Non siamo noi gli intrusi

Tempi n.9

Settembre 2019

«E’ giusto ridurre l’inquinamento, ma pensare di poter “salvare il pianeta” è una grave mancanza di umiltà. Decarbonizzare costa e le rinnovabili le paghiamo in bolletta. Il fotovoltaico? Fa ricca la Cina. Un certo ambientalismo considera l’uomo un nemico». Intervista apertis verbis a Franco Bernardi.

di Leone Grotti

«I dinosauri non si sono estinti perché hanno utilizzato il pianeta in modo non sostenibile, ma per eventi da loro non determinabili. Allo stesso modo l’uomo moderno dovrebbe riconoscere che non può essere artefice della salvezza del pianeta».

Francesco Maria Bernardi ha il gusto della provocazione, ma non quello della demagogia. Due qualità rare e indispensabili oggi, insieme alla competenza, per parlare di ambientalismo e riscaldamento globale senza farsi risucchiare dal vortice del climaticamente corretto, che l’intellettuale francese Pascal Bruckner ha giustamente definito «il nuovo coltellino svizzero della comprensione del mondo».

Forzando i dati e ricamando sulle previsioni non c’è tragedia che oggi non venga ricondotta ai cambiamenti climatici: dalla fame alle guerre, dal terrorismo alle malattie.

Ecco perché per affrontare il complesso tema del clima è importante partire dai pochi dati certi che abbiamo e non dalle teorie, spesso fantasiose, confezionate dall’Ipcc, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico dell’Onu, rilanciate dalle star di Hollywood dai palcoscenici più suggestivi (sempre raggiunti con jet iper inquinanti ovviamente) e gridate dagli attivisti portati in palmo di mano dai media nelle piazze (Greta Thunberg è solo l’ultima arrivata).

Bernardi, ingegnere nucleare, imprenditore e fondatore di Illumia, azienda che opera nel settore dell’energia elettrica e del gas con un miliardo di fatturato e 300 dipendenti, sfugge alla dicotomia allarmismo-negazionismo e cerca di rimettere tutti i tasselli al loro posto. Senza far finta che l’ambientalismo sia un terreno vergine e incontaminato da interessi miliardari.

Lo slogan più utilizzato oggi dagli ambientalisti di tutto il mondo è: “Salviamo il Pianeta”. Non le piace?

Non è un problema di gusti, ma di realismo: noi non possiamo salvare il Pianeta. E non sono io a dirlo, ma i numeri.

Quali?

Ogni anno nell’atmosfera vengono emesse 800 miliardi di tonnellate di Co2, ovvero la principale concausa del riscaldamento globale per l’effetto serra che produce. Il 55 per cento di queste emissioni proviene dalla Terra, il 40 per cento dagli oceani e il restante 5 per cento dalle attività antropiche, cioè dalle attività umane. Vero è che Terra e oceani riassorbono tanta Co2 quanta ne emettono e che quindi hanno quasi un saldo a zero, però questo dato ci dice che non abbiamo grandi leve per “salvare il Pianeta”, perché il nostro contributo è molto piccolo e basta un errore di misura per perdere la traccia del nostro sforzo.

Sta negando che il riscaldamento globale sia causato dall’uomo?

Sto dicendo che la responsabilità dell’uomo è molto limitata e che le cause del riscaldamento sono tante e non tutte ci sono note. Sostenere che l’uomo sia la causa di ogni cosa non è soltanto una tesi non suffragata dai dati, ma è soprattutto l’ultima deriva di una tentazione illuministica. Escludere con certezza che ci sia un motivo misterioso che ancora non riusciamo a identificare è una presunzione, una mancanza di umiltà, che porta dritti ad analisi faziose e a un preoccupante giustizialismo tipico del nostro tempo.

A che cosa si riferisce?

Ai processi che vengono intentati ogni volta che si verifica una catastrofe naturale imprevedibile, come un terremoto o una alluvione. La caccia al colpevole è rassicurante, ammettere che non tutto dipende dall’uomo invece spaventa. Eppure renderebbe le indagini scientifiche meno ideologiche e quindi più obiettive.

Quindi non bisogna cambiare nulla?

Bisogna evitare gli estremi. L’uomo contribuisce per il 5 per cento e dobbiamo lavorare per migliorare queste emissioni. Anche se al momento non possiamo “salvare il Pianeta”, dobbiamo però fare del nostro meglio per ridurre l’inquinamento. Questo ci metterà in una tensione positiva che genererà, prima o poi, una scoperta scientifica forse risolutiva del problema. Agire in modo consapevole dal punto di vista ambientale è una palestra tonificante per la coscienza umana e per la ricerca scientifica.

Magari sostituendo tutta l’energia proveniente dai combustibili fossili con fonti rinnovabili?

Questa è una strada, ma bisogna procedere con buon senso. E per farlo bisogna conoscere i dati. Una grande quantità delle emissioni antropiche di Co2 è rappresentata dalla produzione di energia elettrica. Parliamo però solo del 3 per cento delle emissioni totali del pianeta. Fino ad oggi, per rimpiazzare in Europa 450 gigawatt (Gw) di energia proveniente da combustibili fossili sono stati spesi 600 miliardi di euro. Se consideriamo che nel mondo c’è una potenza installata di 6.000 Gw, vuol dire che per decarbonizzare l’energia elettrica, sostituendola con fonti “green”, ci vorrebbero otto milioni di miliardi di euro.

Una bella somma.

Quando politici e ambientalisti parlano di decarbonizzazione dell’energia, dovrebbero dire anche dove pensano di prendere tutti questi soldi. Oggi soltanto il 7 per cento della produzione mondiale di energia proviene da fonti rinnovabili. Ci sono però anche altri problemi.

Quali?

Su un anno, composto da 8.760 ore, ci sono solo 1.200 ore utili di sole per far funzionare i pannelli fotovoltaici e nelle zone ventose solo circa 2.000-2.200 ore sono sfruttabili. Come si produce energia nel tempo restante? Bisogna poi considerare che le fonti rinnovabili non sono programmabili e che ciò comporta notevoli problemi di dispacciamento dell’energia come la Germania insegna.

È una bocciatura senza appello delle fonti rinnovabili?

Assolutamente no. Ma le cifre ci fanno capire che bisogna procedere con estrema cautela e non avere la demagogia con cui si è operato in Italia.

Perché?

L’Italia è il 72mo paese del mondo per superficie e il 23mo per popolazione, eppure nel 2012 sono stati installati nel nostro territorio più impianti fotovoltaici del resto del mondo messo assieme. Questo perché lo Stato ha introdotto incentivi economicamente così vantaggiosi che molti operatori, nazionali ed esteri, hanno deciso di investire nel settore. Lo Stato infatti era arrivato a incentivare l’energia rinnovabile così tanto da permettere di rientrare degli investimenti green in tre-quattro anni. Poiché gli incentivi duravano 20 anni, l’affare era sicuro, tanto sicuro che le banche erano disposte a finanziare la quasi totalità dei costi di realizzazione degli impianti fotovoltaici.

Un affare per tutti.

Non esattamente perché lo Stato ha caricato gli oneri di questo investimento ambientale sulla bolletta degli italiani. Non tutti leggono la bolletta, ma l’impatto è notevole: una famiglia spende in media 600/700 euro all’anno di energia per una casa di circa 100 metri quadri. Solo il 45 per cento di questa cifra serve a coprire il costo della produzione energetica. Il resto è costituito da oneri che lo Stato carica sulla bolletta principalmente per incentivi alle rinnovabili.

Molti politici dicono che l’energia rinnovabile fa risparmiare.

Dicono una sciocchezza colossale, perché già adesso ci costa un occhio della testa. Le fonti rinnovabili le paghiamo tutti, ma i benefici non sono di tutti. L’indotto industriale, ad esempio, arricchisce la Cina che ha in mano il 41 per cento della produzione di celle e moduli fotovoltaici, esportati in tutto il mondo.

Se i vantaggi in termini economici sono pochi, che cosa ha spinto l’Italia a offrire incentivi così generosi?

È stata la demagogia degli ambientalisti di 10 anni fa, insieme alla pressione del mondo finanziario, a dare origine all’enorme business green italiano. Ribadisco che non intendo demonizzare le fonti rinnovabili, solo bisogna procedere con cautela e giudizio. Non possiamo far finta che dietro l’ambientalismo non ci siano interessi miliardari.

Crede che i giovani che quest’anno hanno affollato le piazze durante i “Fri-days for Future” siano strumentalizzati?

Simili manifestazioni non mi stanno simpatiche perché nutro una forte antipatia per chiunque voglia semplificare furbescamente problemi che sono complicati. Io rilevo due tentazioni che hanno livelli di disonestà differenti ma che portano purtroppo allo stesso risultato. La prima è travisare la verità ben sapendo di sostenere il falso. L’affermazione “il futuro del mondo è nelle mani dell’uomo” è falsa. La seconda si fonda sull’esasperazione di un particolare vero nel tentativo di piegarlo strumentalmente. Sostenere che la mobilità elettrica fa bene all’ambiente al punto che da essa dipende l’equilibrio dell’ecosistema è vero nella prima parte e falso nella seconda. È quindi complicato per i giovani, che sono generosi, liberarsi dai tanti gatti e dalle tante volpi che li ammaliano.

Le attività umane producono 41,5 miliardi di tonnellate di Co2 all’anno. Il 14 per cento di queste riguardano i trasporti. L’auto elettrica è una soluzione?

Anche se esistono studi contrastanti, mi sembra assodato che le auto elettriche, pure considerando lo smaltimento delle batterie, inquinano meno dei veicoli a combustione, meno anche dei diesel di ultima generazione. Io sono certamente favorevole alla mobilità elettrica, anche se bisogna inquadrarla nel modo corretto: i dati più aggressivi portano a dire che se tutto il parco mondiale di auto fosse elettrico, si risparmierebbe il 90 per cento di Co2 per mobilità, cioè il 90 per cento del 14 per cento del 5 per cento, vale a dire meno dell’1 per cento della Co2 emessa complessivamente. Questo dato però non fa giustizia del beneficio che la mobilità elettrica darebbe al clima urbano, in termini di polveri sottili, di inquinanti chimici e di rumore.

Se tutti gli italiani passassero all’auto elettrica, potremmo permetterci un simile dispendio di energia?

Non è vero. In Italia si vendono due milioni di auto all’anno, la loro percorrenza media annuale è di 12.500 chilometri. Semplificando, per alimentarle avremmo bisogno di circa 4 Gwh di con­sumo, cioè l’1 per cento dei nostri consumi elettrici nazionali. Anche supponendo che in dieci anni si arrivasse ad avere 20 milioni di auto elettriche, arriveremmo al 10 per cento, una quota contenuta. C’è al massimo un problema di infrastrutture, bisognerebbe installare le colonnine in tutte le città, ma non mi sembra così difficile da risolvere.

Sposa dunque questa battaglia ambientale?

Sì, solo che non penso sia una battaglia prevalentemente ambientale. Penso invece che sia soprattutto una decisione economica presa a tavolino dalle grandi case automobilistiche. È un business che ha i suoi risvolti problematici.

Ad esempio?

La Fca è in ritardo rispetto ad altri importanti gruppi mondiali, non ha investito nella tecnologia elettrica e ha perso il treno. Penso che la fusione con Renault servisse a rimediare a questo ritardo.

Quali altri misure sono alla nostra portata per migliorare l’ambiente?

Il riscaldamento domestico è già da tempo sulla strada giusta. Analogamente l’illuminazione a led, per la quale la nostra azienda vanta il primato della divulgazione, è una battaglia vinta. Sono piccoli esempi che dimostrano che l’uomo non è affatto un nemico del pianeta.

Un’altra frecciata all’ambientalismo?

È impossibile non notare che un certo ambientalismo considera l’uomo come un intruso, un nemico. E poi c’è molta schizofrenia nel modo in cui si giudica il rapporto tra l’uomo e la natura.

Faccia un esempio.

Tutti si scagliano contro i tentativi di modificare geneticamente le colture, an­che se molte di queste modifiche hanno portato ad avere grano e riso più sani e salubri di quelli “naturali”, a tutto van­taggio della lotta alla fame nel mondo. Nello stesso tempo i medesimi paladini della naturalità genetica delle colture sono contro la naturalità sessuale e a favore della cultura gender. Che differenza c’è fra il dato naturale della spiga di grano e quello del sesso di un bambino o di una bambina? L’uomo può portare un contributo molto positivo all’ambiente, basta favorire questo processo senza ideologie.

La spinta dovrebbero darla gli Stati. Emmanuel Macron ci ha provato in Francia e non è andata bene.

Forse al presidente francese sarebbe servito più buon senso. Uno Stato deve dare orientamenti, fare norme e poi farle rispettare. La sua azione dev’essere omogenea e coerente a tutti livelli dell’amministrazione pubblica. In Italia avviene il contrario, ciò che legifera il Parlamento è spesso incompatibile con le decisioni del governo e delle Regioni e diverso dalle delibere delle Autorità. Questa schizofrenia immobilizza il paese.

Sta parlando del suo settore?

È un esempio. Oggi i due terzi dei consumatori elettrici frequentano una riserva indiana che lo Stato chiama “mercato di maggior tutela”. Nella riserva indiana si applicano le tariffe scelte dall’Autorità del settore, che secondo lo Stato tutelano meglio gli interessi dei cittadini rispetto al libero mercato. Tutto ciò in barba al principio di sussidiarietà, agli inni sulla libera concorrenza e ai risultati di ricerche pubblicate dalla stessa Autorità, so che è un paradosso, che mostrano che il mercato libero è più conveniente della “maggior tutela”. Da quattro anni i governi promettono che il nostro settore sarebbe stato davvero liberalizzato, ma ogni anno rimandano. Come si fa a fare gli imprenditori in queste condizioni?