La buona cura o cura integrale con amore della verità

Medico_pazienteCaritas in Veritate, luce filosofica per personalizzare la cura.

prof Ferruccio Bonino

Lo sviluppo umano integrale nella carità e nella verità è tema guida della lettera enciclica “Caritas in Veritate” del sommo pontefice Benedetto XVI. La medicina o scienza dell’uomo integrale, metafora della società umana presuppone uno “sviluppo umano integrale nella carità e nella verità” ovvero la buona cura o cura integrale con amore della verità.

Ho identificato alcuni passi dell’enciclica che costituiscono spunti di riflessione per operare concretamente in medicina utilizzando gli strumenti tecnici ed economici più avanzati senza tralasciare lo scopo finale della vera cura, il sollievo delle sofferenze della persona. Metodologicamente indico in corsivo e grassetto le parti di testo, riprese letteralmente dall’enciclica, che costituiscono circa 30 % della relazione, a testimonianza della densità di pensiero, pertinenza e specificità del messaggio.

La trasposizione di un testo breve in contesti diversi dall’originale può alterarne il significato, perciò ho inserito parti testuali ampie per mantenere il senso del messaggio originale e contestualizzarlo nella specificità medica.

La verità facendoci uscire dalle opinioni e sensazioni soggettive, consente di andare al di là delle determinazioni culturali e storiche (ovvero del relativismo delle linee guida) e di incontrarci nella valutazione del valore e sostanza delle cose, cioè della realtà della vera cura. Senza verità, senza fiducia e amore per il vero, non c’è coscienza sociale, (né medica) e l’agire cade in balia di privati interessi e logiche di potere con effetti disgregatori sulla società (vedi guadagno economico e carriera per il medico).

La nuova medicina non è promossa solo da rapporti di diritti e doveri (di medici, operatori sanitari e pazienti), ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione. La verità è “logos” che crea “dia-logos” quindi comunicazione e comunione, ovvero, medicina partecipativa.

Il rischio del nostro tempo è che alla globalizzazione e interdipendenza (delle associazioni organizzazioni medico-scientifiche dei diversi continenti) non corrisponda l’interazione etica delle coscienze e delle intelligenze, dalla quale possa emergere come risultato uno sviluppo veramente umano, ovvero la buona cura. La generalizzazione non giova alla buona scienza, perché accade che studi clinici, globalizzati inseriscano pazienti, presi a caso da sedi diverse del pianeta. Vengono perciò trascurate dalla “scelta a caso” le differenze generate dalle specificità locali (genetiche, alimentari, ambientali e comportamentali).

La buona scienza richiederebbe invece che i metodi di scelta casuale, “randomizzazione” e “cecità”, quando si conoscano le variabili su cui si esercita la scelta, tengano conto di tali diversità con un’adeguata “stratificazione” dei casi per tali variabili. L’enciclica nota come in seguito ad un eclettismo culturale assunto spesso acriticamente le diverse culture vengano semplicemente accostate e considerate come sostanzialmente equivalenti e tra loro interscambiabili. Ciò favorisce il cedimento ad un relativismo che non aiuta il vero dialogo interculturale e al pericolo dell’appiattimento culturale dovuto all’omologazione dei comportamenti e degli stili di vita.

Eclettismo e appiattimento culturale convergono nella separazione della cultura dalla natura umana. Così, le culture non sanno più trovare la misura in una natura che le trascende (Giovanni Paolo II, lett. enc. Centesimus annus, 24:l.c.821-22) finendo per ridurre l’uomo a solo dato culturale (es. i casi anonimi degli studi randomizzati in doppio e triplo cieco, cosiddetti controllati).

Come è possibile che agli albori del 21o secolo ancora non si tenga conto che uno stesso farmaco somministrato a persone diverse per sesso, razza, ambiente, stile di vita o alla stessa persona in diverse fasi della vita determina effetti diversi, talora opposti? Ciò si traduce non solo nella mancanza di rispetto per la singola persona, ma anche nella perdita di conoscenza scientifica. Il valore dell’opera scientifica sta come per quella artistica nei particolari, non nei caratteri generali.

Se la ricerca clinica fosse animata dallo scopo della buona cura e non dal fine del profitto i risultati sarebbero scientificamente e umanamente migliori. Vale quindi più che mai il concetto che senza la caritas illuminata dalla luce della ragione non è possibile conseguire obiettivi dotati di valenza scientifica umana. Questo concetto fondamentale richiama il messaggio dell’enciclica “Populorum progressio” del pontefice Paolo VI (14:l.c. 264) “ l’autentico sviluppo dell’uomo riguarda unitariamente la totalità della persona in ogni sua dimensione”.

La buona cura riguarda la totalità della persona in ogni sua dimensione. Solo la cura di una lesione o malattia acuta può tollerare un’azione, programmata a catena di montaggio, dove ogni operatore esegue in modo impersonale e sequenziale la sua opera; in tale contesto l’aderenza alla linea guida rappresenta l’esatta esecuzione dell’optimun terapeutico, ovvero la cura migliore.

Ben altra cosa richiede la cura della cronicità, post-acuta nel malato sintomatico o pre-acuta nel malato asintomatico, ovvero la cura preventiva, la cura giusta al momento giusto o cura della salute. In tale contesto il modello della catena di montaggio espone a rischi di non appropriatezza, disumanizzazione e anche di malpratica medica.

Nella cura della salute e della cronicità le linee guida rappresentano solo un’indicazione di massima, non la cura migliore. In tale contesto vale più che mai il richiamo dell’enciclica… purtroppo, si è riposta un’eccessiva fiducia in tali istituzioni, quasi che esse potessero conseguire l’obiettivo desiderato in maniera automatica. In realtà, le istituzioni da sole non bastano, perché lo sviluppo umano integrale è anzitutto vocazione e quindi, comporta una libera e solidale assunzione di responsabilità da parte di tutti.

Vedete come sostituendo la parola chiave, sviluppo umano integrale con buona cura il concetto trasli perfettamente in medicina. Non è possibile però rimediare all’errore di ritenere la scienza solo sinonimo di tecnica e affidare l’intero processo di cura al meccanicismo tecnico di una catena di montaggio cadendo nell’errore opposto di vagheggiare un’umanità tornata all’originario ovvero una medicina olistica, integrata da pratiche di cura non verificate scientificamente. Le scoperte scientifiche, se ben usate, costituiscono invece un’opportunità di crescita per tutti.

Lo sviluppo umano integrale (la buona cura), presuppone la libertà responsabile della persona e… nessuna struttura può garantire tale sviluppo al di fuori e al di sopra della responsabilità umana. Vale quindi più mai, anche per la medicina l’avvertimento del pontefice Giovanni Paolo II (Centesimus annus, 25:l.c, 822-824) richiamato da Benedetto XVI a non farci attrarre dai “messianismi carichi di promesse, ma fabbricatori di illusioni”, vedi medicine alternative.

L’enciclica ribadisce quanto erano fondate le preoccupazioni della chiesa sulle capacità dell’uomo solo tecnologico di sapersi dare obiettivi realistici e di saper gestire sempre adeguatamente gli strumenti a disposizione. Ciò vale anche per gli aspetti economici, il profitto è utile se, in quanto mezzo è orientato ad un fine che gli fornisca un senso tanto sul come produrlo quanto sul come utilizzarlo, l’esclusivo obiettivo del profitto, se mal prodotto e senza il bene comune come fine ultimo, rischia di distruggere ricchezza e creare povertà.

Queste parole sintetizzano perfettamente la diagnosi eziologica della crisi economica, ma identificano anche il “baco” che mina il sistema dei rimborsi delle cure, concepite solo come prestazioni, ovvero uso strumentale della medicina.

Oggi, la medicina mira quasi esclusivamente alla cura impersonale delle lesioni e il profitto maggiore per industrie e professionisti consegue alla cura delle malattie irreversibili. Il successo si misura in numero di esami e interventi, al massimo in mesi di sopravvivenza e non in vere e proprie guarigioni che solo la cura preventiva, tempestiva e personalizzata può offrire , “la cura giusta al momento giusto”. Nel caso dell’epatite cronica virale ad esempio la cura preventiva restituisce al malato un’aspettativa di vita normale.

Ciò significa una migliore qualità di vita e anche un notevole risparmio per il sistema sanitario in quanto i costi sanitari del malato guarito diventano gli stessi del soggetto sano. La cura personalizzata del malato asintomatico presuppone però un’alta complessità specialistica senza ricovero ospedaliero, con integrazione e continuità tra centro di riferimento specialistico e territorio e con il coinvolgimento diretto del malato e del medico di famiglia.Tale cura non può seguire l’organizzazione a catena di montaggio spersonalizzata, adatta all’alta intensità di cura dell’acuzie.

Nella cronicità ogni caso deve essere un progetto di cura della persona. Nel mondo dell’automobile la metodologia organizzativa della riparazione delle auto incidentate o dei ricambi programmati è quella della catena di montaggio. Ogni specialista esegue ripetitivamente una specifica azione spersonalizzata, disgiunta dalla visione d’insieme del progetto complessivo.

Ciò determina efficienza, precisione, rapidità e risparmio. Quando però sottoponiamo l’auto a “tagliando” di controllo, ovvero alla cura preventiva della salute scopriamo un’organizzazione totalmente diversa in quanto per ogni tipo di auto vengono eseguiti esami diversi e l’intera operazione “tagliando” è impostata, gestita con il lavoro di squadra di più specialisti, ma è coordinata da un solo operatore responsabile che colloquia e coinvolge in una relazione partecipativa tutti gli altri e il proprietario dell’auto; ciò permette di personalizzare al massimo la cura.

Il modello è quello del “project management” e paradossalmente dimostra come si stia più attenti a personalizzare la cura dell’auto che quella dell’uomo.

L’innovazione bio-tecnologica ha ampliato enormemente le possibilità di scelta dei test diagnostici e il crescere del loro numero aumenta non solo i costi, ma anche il rischio di non appropriatezza ed eccessiva, talora pericolosa aggressività medica. Una più appropriata gestione dei percorsi diagnostico terapeutici indirizzati alla cura della salute e delle cronicità richiederebbe invece la personalizzazione dell’uso degli strumenti di diagnosi e cura.

Gli indicatori di spesa e rimborso sanitario o Diagnosis Related Groups (DRG) non dovrebbero essere gli strumenti, ma gli esiti della cura. Se si privilegiasse la retribuzione dell’esito di cura e quindi la professionalità e responsabilità del personale medico-sanitario si potrebbe evitare l’uso improprio degli strumenti di diagnosi e cura che genera sprechi e il rischio che uomini senza scrupoli approfittino del sistema commettendo ingiustizie e reati.

Il modello di cura a pacchetti diagnostici e terapeutici metterebbe la squadra degli specialisti in condizione di scegliere responsabilmente gli strumenti di diagnosi e cura ed eserciterebbe un controllo diretto sulla spesa evitando l’uso improprio di test diagnostici inutili.

Occorre superare la scelta terapeutica, solo probabilistica basata sul ”lancio dei dadi” e premiare anche quella basata sui dati dell’esperienza personale valutando le pratiche di cura attraverso lo studio “evidence based” delle coorti di malati dei singoli centri e utilizzando la formazione sul campo come strumento di divulgazione del sapere pratico che è alla base della vera sapienza e prudenza.

L’esempio organizzativo virtuoso è quello dell’anatomia patologica, dove non viene rimborsato il semplice uso dei test bensì il referto finale dell’anatomo patologo che decide quali metodiche utilizzare per rispondere al quesito diagnostico. L’esempio invece negativo di retribuzione solo strumentale viene dalla diagnostica radiologica dove spesso il radiologo esegue esami prescritti da altri medici, non competenti nella specifica disciplina e fornisce referti non diagnostici, ma descrittivi, che consegnati direttamente al malato lo costringono a diventare gestore, non esperto del proprio percorso diagnostico.

Il malato si aggira così sperdutamente nel labirinto sanitario prenotando ed eseguendo sempre nuovi esami e visite di nuovi specialisti che non colloquiano quasi mai direttamente tra loro. Ciò genera ritardo nella diagnosi, mancanza di condivisione delle scelte diagnostico terapeutiche, liste dì attesa e costi elevati e infine cattiva cura. Occorre una gestione condivisa e partecipativa tra malato, medico di medicina generale, specialisti e operatori sanitari. Gli strumenti adeguati per la valutazione degli esiti di diagnosi e cura esistono.

La Regione Lombardia ad esempio si è dotata di un validissimo strumento per misurare qualità e costi degli esiti di cura, la carta del Sistema Socio Sanitario (http://www.crs.lombardia.it:80/wps/portal/). Con essa possono essere sperimentati e confrontati scientificamente modelli e percorsi di cura diversi con verifica scientifica dei benefici per i malati e costi per il sistema sanitario regionale. Per promuovere la personalizzazione e appropriatezza delle cure è necessario inoltre coinvolgere direttamente l’industria farmaceutica.

I nuovi farmaci sono sempre di più mirati a specifici target molecolari e la loro efficacia è verificabile con metodiche oggettive senza dover ricorrere alla scelta dei pazienti in base alla sorte. E’ possibile sinergizzare le azioni dell’industria farmaceutica e dei sistemi sanitari stabilendo che l’efficacia dei farmaci prescritti dai centri specialistici sia controllata da appositi “data base” attraverso indicatori oggettivi.

Se l’efficacia è evidente la cura è rimborsata in modo continuativo dal sistema sanitario, in caso contrario il farmaco è fornito dall’industria farmaceutica. Occorre perciò una revisione del modello culturale attuale dell’economia sanitaria per reindirizzare il profitto sul vero scopo, la salute della persona e non sul semplice uso degli strumenti di diagnosi (test e tecniche diagnostiche) e cura (farmaci). L’industria deve allargare il proprio “core business” alle cure precoci che generano miglior qualità terapeutica.

Oggi il malato è troppo spesso mantenuto tale per fidelizzare a vita il profitto, ne è un esempio l’infezione da HIV dove conviene trattare a vita il paziente con farmaci sempre nuovi e costosi piuttosto che scoprire un vaccino e uccidere il “business”; a ciò concorrono diabolicamente la scadenza dei brevetti e la rapida comparsa di mutanti virali resistenti ai nuovi farmaci. Se a guidare gli investimenti in sanità c’è stato finora un sistema finanziario che fa del profitto l’unico fine di sviluppo è comprensibile come la disumanizzazione della medicina sia diventata dominante.

Una medicina più a misura d’uomo deve prevedere il lavoro di squadra ed un “evidence based medicine” che non si esaurisca nella valutazione anonima dell’efficacia degli strumenti di diagnosi e cura, ma misuri anche la qualità e appropriatezza delle pratiche delle squadre di operatori.

La medicina non può essere l’unica pratica umana la cui l’efficacia dipende esclusivamente dagli strumenti e non anche dalla professionalità e responsabilità degli operatori. Lo sviluppo è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano fortemente nelle loro coscienze l’appello del bene comune. Ciò vale anche per i medici.

Il futuro è passare dall’ospedale spersonalizzato organizzato a “catena di montaggio” e “esamificio” ad un modello di cura integrato tra ospedale e territorio per la cura personalizzata. Bisogna superare il problema della disorganizzazione dei percorsi diagnostico terapeutici e orientarli non per patologia, ma per il problema di salute globale della persona senza commettere l’errore di confondere intensità con complessità di cura che sono spesso, inversamente proporzionali.

Occorre favorire processi decisionali definiti che garantiscano un effettivo “tutoraggio” del malato e criteri di qualità per la gestione delle responsabilità e dei rischi. Si deve pensare ad un’organizzazione sinergica degli operatori in piattaforme di sapere clinico pratico accreditabili per competenza, anche degli operatori e non solo di strutture e strumenti: Clinico Epidemiologica (strumento = statistica); Clinica Fisiopatologica (strumento = laboratorio), Clinica Operativa (strumento = chirurgia, endoscopia e tecniche d’immagine).

Urge applicare nuovi modelli di cura personalizzata che permettano di gestire l’alta complessità di diagnosi e cura in regime di bassa intensità (ambulatorio) e il lavoro di squadra condiviso tra specialisti di riferimento e del territorio, medici di base, biologi, infermieri (come “tutor” del precorso di diagnosi e cura) con la partecipazione del paziente che deve essere non solo attore, ma anche autore del proprio percorso di prevenzione e cura.

I programmi di cura come programmi di aiuto devono assumere in misura sempre maggiore le caratteristiche di programmi integrati e partecipati dal basso (vedi medicina partecipativa).

La sussidiarietà è l’antidoto più efficace contro ogni forma di assistenzialismo paternalista, ma il principio della sussidiarietà va mantenuto strettamente connesso con il principio di solidarietà e viceversa, perché se la sussidiarietà senza solidarietà scade nel particolarismo sociale, è altrettanto vero che la solidarietà senza sussidiarietà scade nell’assistenzialismo che umilia il portatore di bisogno.

L’enciclica indica la via per rimediare ricordandoci che gli aspetti della crisi e delle sue soluzioni, nonché di un nuovo possibile sviluppo, sono sempre più interconnessi, si implicano a vicenda, richiedono nuovi sforzi di comprensione unitaria e una sintesi umanistica.

La complessità e gravità dell’attuale situazione economica giustamente ci preoccupa, ma dobbiamo assumere con realismo, fiducia e speranza le nuove responsabilità a cui ci chiama lo scenario di un mondo che ha bisogno di un profondo rinnovamento culturale e della riscoperta di valori di fondo su cui costruire un futuro migliore.

La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità.

Dobbiamo perciò liberarci dalle ideologie, che semplificano in modo artificioso la realtà ed esaminare con obiettività lo spessore umano dei problemi. Pensiamo alle artificiose semplificazioni della medicina statistico-probabilistica basata solo sul “lancio dei dadi” e ricordiamo che Albert Einstein diceva “Dio non gioca ai dadi”. Non è sufficiente solo progredire da un punto di vista economico e tecnologico, occorre evolvere anche sul piano culturale.

Se siamo passati rapidamente dal carro all’astronave come possiamo pretendere di guidare quest’ultima con gli approcci medologici adatti al primo? Diceva Michael Ende nella sua “Storia Infinita” “Siamo andati avanti così rapidamente in tutti questi anni che ora dobbiamo sostare un attimo per consentire alle nostre anime di raggiungerci”.

Per un progresso davvero globale occorre ricordare che il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l’uomo, la persona, nella sua integrità: “L’uomo infatti è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico sociale” (Conc. Ecum. Vat.II. Cost. past. Sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes,63).

Di fronte al supersviluppo tecnologico lo sviluppo umano integrale assume una portata più complessa: la correlazione tra i molteplici suoi elementi richiede che ci s’impegni per far interagire i diversi livelli del sapere umano ricordando che il sapere umano non è mai solo opera dell’intelligenza.Il fare è cieco senza il sapere e il sapere è sterile senza l’amore.

Il supersviluppo procura danno allo sviluppo umano autentico quando è accompagnato dal sottosviluppo morale (Giovanni Paolo II, lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 28: l.c. 548-50 e Poalo VI, lett. enc. Populorum progressio, 19:l.c. 266-67).

Non c’è l’intelligenza e poi l’amore: si sono l’amore ricco di intelligenza e l’intelligenza piena d’amore. Ecco il messaggio di Caritas in Veritate, questo significa che la valutazioni morali e la ricerca scientifica devono crescere insieme e che la carità deve animarle in un tutto armonico interdisciplinare, fatto di unità e di distinzione.

La dottrina sociale della Chiesa, che ha un’importante dimensione interdisciplinare può svolgere, in questa prospettiva, una funzione di straordinaria efficacia. Essa consente alla fede, alla teologia, alla metafisica e alle scienze di trovare il loro posto entro una collaborazione a servizio dell’uomo.

L’eccessiva settorialità del sapere, la separazione tra scienze biologiche e metafisica, tra scienza e teologia sono di danno allo sviluppo del vero sapere che deve comprendere l’unità inseparabile dell’uomo, contemporaneamente autore, attore, regista, oggetto e soggetto della scienza umana.

L’approfondimento integrato delle due componenti essenziali della Scienza Umana, Medicina e Teologia è propedeutico e indispensabile per lo sviluppo della terza componente della scienza, che si occupa della vita di comunità, l’Antropologia Politica e Sociale. Il medico deve essere anche uomo di scienza, non c’è buona cura senza ricerca, intesa come studio del “fare di oggi” per migliorare il “fare di domani”.

Brevetti, impact factor, fama e carriera non sono però il fine della ricerca, ma solo la conseguenza non necessaria della ricerca della buona cura. Per perseguirla occorre tenere presente che il vero sviluppo (o vera cura) non consiste primariamente nel fare. Chiave dello sviluppo è un’intelligenza in grado di pensare la tecnica e di cogliere il senso pieno del fare dell’uomo, nell’orizzonte di senso della persona presa nella globalità del suo essere.

La tecnica attrae fortemente l’uomo, perché lo sottrae alle limitazioni fisiche e ne allarga l’orizzonte. Ma la libertà umana è propriamente se stessa, solo quando risponde al fascino della tecnica con decisioni che siano frutto di responsabilità morale. Il medico non solo deve leggere semeioticamente la malattia fisica del paziente e capirla, ma anche superare la tecnicità della cura solo fisica, comprendere, abbracciare con una lettura più profonda il paziente nel suo insieme intellegendo la sofferenza della persona (caritas).

Per un autentico sviluppo umano integrale che presupponga la libertà responsabile (Paolo VI, Lett. Enc. Populorum progressio, 14: I.c.,264 ; 42:I.c., 278) occorre evitare l’appiattimento delle culture sulla dimensione tecnologica. La ragione ha sempre bisogno di essere purificata dalla fede, e  a sua volta , la religione ha sempre bisogno di venire purificata dalla ragione per mostrare il suo autentico volto umano.

L’enciclica del Pontefice Benedetto XVI costituisce la base filosofica e culturale del cambiamento per chi intende contribuire concretamente ad esso. Nel capitolo VI dedicato allo sviluppo dei popoli e la tecnica leggiamo “Lo sviluppo della persona si degrada, se essa pretende di essere l’unica produttrice di se stessa”.

Già ricordava Paolo VI (lett. Ap. Octogesima adveniens, 29; l.c.,420) il processo di globalizzazione potrebbe sostituire le ideologie con la tecnica, divenuta essa stessa potere ideologico e infatti questa visione rende oggi forte la mentalità tecnicistica da far coincidere il vero con il fattibile.

Concludo ricordando il messaggio della Congregazione per la Dottrina della Fede (Dignitas Personae del settembre 2008; 858-887) “Attratta dal puro fare tecnico, la ragione senza la fede è destinata a perdersi nell’illusione della propria onnipotenza. La fede senza ragione, rischia l’estraniamento dalla vita delle persone” .

Diceva provocatoriamente Dostojevskij “Se Dio non esiste allora tutto è possibile” e il genio della scienza, Albert Einstein: “Dio è semplice e mai banale, Dio è sottile, eppure non è ambiguo, Dio è mistero e quindi è la fonte di ogni vera ricerca che non si spegne e la fonte di ogni vera scienza”.

Grazie

(AMCI-Pisa)