Diritto naturale: tra diritto ed etica, spunti di riflessione

etica_moraleTrascrizione dell’incontro pubblico che si è svolto a Pisa il 23 maggio 2003

organizzato dall’Unione Giuristi Cattolici Italiani

di don GINO BIAGINI
(assistente ecclesiastico e Parroco di S. Michele Arcangelo in Oratorio-Pisa)

“L’essenza del diritto (sta) nel suo intimo rapporto con la moralità. Non vi è diritto senza moralità. Un diritto senza moralità è una contraddictio in adiecto, oppure è la constatazione di un semplice stato di fatto. Questa norma di diritto positivo contraddice alla legge morale; non può, per conseguenza obbligare in coscienza, per quanto possa costringere in concreto”.

(H. Rommen, da “L’eterno ritorno del diritto naturale“)

Avv. ALDO CIAPPI. Cari amici, siamo lieti, finalmente, di annunciare che anche nella nostra città, come già in tante altre, inizia ad operare una realtà associativa – che emana dalle professioni e dalle attività, sia teoriche che pratiche, aventi nelle materie giuridiche il loro oggetto principale – che si pone, come uno degli obiettivi, quello di approfondire e far conoscere all’interno dei propri naturali ambiti, la ricchezza di quel pensiero giuridico, articolatosi nel corso della lunga sua storia, che trova radicamento nei principi universali affermati dal cristianesimo.

Quest’ultimo, com’è noto, oltre a rappresentare l’espressione più compiuta ed esclusiva di quel “personale” legame tra l’uomo ed il Suo Creatore, così come rivelata dai Vangeli e gelosamente trasmessaci dal Magistero della Chiesa, ha per molti secoli, nella sua storia, rappresentato – e ci auguriamo possa continuare a rappresentare anche oggi – un costante punto di riferimento per un modello di organizzazione della società “a misura di uomo e secondo il piano di Dio” (G.P. II°).

Il cristianesimo – che, primo e sostanzialmente unico nella storia delle religioni e delle civiltà, ha posto al centro del proprio messaggio ogni singolo uomo quale persona irripetibile, dotato di una dignità inviolabile in quanto essere spirituale creato ad immagine di Dio – ha, in effetti, ben presto, con la sua rapida diffusione in un contesto sociale profondamente segnato dalla civiltà ellenico-latina, gradualmente permeato di sé il consesso umano e, quindi, gli stessi istituti giuridici e politici, infondendo anche a questi la propria linfa vitale, fino a far maturare – dopo alcuni secoli di transizione ed incubazione – una rinnovata consapevolezza dello “jus” come “corpus” organico ed armonioso di norme – siano esse scritte o, principalmente, non scritte (ma, non per questo, meno certe e vincolanti in quanto confermate dalla costante loro applicazione) – che, pur mutuato dal diritto romano classico, trovavano il proprio fondamento ultimo nella Lex Divina e nel messaggio evangelico.

Corpus di norme, dunque, tanto solenni quanto temperate dalle virtù cristiane, alle quali si sentivano ed erano tutti soggetti e, in primis, gli stessi principi ed imperatori. E proprio tale indiscussa efficacia vincolante super homines esplicò, per diversi secoli, benefici effetti di indirizzo e di contenimento del potere dei sovrani, i quali non di rado venivano richiamati dall’autorità dei Pontefici al rispetto dei loro doveri, dettati dal loro specifico status; al contempo, civili e cristiani, per i medesimi non meno cogenti che per gli altri fedeli.

Si venne, in questo contesto, ad affermare una concezione del diritto come entità sovraordinata, non suscettibile, cioè, di piegarsi, di volta in volta, alla occasionale volontà del Principe (o, si direbbe oggi, del legislatore), ma viceversa ad essa, se del caso, in grado di resistere in forza di una superiore, trascendente legittimazione che scaturiva, come accennato sopra, dalla peculiarità di ciò che costituiva l’oggetto principale della sua applicazione, ossia l’uomo, con la propria essenza, non meramente biologica ma altresì spirituale (e, quindi, in ultima istanza, divina), di fronte alla quale il diritto positivo – che è espressione della facoltà dell’ordinamento statuale di produrre norme e di farle rispettare al suo interno – trova un limite invalicabile.

Quanto descritto ben può esprimere, dunque, ciò che generalmente, nell’ambito della tradizione giuridica che si rapporta al cristianesimo, si intende per “diritto naturale”. Il diritto naturale, quindi, quale antecedente logico e necessario presupposto e riferimento anche per il moderno legislatore, che ha il dovere di elaborare e promulgare “buone leggi”, cioè rispettose dei “diritti innati” della persona; primo fra tutti quello inalienabile alla vita (in ogni sua espressione, incipiente o liminale), come pure quello alla libertà religiosa (intesa come sfera intangibile che attiene alla ricerca della verità nel rapporto con Dio), alla tutela ed allo sviluppo della personalità, nella famiglia e in ogni altra dimensione, individuale e sociale, alla proprietà privata, quale concreta espressione e garanzia di libertà contro le derive invasive dello stato totalitario, ecc..

Un “diritto naturale”, pertanto, che anche nella attuale società, nei limiti di quanto sia possibile, si proponga nei riguardi delle istituzioni pubbliche, in nome di quei principi superiori intangibili che esso incarna, di ottenere il rispetto delle prerogative su cui ogni essere umano deve poter fare affidamento, perché sia reso a questi più agevolmente possibile il conseguimento sia del proprio bonum individuale, che di quello comune, costituti, e non solo nella dimensione materiale ma anche, e soprattutto, in quella spirituale.

Un diritto naturale, pertanto, che non si deve confondere con un malinteso “giusnaturalismo” di tipo individualista (largamente dominante nella mentalità corrente, ma che ha radici antichissime, trovandosi teorizzato già nelle opere dei sofisti greci; cfr. H. Rommen, L’eterno ritorno del diritto naturale), agli antipodi di quello testè evocato; stiamo parlando di quella corrente di pensiero che esprime una visione radicale, ed edonistica dell’essere umano, esclusivamente teso ad assicurarsi il massimo possibile di autonomia da ogni legame sociale e, quindi, immerso in una prospettiva di tipo anarco-libertaria, con i soli limiti che gli derivano dalla sua inevitabile appartenenza al consorzio umano in cui è, comunque, destinato a vivere, e dimentico della propria naturale inclinazione alla socialità e, va da sé, del dovere evangelico della carità e dell’amore per il prossimo.

BREVI CENNI STORICI E FINALITA’

L’Unione Giuristi Cattolici Italiani (U.G.C.I.), dal punto di vista del diritto canonico “associazione privata di fedeli”, ha lo scopo di contribuire, all’attuazione dei principi dell’etica cristiana nelle scienze giuridiche (attività legislativa, giudiziaria, professionale, ecc. – art. 2 Statuto). L’Unione è nata nel 1948 su impulso di personalità quali Giuseppe Capograssi e Francesco Carnelutti, in reazione alla profonda crisi di coscienza, anche giuridica, ed alle sconcertanti esperienze dei regimi totalitari favoriti dall’affermazione di dottrine giuridiche – tra cui il positivismo giuridico – profondamente anticristiane, e quindi antiumane. L’Unione intende promuovere un’adeguata preparazione spirituale e culturale dei giuristi,richiamare l’attenzione degli operatori, ed anche dell’opinione pubblica, sulla consapevolezza della importanza della funzione del diritto nella società.

Nella sua vita l’Unione – sotto la presidenza di personalità quali Antonio Segni, Francesco Santoro Passarelli, Pietro Gismondi, Sergio Cotta – attraverso convegni e pubblicazioni, con interventi di insigni relatori, ha trattato temi di grande rilievo, quali l’ordinamento dello Stato moderno, il progresso della comunità internazionale (relatori l’allora Mons. Montini, Passerin d’Entreves, Monaco e Santoro Passarelli), la tutela dei diritti della persona nell’ambito del sistema economico (Capograssi), la revisione dei Patti Lateranensi (Del Giudice); l’ecologia, la droga, la tutela della vita umana e della famiglia (Satta, Cotta, Gismondi, ecc.), fino ai più recenti problemi giuridici legati alle manipolazioni genetiche ed alla biomedicina.

Anche oggi, l’Unione intende essere punto di riferimento per il pensiero cattolico e di confronto per il pensiero laico nelle materie giuridiche, per i problemi relativi alla difesa delle libertà politiche e civili ed a questo fine, cura una serie di pubblicazioni di qualificata reputazione: i Quaderni di Iustitia, e la rivista trimestrale Iustitia. L’U.G.C.I., che al suo interno si articola in Unioni locali, non ha carattere politico e di essa fanno parte docenti universitari, magistrati, avvocati, notai, pubblici funzionari ed in genere laureati e studiosi di materie giuridiche.

Attualmente è presieduta dal Prof. Giuseppe Dalla Torre, R.M. della L.U.M.S.A. L’unione locale di Pisa si riunisce periodicamente presso i locali della Parrocchia di S. Michele Arcangelo in Oratoio, ove, per gentile concessione del parroco, ha attualmente la propria sede. La riunione si compone di due momenti; uno di riflessione, sotto la guida dell’assistente ecclesiastico; l’altro di formazione o organizzativo.

L’Unione locale si pone l’obiettivo minimo di organizzare, con cadenze annuali, almeno un incontro-convegno su argomenti giuridici di attualità, ai quali essa è istituzionalmente sensibile, nonché un ritiro spirituale per i suoi associati. L’invito a tutti gli interessati è di sostenere, aderendo, a questa iniziativa che poniamo sotto la protezione della Madonna.

Don GINO BIAGINI. Il tema è particolare ed è vasto, perché non è di quei temi che si impongono subito all’attenzione di chi osserva, non è una scienza esatta, non può rispondere quindi ad un metodo di indagine così sicuro e chiaro. Vedremo che uno dei punti più critici del diritto naturale (d.n.) si ha quando si intende affrontarlo con la mentalità razionalistica che emerge in Europa con quel grande personaggio che fu Cartesio, e per quanto riguarda il diritto, con quell’altro grande personaggio che fu Ugo Grozio.

Materia quindi complessa, per tutte le sue variegate sfaccettature, e per il cumulo di esperienza storica che porta con sé, ma complessa anche per i “tagli” che ha subito nel corso dei secoli e soprattutto nel nostro tempo. Potremo cominciare col porre la domanda: “che cos’è il d.n.?”; io preferisco non cominciare così, perché gli studi che ho fatto mi hanno convinto che non si può cominciare con una definizione. La definizione può essere utile, ma una definizione del d.n. non c’è.

Noi possiamo soltanto cercare delle tracce, possiamo metterci davanti ad una realtà che ho detto complessa, e fare esperienza. Io credo di dovermi riferire necessariamente almeno a quattro personaggi: uno ci viene dall’antichità e si chiama Aristotele; l’altro ci viene dal mondo romano ed è Cicerone; l’altro ci viene dal medio evo, dalla Chiesa, è un santo e si chiama Tommaso d’Aquino; e l’ultimo ci viene dal mondo moderno, precisamente dall’Olanda, ne ho parlato prima, e si chiama Ugo Grozio.

Credo che la vicenda del d.n. si possa individuare in tappe precise attraverso questi personaggi. Tra questi personaggi c’è una miriade di studi, di esperienze, di trattati; ci sono altri filosofi, giuristi, studiosi, anche della Chiesa e del medio evo; c’è per esempio Agostino, ma io credo che un primo approccio, una incursione rapida in questo terreno possa essere fatta considerando questi quattro pensatori e organizzatori del diritto.

Vi dirò subito che uno di questi lo lascerò presto da parte, ma non perché non sia importante, o perché conti di meno, forse perché tra i quattro conta abbastanza, ed è San Tommaso. Ritengo che la trattazione di San Tommaso richiederebbe forse una serata destinata solo a lui, per la precisione ma anche per la varietà del suo pensiero. Allora non procedo per definizioni, però procedo da una certezza che si è sempre avuta riguardo il diritto: il diritto è ciò che attiene alla giustizia. Quindi c’è subito una relazione stretta tra diritto e giustizia. Questo è sempre stato sentito fin dall’antichità con grande evidenza. A questo punto sorge anche un problema di termini.

Noi abbiamo parlato di d.n., però si parla anche di legge naturale, si parla anche di un diritto razionale, e si parla pure di una legge razionale. Questi termini, intanto, non sono sinonimi, non si identificano. Può esistere un ordinamento giuridico fatto di leggi, ma queste non esauriscono ancora il diritto. Un celebre studioso di Diritto romano, lo Schultz, diceva che i Romani erano il popolo del diritto, ma non erano il popolo delle leggi, perché avevano poche leggi. La Repubblica Romana, almeno fino all’età del Principato, con i primi imperatori dopo Augusto, produsse pochissime leggi.

I Romani avevano una specie di difficoltà a legiferare: c’erano i Comizi, c’era il Senato, che produceva i Senatoconsulti, però avevano una difficoltà a ricorrere a questo strumento. Solo in determinate circostanze, solo in occasioni gravi ricorrevano al comando, allo jussum della legge, lex rogata e poi promulgata. Però erano il popolo del diritto, dice lo studioso tedesco che ho citato.

Oggi l’Italia probabilmente è una terra di grandi leggi ma di scarso diritto, e certo non solo l’Italia. Ecco allora che non c’è identità, non sono sinonimi. Nel campo della morale si parla molto di legge naturale, si parla di legge eterna, di legge razionale, e la morale cattolica trova nel concetto di legge naturale uno spunto fondamentale. Essa è luce per la coscienza ed evidenzia all’interno dell’uomo quali sono i suoi doveri.

Il Santo Padre ha, ad esempio, ribadito la fondamentale importanza della legge naturale nella sua importante enciclica Veritatis splendor, sui fondamenti dell’ordine morale. Il d.n., di cui si parla pure accanto alla legge, è però qualcosa di diverso. Aristotele comincia a parlarne nell’Etica a Nicomaco, un trattato dove Aristotele parla delle virtù e della giustizia, e quando parla del giusto prende in considerazione anche la legge.

Potrete trovare delle interessanti considerazioni da parte di Aristotele anche nella sua opera Il Politico. Però Aristotele è il primo autore che viene indicato come il teorico del d.n., almeno quello che una certa tradizione ci ha consegnato, cioè un diritto che va a porre le sue radici nella natura umana, al di là di ciò che appare fenomenico, di ciò che cambia in questa natura, al di là quindi degli atteggiamenti effimeri e dell’effimera vita delle città, dei regni, delle famiglie, degli uomini e dei gruppi sociali.

Si pensa quindi ad una natura umana come ad un sostrato, una sostanza che è di più della vita apparente dell’uomo, che ha degli ancoraggi in una dimensione non direttamente visibile, ma della quale si possono scoprire i contorni in modo abbastanza chiaro quando si comincia a scandagliare l’animo umano, la coscienza, l’essere umano.

Già Socrate aveva fatto questo, quando risponde al suo discepolo che voleva portarlo in salvo (era stato arrestato con una grave accusa, quella di essere un uomo empio e di traviare i giovani ateniesi). Socrate si difende dall’accusa e trovate questa difesa in uno degli scritti credo più belli della letteratura mondiale, ed è la Apologia, scritta da Platone, ma è il discorso di Socrate.

Però ci è consegnato anche il dialogo di Socrate con questi suoi discepoli, in particolare con Cratilo, che lo vuole portare in salvo, e Socrate dice che non potrà mai mettersi in salvo, perché in realtà, mettendosi in salvo, e perciò fuggendo, andando in un’altra città, egli si dannerebbe, tradirebbe la sua città, Atene, tradirebbe quelle leggi sotto le quali è nato, è cresciuto, che lo hanno difeso e per le quali ha combattuto, e che in fondo, anche se lo hanno condannato, egli ama profondamente, perché egli sente di appartenervi.

Socrate sente di appartenere alla legge, non è la legge che appartiene a lui. E c’è in passo famoso di questo dialogo, nel quale Socrate immagina di vedersi venire incontro le leggi di Atene: è la “prosopopea” delle leggi. Queste leggi gli vengono incontro e gli dicono: “Socrate, forse hai qualcosa da rimproverarci, forse non ti abbiamo trattato bene durante la tua fanciullezza, forse non sei stato da noi protetto, forse non ci hai amato, tu, che non hai mai desiderato lasciare Atene per andare a visitare altre città?”.

Era proverbiale questo attaccamento di Socrate alla sua città; solo per combattere uscì dalla sue mura. E allora Socrate decide di morire per le leggi di Atene, ma prima ancora che per le leggi, per la giustizia che dall’osservanza di queste leggi egli è convinto di rispettare. Non è importante che egli sia stato condannato ingiustamente – egli d’altra parte si difende – è importante che egli colga, e Platone ce lo riporta, una ragione più in là di quelle leggi, per rimanere ad Atene.

Ecco che ci introduce in quella dimensione che dicevo prima, che non è quella della vita, con i suoi accadimenti immediati, con i suoi interessi che si possono più o meno perseguire; è invece qualcosa che sta più sotto e nello stesso tempo più sopra, e notate che siamo ancora in un ambiente pagano, non è stato ancora disvelato all’uomo tutto quel cosmo interiore, tutto quell’universo dell’anima, che avverrà con la Rivelazione cristiana.

E tuttavia Aristotele, che appare il primo indagatore e definitore del d.n., appare subito in modo scandaloso, perché Aristotele, nell’Etica a Nicomaco, scrive: “Il fuoco arde nello stesso modo in Grecia e in Persia, ma il diritto muta”; e Aristotele non definisce il d.n., dice che c’è una natura che fa sentire agli uomini, nell’essenza, dei diritti sicuri, fondamentali; però egli, subito dopo, passa alla legge positiva, passa a delineare la figura del legislatore, dice che ci vuole un legislatore, perché le istituzioni, che gli uomini hanno messo in piedi e nelle quali vivono, le città, sono fatte in percentuale maggiore di leggi positive, e non di d.n., e lui dice che è meglio un legislatore al giudice che interpreta un diritto non scritto, perché il giudice – dice – è sottoposto a passioni, a debolezze, e può essere facilmente corrotto.

È più facile, secondo lui, trovare invece un legislatore saggio, che scriva una buona costituzione e che dia buone leggi, le quali costituiscono sempre delle norme universali, perché Aristotele sa che le leggi non possono da sole esaurire tutta la complessità del reale. Ma cos’è il diritto per Aristotele? Il diritto, per Aristotele, è la misura della giustizia riguardo ad una determinata cosa. Quindi il diritto, per Aristotele, nasce dalle cose, nasce dai fatti, così come sono. Tenete ben presente questo aspetto, perché poi, alla fine di questa mia breve e forse un po’ accidentata esposizione, troveremo un panorama del tutto diverso. Il diritto è una certa uguaglianza di una cosa ad un uomo.

Questa è la definizione che ne dà Aristotele. In questa proporzione consiste il giusto che deve essere perseguito. Quindi se si tratta di un bene occorrerà fissare il suo valore, però mentre il bene ha certamente un valore nella convivenza degli uomini – e questo è il d.n. – il valore che viene fissato è di diritto positivo, è di legge positiva, perché è statuito dal legislatore, e quindi dice Aristotele: c’è il giusto, che è il valore da dare a quel bene, c’è un giusto naturale, e c’è il giusto legale, che è il valore effettivamente fissato per quel bene

Aristotele dice che le misure sono più grandi ai mercati dove si compra all’ingrosso, e sono più strette dai rivenditori al dettaglio, e dice che questo attiene al legislatore della città e quindi attiene – introduce questa parola – all’arbitrio dei legislatori. Allora dov’è il d.n.? Eppure Aristotele, come vi ho detto, riconosce un giusto per natura e un giusto legale.

Il primo è ciò che è tale per natura, e Aristotele ritiene che il giusto per natura lo si abbia, per esempio, nei rapporti tra il marito e la moglie, perché in questo caso è proprio di d.n. che il marito sia fatto per la moglie, l’uomo per la donna, sia cioè uguagliato alla donna, e viceversa. Ma per Aristotele non si dà lo stesso rapporto nei confronti dei figli, perché i figli appartengono al padre, sono cosa del padre, quindi non ci può essere un rapporto di giustizia con sé stessi: ci può essere verso sé stessi solo amore.

Allora voi capite che, al di là di queste intuizioni profonde, essenziali e di notevole portata, poi intervengono altri fenomeni, per esempio interviene la religione, a dare un contenuto diverso a questi rapporti. Però occorre anche precisare un altro aspetto. Quando Aristotele affronta il problema del d.n., egli ha presente il tema della giustizia politica, che non è quella che diciamo noi oggi, quella che si praticherebbe in alcuni tribunali o che sarebbe esercitata da alcuni giudici per raggiungere determinati scopi, ma è la giustizia che si pratica nei rapporti tra i cittadini della polis, e quindi “politica”.

Gli uomini abili a realizzare a giustizia sono gli uomini liberi che partecipano alla vita della polis. Per gli altri, cioè per i servi, per gli schiavi, per gli stranieri, Aristotele dice che si può parlare di una giustizia in senso analogo. Quindi Aristotele vede un universo piuttosto ristretto, è un osservatore acuto. Il suo discepolo, Alessandro il Macedone, costruirà il primo grande impero multinazionale; Aristotele, invece, ragiona ancora nell’ambito della polis, pur vedendo in altre occasioni i limiti della piccola città greca.

Aristotele, poi, a proposito del d.n., dice anche un’altra cosa scandalosa, almeno per noi. Quando parla delle leggi della polis, dice che è assurdo tuttavia, chiedere ad un uomo superiore, quindi ad un uomo che esercita pienamente le sue virtù, di osservare queste leggi. Per noi è semplicemente incredibile ed assurdo che qualcuno sia al di sopra delle leggi. Aristotele definisce quest’uomo un uomo, anzi un animale, veramente regale, legge a sé stesso, legge vivente. Dove ci conduce Aristotele?

Aristotele ci conduce quindi a considerare il diritto e la giustizia a partire dalla realtà. Aristotele non è un idealista. È un uomo, diremmo, con i piedi per terra e gli occhi ben piantati sulla realtà. Egli sa che esiste un modello buono, perfetto di costituzione cittadina, però egli fa uno studio comparato di tutte le costituzioni, a cominciare dalla costituzione degli ateniesi, e così scrive il primo trattato di scienza politica, il primo che si conosca.

Aristotele non ammette il relativismo nella giustizia. C’era una corrente di filosofi, i sofisti – Platone ci riferisce nei suoi Dialoghi che tra questi c’era anche Gorgia di Lentini – la quale sosteneva che la virtù era solo l’opera del più forte, mentre invece c’è un’altra corrente nell’antica Grecia, a cui appartiene senz’altro anche Aristotele, che considera la legge, una legge data, come fondamentale: la legge diventa il criterio della giustizia, l’osservanza della legge, l’osservanza della legge, naturalmente della legge che realizza il giusto, nel rapporto tra le cose e tra gli uomini.

La polis è vista come un tutto, come un piccolo cosmo ordinato, e la legge deve consentire a questo cosmo di vivere nel modo migliore, con la migliore distribuzione dei beni. Il d.n. e il diritto positivo hanno immediatamente a che fare con i beni di cui gli uomini dispongono. Nell’universo cristiano, San Tommaso assume il pensiero di Aristotele e non apporta grandi modifiche al concetto di d.n. Però San Tommaso fa una cosa molto importante.

Dopo la grande e profonda e poderosa speculazione di Agostino e di altri Padri della Chiesa, era accaduto che il diritto civile, il diritto dello Stato, si fosse quasi appiattito sul diritto divino. Agostino è tentato in molti passi della sua opera di tagliare corto e di dire: le uniche vere leggi, l’unico vero diritto sono quelli che noi deriviamo dalla S. Scrittura; l’unica vera legge è quella evangelica.

Ho detto che Agostino taglia corto, evidentemente taglio corto anch’io, non posso dilungarmi perché bisognerebbe prendere in esami almeno cinque o sei opere ponderose di Agostino – anche questo può essere un tema per il futuro – in primo luogo il De civitate Dei contra paganos, dove Agostino, in certe pagine, in certi libri esalta, per esempio, l’Impero Romano anche per le sue leggi, e in altre pagine è invece molto critico sull’ingiustizia di queste leggi, sulla corruzione dei suoi magistrati.

E quando tratteggia la figura dei buoni imperatori, Costantino, Teodosio, ecc., in realtà li ritiene buoni non per delle doti particolari di statisti, ma perché sono stati uomini pii, hanno costruito chiese, hanno dato pace alla Chiesa e hanno saputo fare penitenza. In particolare Agostino allude all’imperatore Teodosio, che fu scomunicato da Ambrogio, vescovo di Milano e poi fu riammesso in seguito ad una penitenza pubblica cui l’imperatore si sottopose con molta dignità, compostezza e coraggio, in quanto si era macchiato di un eccidio nella città greca di Tessalonica, e Ambrogio lo aveva per questo duramente ripreso e gli aveva impedito di recarsi in chiesa per la festa di Natale.

Agostino quindi è portato, in quel suo certo pessimismo, a svalutare il momento umano del diritto, non ha molta fiducia nella capacità dell’uomo di realizzare la giustizia, per cui punta tutto sulla giustizia che viene da Dio. Agostino porta, possiamo dire, il cielo sulla terra. Eppure traccia un affresco stupendo il quel suo libro De civitate Dei, dove si vedono gli esiti delle due città, dove si aprono nuovi interrogativi e dove egli, con grande nostalgia, guarda all’esperienza ed alla storia di quello che fu il grande Impero Romano, perché Agostino è un africano di Cartagine, e quindi è un vero romano, per cultura e per convinzione.

Da Agostino uscirà Lutero, e Lutero, in Germania, nel XV secolo, svaluterà completamente il d.n., e getterà l’uomo completamente in balìa del diritto positivo, anche lui offuscato dal pessimismo sulla capacità dell’uomo di porre in essere opere buone, non di salvarsi da sé, perché l’uomo da sé non si può salvare, solo la Grazia lo salva, ma di acquistare qualche merito con le sue opere, questo sì Lutero lo nega, e quindi anche il d.n. scompare.

Tommaso, nel medio evo, riprendendo il pensiero di Agostino, e inserendolo nella sua grande speculazione filologica del pensiero aristotelico, recupera l’aspetto dell’umanità, che era stato tagliato, che stato un po’ soffocato. Allora Tommaso torna a parlare di un d.n., di una legge naturale – ne aveva parlato anche Agostino – ma ridà una certa autonomia a queste realtà della scelta umana, e torna soprattutto a mettere di nuovo le basi del diritto nelle radici delle cose, nelle cose stesse.

Ad un certo punto dice Tommaso – tanto per darvi un’idea – nella sua Summa di teologia: “il d.n., come si è detto, è qualche opera adeguata ad un altro, secondo un modo di qualche uguaglianza”. L’adeguazione di cui aveva parlato Aristotele ritorna anche in Tommaso. In questo modo Tommaso salva la realtà creata e salva l’uomo, che in qualche modo di questa realtà fa parte, gli restituisce una dignità. Metto da parte Tommaso, ce lo metto subito, perché ogni passo che facciamo in più con lui è un passo che ci apre prospettive nuove, e invece abbiamo già bisogno di chiudere.

Dopo Tommaso, ma non per un errore né per una trascuratezza, io vi ricordo che c’è stato Cicerone. Vi ricordo Cicerone dopo Tommaso perché accede un fatto particolare. Nel ‘500 e ‘600, anzi a partire dal ‘400, in Europa, specialmente in Italia, ma anche in Germania e in Francia, si scoprono gli umanisti, si scoprono gli scrittori greci e latini, in particolare si scoprono Cicerone e Seneca. Sono, questi, molto letti e molto commentati.

Cicerone e Seneca non sono veri e propri giuristi. Cicerone ha studiato il diritto, però fondamentalmente è un retore, è un avvocato – a quei tempi gli avvocati non erano necessariamente professionisti del diritto, ricevevano istruzioni dai giureconsulti loro amici e poi le ornavano con bei discorsi retorici e le portavano in tribunale – e Cicerone era un avvocato ambizioso, famoso, ricco, difensore di cause clamorose, alcune delle quali furono da lui anche perse.

Cicerone è anche un filosofo, e come filosofo segue l’indirizzo degli stoici, in particolare segue l’indirizzo del medio stoicismo. Vorrei anche spiegarvi perché è importante dire medio stoicismo e nono stoicismo antico o quello della terza fase. Cicerone incontra un maestro, che si chiama Posidonio, a Rodi, forse ne segue le lezioni, e poi a Roma egli legge le opere di un filosofo che era vissuto qualche tempo prima di lui, amico degli Scipioni, Panezio, saccheggiando le opere di quest’uomo, tant’è vero che l’opera di Panezio è scomparsa, ma Cicerone ce ne riporta parecchi brani, e ce li riporta in un’opera fondamentale, che gli umanisti del ‘500 e ‘600 hanno letto con attenzione: De officiis, i doveri.

In quest’opera Cicerone tratta di diritti e doveri, ma soprattutto tratta di morale, di morale pubblica, di morale della vita pubblica. Attraverso Cicerone lo stoicismo diventa una corrente filosofica che invade l’Europa. Ma che cos’ha di particolare lo stoicismo?. Lo stoicismo parte dal soggetto, non parte dalla realtà delle cose, come faceva Aristotele, parte dall’interiorità del soggetto.

Aristotele partiva vedendo l’uomo inserito in un complesso sociale, la polis, con le sue leggi. Gli stoici sono degli individualisti, vivono in un tempo in cui non hanno interesse alla vita pubblica, e vedono l’uomo ridotto a sé stesso, chiuso in sé stesso. Elaborano una filosofia di evasione, una grande e affascinante filosofia di evasione, che sarà la filosofia di tutto il secolo XVI e anche del seguente, in Europa, in parte fino ai nostri tempi.

Lo stoicismo arriva in Europa attraverso l’opera di Cicerone e anche di Seneca, ma soprattutto di Cicerone. Cicerone scrive un brano importante, che è considerato da molti come il manifesto del d.n. nell’età moderna e contemporanea, e poiché a mente non lo so, io ve lo leggo.

Cicerone, nella sua opera De republica, dove parla della forma di stato di Roma, che egli idealizza e la presenta come la migliore di tutte le repubbliche mai esistite, dice: “Esiste una legge veritiera, che è la retta ragione, e che è in accordo con i dettami della natura, presente in tutti, immutabile, imperitura (est quidem vera lex, recta ratio, naturae congruens) – imprimetevi bene in testa questi termini – “che ci esorta imperiosamente ad adempiere i nostri doveri, e che ci proibisce l’inganno e ce ne tiene lontano, una legge di cui l’uomo retto seguirà sempre i comandamenti e le proibizioni, e che resterà invece lettera morta per i malvagi; è un sacrilegio cercare di modificare questa legge, né è lecito abrogarla o sopprimerla del tutto; da essa non possiamo essere dispensati, né per ordine del senato, né per ordine del popolo, e non c’è bisogno di cercare fuori di noi per trovare chi ce la esponga o ce la interpreti.

Questa legge non è diversa a Roma piuttosto che ad Atene, oggi piuttosto che domani, ma è una sola e medesima legge immutabile, eterna, e che si rivolge a tutti i tempi e a tutte le nazioni. Un dio unico, padrone e signore di tutte le cose, è stato di questa legge l’unico inventore, l’unico promulgatore, l’unico giudice.

Chi non obbedisce a questa legge fugge sé stesso e dato che avrà misconosciuto la natura umana, proprio perciò subirà il più grave dei castighi, anche se riuscirà a sfuggire ad ogni altro sopruso”. Ecco, questo è considerato il manifesto del d.n., però questo non è un manifesto giuridico, è un manifesto morale. Con Cicerone e gli stoici, la morale ingloba il diritto: i doveri di cui parlano gli stoici, di cui parla ad esempio il bellissimo Manuale di Epitteto, o di cui parla Marco Aurelio nei suoi Ricordi, scritti nella tenda militare nelle fredde serate d’inverno mentre combatteva sul Danubio per contenere la pressione dei barbari, dei Germani, sono splendidi precetti di morale.

Con gli stoici si verifica un cambiamento profondo: il diritto è asservito alla morale. E direte voi: che c’è di male? Se non sbaglio nel titolo della conferenza c’entrava anche qualcosa dei rapporti con l’etica. Però per capire bene il rapporto tra diritto ed etica io dovrei parlarvi di Rosmini, e anche qui ci vuole un’altra serata. In realtà qui non c’è un rapporto tra diritto ed etica che salva entrambi: c’è una riduzione del diritto all’etica, all’etica stoica, che scompone il diritto, almeno il d.n. qui sono poste le basi del giuspositivismo contemporaneo; non crediate che nelle epoche storiche ci siano frequenti cambiamenti.

Oggi noi risentiamo ancora di certe cose successe in questo tempo. Se volete un esempio di tutto questo, concludiamo la nostra carrellata soffermandoci da ultimo su quel grande giurista che fu Grozio. Grozio fu un giurista vissuto in Olanda, visse nella seconda metà del ‘500 e nella prima metà del ‘600. Conviene tenere ben presente la personalità di Grozio e soprattutto la vicenda storica nella quale si trovò a vivere.

Grozio si trova in un’Europa che ormai ha perso l’unità religiosa nell’unica fede e sotto la Santa Chiesa di Roma. L’Europa in cui vive Grozio è un’Europa che ha conosciuto la lacerazione della Chiesa, è un’Europa divisa tra cattolici e protestanti, e in Olanda, a Leida, sono successi dei macelli incredibili tra cattolici e protestanti; gli Anabattisti hanno saccheggiato e a loro volta sono stati colpiti duramente.

Grozio appartiene, diremmo oggi, ad un’élite di governo olandese, appartiene ad una famiglia borghese, è un carattere moderato, è molto interessato alla produzione della ricchezza ed ai commerci – l’Olanda sta costruendo il suo impero -; è calvinista, ma non lo è nel modo esagerato di alcuni seguaci di Calvino, che pure ci sono in Olanda e che trovano nel principe Guglielmo d’Orange il loro comandante, il loro capo.

È un calvinista moderato e appartiene al partito repubblicano. Egli è l’autore di un documento famoso con il quale cerca di mettere pace nelle divisioni tra i cristiani olandesi. Però è anche un giurista, è un avvocato, in patria si mette in luce come avvocato della Compagnia delle Indie, ne cura gli interessi, e gli interessi della Compagnia delle Indie sono interessi naturalmente commerciali: guadagni, espansione, commercio.

Grozio studia gli umanisti, in particolare Cicerone, assume la filosofia stoica, perché è il pensiero che gli consente di intravedere una via per superare tutti i contrasti religiosi in Europa. Egli è sinceramente e profondamente cristiano, ma vuole conciliare le varie confessioni per arrivare ad una pace europea; egli è un precursore dell’ONU in Europa, e oggi tutti i sinceri europeisti che si muovono in questa direzione dovrebbero rendergli veramente omaggio.

Egli è anche un precursore di quell’irenismo e di quel relativismo religioso che in fondo consiste nel togliere ogni differenza per attestarsi ad un minimo in cui tutti, protestanti, calvinisti, luterani, cattolici, possano trovarsi, perché altrimenti non si fa la pace: il problema di Grozio è la pace. All’inizio del ‘600, nel 1618, scoppia la Guerra dei Trent’anni: è una guerra disastrosa per l’Europa, una guerra di religione, che avrà fine nel 1648 con il trattato di Westfalia.

Nel 1631 Grozio, in esilio in Francia, scrive il famoso libro tanto citato ma forse poco letto: De jure belli ac pacis. La sua preoccupazione è indagare le regole per cui una guerra si può dichiarare da parte di uno Stato, si può regolare, per cui una guerra è ingiusta o no; si preoccupa di affrontare, anche con il diritto, le sedizioni interne ad uno Stato, perché la Guerra dei Trent’anni è devastante, non ci sono solo Stati uno contro l’altro, ci sono anche all’interno di una compagine statale, come per esempio la Germania, città una contro l’altra, dove ci sono cattolici e dove ci sono protestanti; ci sono Elettori tedeschi protestanti ed Elettori cattolici, e questi si affrontano, si combattono, si scontrano, fanno dei macelli.

Grozio scrive questo libro, e in questo libro pensa di risistemare i principi fondamentali del diritto, tirando in ballo di nuovo il d.n.: ma il d.n. in Grozio non è che una morale razionale. Dice Grozio: “Il dovere di socievolezza è la fonte del diritto propriamente detto, che si riduce in generale a questo: astenersi religiosamente dai beni altrui e restituire il profitto che se ne è conseguito o che si ha fra le mani; essere obbligati a mantenere la parola data e riparare i danni commessi per propria colpa”. Si tratta di tre massime dedotte da Cicerone e nelle quali si riassume il diritto di Grozio e dell’Europa moderna, della borghesia commerciale, dei mercati.

Voi troverete nel primo codice civile francese, il codice di Napoleone Bonaparte, anche lui grande legislatore, a suo modo – volle emulare l’opera di Giustiniano – troverete commentati questi principi. Il codice civile napoleonico è diventato poi un esempio per tutti gli altri codici civili. Mi fermo qui, perché mi accorgo che i temi forse sono già tanti.

Non ho risposto alla prima domanda: che cos’è il d.n.? Perché non c’è una risposta, o meglio non c’è una risposta che io voglio darvi qui. C’è una risposta se noi vediamo la situazione tragica di relativismo in cui è scaduto il diritto oggi. Oggi – lo ho detto prima – si producono un’infinità di leggi, spesso scritte male, senza una logica, e non c’è un diritto; il diritto c’è, però è scaduto, il diritto è ridotto ad una normativa complicata, una normativa direi spietata, nei confronti della quale il cittadino non ha modo di districarsi granché; non c’è più l’afflato che c’era nella polis, per cui si potevano amare le leggi, anche se c’erano dei giudici corrotti o se c’erano dei legislatori che dovevano metterci mano continuamente.

Voi sapete che quel grande legislatore, Solone, prima di lasciare Atene, dopo aver dato la costituzione agli ateniesi, li chiamò tutti nell’Agorà e li fece giurare di non cambiare nemmeno una parola di quella costituzione, perché egli riteneva che fosse la migliore possibile, e l’aveva ricevuta in seguito ad un oracolo della sacerdotessa di Apollo a Delfi, la famosa Pizia

Eppure, appena partito, cambiarono la sua costituzione. Lo stesso accadde più o meno a Sparta con Licurgo. Allora, in questa congerie, in questa varietà di leggi, di norme, ecc., il diritto sembra veramente ridotto a ben poca cosa. Me se si riduce il diritto a ben poca cosa, io credo che ne soffra l’essere umano stesso. Nella S. Scrittura non c’è un d. n.: c’è il diritto di Dio.

Il diritto è una scoperta dell’uomo quando riflette sulla natura, e certamente non su una natura materialistica, quella che noi vediamo di fuori, ma la sua sostanza umana. Nella S. Scrittura c’è un d.n. in quanto è rivelato da Dio. Alcuni comandamenti sono in questo senso, non il comandamento della santificazione del sabato da parte degli Ebrei può essere considerato di d.n., ma di rivelazione divina, ed è passato con la legge di Israele.

Però il comandamento di non uccidere, di onorare il padre e la madre sono certamente di diritto divino naturale rivelato, reso quindi palese agli uomini. Ma la S. Scrittura e il Vangelo stesso conosce la legge divina. Noi dobbiamo riscoprire, credo, questa riflessione sul d.n. andando anche un po’ a ritroso, ma è certamente difficile prescindere da ciò che è accaduto negli ultimi tre-quattro secoli, quando il razionalismo di Grozio, che precede Cartesio, e poi subito quello di Cartesio e poi gli illuministi, si sono impadroniti del concetto di diritto di natura.

E tuttavia dobbiamo riflettere su questo tema, per poter trovare un ancoraggio che salva la persona, che toglie la persona da quell’autoritarismo intrinseco in ogni sistema che si basa sulla norma posta, sulla legge politica.