L’assassinio di Aldo Moro. Una storia da riscrivere

Il Nuovo Arengario

11 maggio 2019

di Luciano Garibaldi  

Giovedì 9 maggio 1978 – quarantuno anni or sono – le Brigate Rosse assassinarono il segretario della Democrazia Cristiana, e già capo del governo, Aldo Moro. Una tragedia, quella di Moro e della sua scorta (cinque uomini delle Forze dell’ordine trucidati come animali), che rimane una delle pagine più oscure della nostra storia contemporanea.

E basterebbe partire da Mario Moretti, il capo delle BR che organizzò l’agguato di via Fani, dove fu rapito Moro e furono sterminati i cinque agenti della sua scorta.  Moretti, responsabile di tutti gli atti criminali delle BR, che riempirono di morti le strade delle nostre città nei cosiddetti “anni di piombo”, fu condannato a ben sei ergastoli.

Mario Moretti

Ebbene, oggi ultrasettantenne, è in regime di semilibertà da più di vent’anni, ossia dal 1997. La notte (così dicono, ma il particolare andrebbe controllato, se esistessero ancora i cronisti di una volta) va a dormire nel carcere milanese di Opera e di giorno lavora, come dirigente, in una cooperativa che gestisce gli impianti informatici della Regione Lombardia. Ha scritto un libro di successo («Brigate rosse, una storia italiana») e ha fondato l’Associazione «Geometrie variabili» per fornire «lavoro non alienante ai detenuti».

Di geometria (la «geometrica potenza di via Fani») parlava anche, a proposito dell’annientamento della scorta di Moro, il suo braccio destro Oreste Scalzone, scarcerato «per motivi di salute», poi «esule» a Parigi fino al 2007, quando poté tornare in Italia senza scontare la condanna perché i giudici della Corte d’Assise di Milano avevano sancito l’«intervenuta prescrizione in relazione ai reati di partecipazione ad associazione sovversiva, banda armata e rapine».

Già questi particolari inducono a forti perplessità. Ma c’è ben altro che meriterebbe di essere approfondito, pubblicizzato e seguito. Mi riferisco alle testimonianze storiche di due personalità come il senatore Giovanni Pellegrino, per ben sette anni, dal 1994 al 2001, presidente della Commissione parlamentare stragi, e il senatore Ferdinando Imposimato, già giudice istruttore per il sequestro e l’assassinio Moro, poi senatore, poi presidente della Cassazione e in seguito avvocato e storico.

Pellegrino ha scritto, con Giovanni Fasanella, il libro-intervista «Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro» (Einaudi), in cui sostiene che Moro fu ucciso per ordine della CIA. Dunque, Brigate Rosse telecomandate, con il beneplacito del KGB, che temeva di perdere il controllo di un PCI inserito nel governo Moro e dunque deciso a privilegiare gli interessi dell’Italia e non più quelli dell’URSS.

Imposimato di libri ne ha scritti addirittura tre: «Moro doveva morire» (con Sandro Provvisionato), «La Repubblica delle stragi impunite» (2012) e «I 55 giorni che hanno cambiato l’Italia» (2013).

Questi libri-testimonianza  sono una clamorosa conferma al film «Piazza delle Cinque Lune», girato dal regista Renzo Martinelli nel 2003, che per la prima volta dimostrò che dietro l’assassinio di Moro c’era ben altro che la violenza fanatica degli estremisti comunisti.

E’ ormai di tutta evidenza che, con l’assassinio di Aldo Moro, fu raggiunto un duplice risultato: 1°) eliminare il rischio dell’infiltrazione di agenti sovietici in posti chiave del governo italiano; 2°) dare inizio all’autodistruzione delle BR, sempre più osteggiate dal PCI e dalla Sinistra legalitaria. Il che significa una cosa soltanto: che CIA e KGB “gestirono”, ciascuno mirando ai propri interessi, il vertice decisionale delle Brigate Rosse.

Se Parlamento e Magistratura (“primo” e “terzo” potere) riuscissero a chiudere definitivamente la faccenda, non sarebbe davvero male. Quanto al “quarto” potere (la stampa, i miei colleghi giornalisti), lasciamo perdere…

Un’ultima osservazione. Michael Ledeen, giornalista americano, storico, esperto delle vicende italiane, risulta essere stato accanto ad Antonio Di Pietro nel suo viaggio in America del ’95 (conferenze, seminari, incontri).

Ledeen aveva avuto un ruolo importante durante la vicenda di Sigonella (ottobre 1985, Abu Abbas, capo dell’OLP, catturato dagli americani, poi costretti dai Carabinieri ad abbassare le armi), come testimone e traduttore del duro scontro telefonico tra il capo del governo italiano Bettino Craxi e il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan.

Stefania Craxi da sempre sostiene che suo padre era convinto del ruolo della CIA dietro l’operazione Mani Pulite. Qualche giornalista d’inchiesta (ammesso che ne esistano ancora) vorrebbe approfondire? Gli spunti non mancano.

Ad esempio, è ancora vivo e vegeto, ad onta dei suoi 96 anni suonati, l’uomo politico americano Henry Kissinger, già consigliere di politica estera numero uno dei presidenti Nixon e Ford. Fu lui a sibilare ad Aldo Moro, in visita negli Stati Uniti, la frase: «Lei la deve smettere di volere il PCI nel governo. O la smette, o la pagherà cara».

La circostanza fu testimoniata dalla vedova di Aldo Moro, Noretta, alla Commissione parlamentare che indagava sull’assassinio del segretario della DC. E poi, non va dimenticato il film di Renzo Martinelli «Piazza delle Cinque Lune», che è sicuramente la più esplosiva ma anche la più attendibile ipotesi sulla fine di Moro.

Martinelli è uno dei registi più coraggiosi del cinema italiano. Basterebbe ricordare i suoi due film-denuncia come «Vajont» e «Porzus», dedicati rispettivamente alla tragedia della diga che uccise oltre duemila persone in Veneto, e alla strage dei partigiani monarchici ordita e attuata dai partigiani comunisti nel 1944 in Venezia Giulia. Tra l’altro si tratta di spettacoli mozzafiato perché Martinelli aggiunge, al suo amore per la verità storica, una rara maestria professionale che non fa rimpiangere giganti del cinema come Hitchcok.

Il suo film sul caso Moro fu presentato nel 2003 al Festival del cinema di Venezia e subito confinato nell’«Index filmorum prohibitorum», nonostante contenesse rivelazioni a dir poco sensazionali. Mi limito a ricordarne due:

– contrariamente a quanto si è affermato fino ad oggi, in via Fani non vi fu alcun tamponamento – da parte di un’auto dei brigatisti – della macchina su cui viaggiava la scorta di Moro;

– sempre contrariamente a quanto si è affermato fino ad oggi, non è vero che gli assalitori spararono sugli agenti di scorta soltanto da sinistra, in quanto il maresciallo Oreste Leonardi, che viaggiava sull’auto su cui si trovava anche Moro, fu raggiunto da pochi ma micidiali colpi partiti da destra, cioè dal marciapiede, mentre l’autista fu fulminato con un solo, preciso colpo alla testa.

Ebbene, mentre l’Alfetta di scorta veniva crivellata con ben 92 proiettili in soli 15 secondi (segno che gli assassini avevano sparato a raffica, senza neppure prendere la mira), la stessa cosa non era stata possibile nei confronti della Fiat “130” su cui viaggiava Moro in quanto non si poteva certo correre il rischio di uccidere lo statista democristiano, la cui fine era stata “spostata” più avanti.

Ed ecco dunque entrare in scena due killer professionisti dalla mira infallibile, che sopprimono autista e maresciallo lasciando incolume Moro, onde poterlo trascinare in prigionia e iniziare così la messinscena della cosiddetta «trattativa» tra Stato e BR.

E queste sono solo alcune delle sensazionali rivelazioni contenute nel film di Martinelli. Eppure, come si è detto, «fin de non recevoir».

Ricordiamo che il film ricostruisce la vita e la morte di Mino Pecorelli, il coraggioso giornalista con studio a Roma, in piazza delle Cinque Lune (da qui il titolo del film) il quale, prima di morire crivellato di colpi sotto il suo studio, scrisse che sia USA sia URSS volevano la morte di Moro.

Bisognava difendere Yalta, cioè un accordo mondiale di potere e la sua gestione, accordo che Moro combatté sia prima che durante il sequestro. Né la CIA né il KGB potevano comunque portare a compimento un’azione del genere senza l’assenso dell’altro. Dunque tutti erano coinvolti.

Ragionamenti che confermano in pieno l’ipotesi lanciata dal film di Martinelli. I rapitori di Moro erano manovrati inconsapevolmente, ma qualcuno di loro agiva sapendo tutto, avendo coscienza di quel che faceva e di cosa c’era in ballo.

Non per niente, i numeri del caso Moro sono i seguenti: 23 sentenze, 127 condanne, 27 ergastoli. Ma in galera non c’è più nessuno. Tutti liberi. E chiamati a cianciare, con tutti gli onori, dai principali schermi televisivi. Evidentemente, la CIA o il KGB (oppure la CIA e il KGB) hanno rispettato i patti.