigne

Tra i Paesi mediorientali protagonisti delle rivolte del 2011 contro i regimi dittatoriali, l’Egitto è quello di gran lunga più importante. A differenza delle rivolte in Tunisia e in Libia, che hanno preso di sorpresa tutti i commentatori, quella egiziana era in qualche modo attesa. Contro il regime del presidente Hosni Mubarak, un tipico esempio di dittatore laico-nazionalista impopolare e corrotto, c’erano già state proteste duramente represse, nel 2000 e nel 2003, e un lungo sciopero generale nel 2008. Da tre o quattro anni molti si chiedevano che cosa impedisse alla rivoluzione di scoppiare.

Il 6 giugno 2010 un giovane attivista che protestava via Internet, Khaled Said (1982-2010), è arrestato ad Alessandria in un Internet caffè. Muore poco dopo durante la detenzione, e tutti accusano la polizia. Un dirigente egiziano di Google che vive a Dubai, Wael Ghoneim, fonda su Facebook il gruppo «Siamo tutti Khaled Said», che ottiene un enorme successo. Di ritorno in Egitto, sarà arrestato il 27 gennaio 2011. Il caso Khaled Said è solo una delle cause prossime della rivolta.

C’entrano anche gli evidenti brogli nelle elezioni del novembre 2010 e soprattutto l’esempio della Tunisia, che spinge gli attivisti di «Siamo tutti Khaled Said» e di altri gruppi diffusi su Facebook e su Internet a proclamare un giorno nazionale di protesta per la giornata (festiva) del 25 gennaio 2011, che ha un grande successo non previsto dagli stessi organizzatori.

Il movimento – che ha certo aspetti positivi nella sua denuncia della corruzione e delle ingiustizie diffuse – è ampiamente spontaneo. Non lo organizza l’Occidente, che ha buoni rapporti con il regime di Mubarak. Non lo organizzano i Fratelli Musulmani, la principale associazione fondamentalista, la cui dirigenza nei primi giorni della rivolta si mostra semmai molto riservata. È semai il movimento giovanile dei Fratelli Musulmani a trascinare nella rivolta dirigenti inizialmente riluttanti. Nelle zone lontane dal Cairo, specie nel delta del Nilo, dove godono di un’indiscussa egemonia politica i Fratelli Musulmani prendono però a poco a poco la guida delle manifestazioni.

Ma al Cairo tutto è molto più confuso. Lottando contro la polizia che interviene con i manganelli e il gas lacrimogeno, e lasciando sul terreno anche qualche morto, i manifestanti occupano la centrale Piazza Tahir e ne tengono il controllo fino a una seconda grande manifestazione organizzata per il 1° febbraio 2011. Il 2 febbraio i miliziani del regime cercano di riprendersi la piazza con coltelli e bastoni, ma sono respinti, anche perché i primi reparti militari cominciano a schierarsi con i manifestanti.

Ma chi sono i manifestanti, esattamente? Essi hanno in comune un solo punto programmatico: Mubarak se ne deve andare. Salvo questo, sono divisi su tutto. I Fratelli Musulmani vogliono più islam. I seguaci del tecnocrate Mohammed El Baradei, già direttore dell’Agenzia Internazionale per l’Agenzia Atomica dell’ONU e discusso premio Nobel per la pace nel 2005, vogliono meno islam. Gli attivisti islamici, che considerano Mubarak troppo laico, vogliono la liberazione degli arrestati come sospetti della strage di Capodanno di Alessandria contro i cristiani copti. Ma in Piazza Tahir ci sono anche copti che vogliono la libertà religiosa. C’è chi chiede ai grandi industriali di riorganizzare l’economia egiziana e chi lancia slogan socialisti.

La corruzione del regime di Mubarak e la gestione fallimentare della crisi economica tengono unita la piazza, ma non emerge una chiara dirigenza. Il 3 febbraio un gruppo di leader della società civile – fra cui il più noto industriale egiziano, Naguib Sawiris, proprietario in Italia di Wind – forma un gruppo di contatto per proporre soluzioni. Ma né loro né El Baradei, rientrato in Egitto, convincono la folla di Piazza Tahir. Più popolare è il dirigente di Google Wael Ghoneim, rilasciato dal carcere il 7 febbraio. Ma emerge ben presto che non ha alcuna esperienza politica, né – forse – un progetto.

La protesta però cresce in modo incontrollabile e l’11 febbraio l’Esercito comunica che Mubarak si ritira e lascia il potere a un Consiglio Supremo delle Forze Armate – guidato dal generale Mohamed Hussein Tantawi, per vent’anni ministro della Difesa di Mubarak -, che resterà al potere provvisoriamente in attesa di libere elezioni politiche annunciate per il settembre 2011. Il governo provvisorio comprende anche alcuni civili, tra cui il costituzionalista Yehya Abdel-Aziz al-Gamal, un uomo di El Baradei, e un copto, Mounir Fakhry Abd El Nour, che diventa ministro del Turismo. Il mondo saluta la vittoria dei «ragazzi di Facebook». Ma è tutto oro quello che luccica?

L’11 febbraio, più che a una vittoria dei rivoltosi, si è assistito a un colpo di Stato. I militari si sono liberati dell’ormai impresentabile Mubarak. La loro mossa è stata in parte popolare, specie fuori del Cairo, dove il disordine regnava sovrano, edifici pubblici erano assaltati e negozi saccheggiati. La popolazione, che pure non amava la polizia di Mubarak, chiedeva che “una” polizia rimettesse le cose a posto. L’imposizione dell’ordine pubblico è però una mossa ambigua, da parte di una categoria – quella dei militari egiziani – che ha sempre operato nella segretezza. Ne sono venuti segnali contraddittori. I militari hanno subito aperto una pagina Facebook e hanno annunciato che, fedeli all’originalità della «rivoluzione», comunicheranno soprattutto con questo strumento.

Ma un blogger che criticava l’Esercito è stato prontamente arrestato e condannato a tre anni di carcere. Hanno dato garanzie alla minoranza cristiana. Ma le violenze contro i copti non si sono fermate e l’11 aprile tutti i sospetti dell’attentato di Alessandria sono stati scarcerati. Il 19 marzo un referendum di riforma costituzionale è stato facilmente approvato, ma la maggior parte dei commentatori giudica le modifiche insufficienti per instaurare un regime compiutamente democratico. Né è stata messa in discussione la legge islamica come fondamento dell’ordine costituzionale egiziano.

Negli ultimi giorni molti manifestanti sono tornati in Piazza Tahir chiedendo le dimissioni di Tantawi, troppo legato al vecchio regime, e il nuovo governo dei militari – salutato inizialmente come espressione della «rivoluzione» – non ha esitato a usare la mano pesante (due morti), anche se nello stesso tempo ha accolto le domande perché si proceda legalmente contro Mubarak e i suoi principali collaboratori. Uno di questi, l’ex presidente del Senato Safwat Al Sherif è stato arrestato l’11 aprile. Non sembra che i militari desiderino rimanere al potere a lungo. Ma neppure accettano di perdere i privilegi di cui hanno fino ad ora goduto. Per le elezioni di settembre annunciano di essere aperti a una supervisione internazionale che eviti i brogli. Ma non c’è molto tempo perché le forze politiche si organizzino.

I più organizzati – anche se dovranno cambiare pelle e nome per presentarsi alle elezioni – sono i vecchi collaboratori di Mubarak, il meno impopolare dei quali – il segretario della Lega Araba Amr Moussa – è sceso per tempo in Piazza Tahir e ha abbandonato la sua carica internazionale per dedicarsi a tempo pieno alla politica egiziana. A contendere il potere a Moussa forse non sarà tanto El Baradei – stimato ma non popolare – quanto il gruppo dei partiti islamici, al cui interno si manifesta una competizione fra i Fratelli Musulmani, nettamente maggioritari e che promettono di presentarsi alle elezioni tramite un partito non confessionale, «Libertà e Giustizia», e un gruppo –i l Wasat («Centro») – che si è staccato dai Fratelli fin dal 1996 presentandosi come più aperto al dialogo con l’Occidente, mentre dovrebbe partecipare alle elezioni anche il partito Nahda («Risveglio»), risultato di una scissione conservatrice dei Fratelli cui nelle ultime settimane hanno aderito importanti dirigenti del movimento.

In effetti, all’interno dei Fratelli Musulmani esistono conflitti generazionali e di leadership fra chi rimane legato al modello fondamentalista originario e chi ammira il conservatorismo islamico del primo ministro turco Erdogan.

In verità, chi parla di una contrapposizione fra un «mubarakismo senza Mubarak» e i Fratelli Musulmani semplifica un quadro più complesso. Negli ultimi anni – pur escludendoli dal potere politico – Mubarak aveva governato in tacita intesa con i Fratelli Musulmani, cui aveva lasciato l’egemonia sulla società civile, moltiplicando i segni d’islamizzazione e di discriminazione verso la minoranza cristiana. L’alleanza fra gli eredi «critici» di Mubarak e i Fratelli Musulmani è dunque nelle cose e si è già manifestata con il referendum costituzionale del 19 marzo. Una «democrazia» in coabitazione fra «mubarakismo senza Mubarak» e islam politico assomiglierebbe forse troppo al vecchio regime per i gusti di chi continua ad andare a manifestare in Piazza Tahir.

Ma non sembra ci siano grandi alternative. I ragazzi di Piazza Tahir che chiedono una seconda rivoluzione reclamano gesti simbolici di rottura con il regime – come il processo al vecchio dittatore – ma non sembrano avere un progetto alternativo per il nuovo Egitto. Che rischia dunque di assomigliare al vecchio, con un po’ più di democrazia e – a seconda del risultato elettorale dei Fratelli Musulmani e degli altri partiti islamici – un po’ più d’islam e di ostilità a Israele, e nessun cambiamento nella discriminazione dei cristiani.