«La mia gente sparita nel nulla»

Tito_partigianoLa Bussola Quotidiana 10 febbraio 2011

Antonio Giuliano

«Si chiamava don Angelo Tarticchio, era un mio parente. La polizia comunista di Tito lo prelevò dalla canonica di Villa di Rovigno, nell’Istria, il 16 settembre del 1943. Aveva 36 anni. Fu mutilato, lapidato ancora vivo e gettato in una foiba con una corona di filo spinato in testa. La sua salma fu recuperata solo due mesi dopo. Ricordo come fosse ieri il suo funerale. In chiesa una folla immensa che piangeva. Mio padre mi teneva la mano. Non immaginava che un anno e mezzo dopo avrebbe fatto la stessa fine…».

Piero Tarticchio da Gallesano (Istria), classe 1936, scrittore e pittore, è un testimone come pochi del doppio dramma delle foibe. Non solo perché suo padre e altri parenti finirono tra le 5 mila persone (quasi tutti italiani) che la Jugoslavia comunista di Tito fece sparire nelle spaventose cavità carsiche (foibe) durante la seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra. Ma anche perché fu tra quei 300 mila che lasciarono l’Istria e la Dalmazia quando queste regioni furono assegnate alla Jugoslavia con il trattato di Parigi del 10 febbraio 1947.

«Tutto cominciò – racconta Tarticchio – dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, quando nell’italiana Istria arrivarono gli emissari di Tito per conquistarla. Volevano l’Istria e non gli italiani. Così cominciarono a sparire circa 700-800 conterranei, tra cui funzionari statali e sacerdoti. 243 salme furono ritrovate solo due mesi più tardi: erano stati infoibati. Una pratica mai usata prima che consentiva di eliminare le persone senza lasciare traccia: venivano gettati in queste cavità carsiche usate dai contadini come discariche per animali morti o sterpaglia».

Ma l’ondata persecutoria più massiccia ci fu al termine della guerra. «Mentre in Italia si festeggiava la Liberazione, noi cadevamo in un incubo. Ci fu una vera caccia a noi italiani considerati fascisti sfruttatori. Anche i sacerdoti finirono nel mirino. Il comunismo di Tito basato sul marxismo-leninismo chiuse le chiese dell’Istria, abolì il culto religioso… Non si poteva nemmeno morire con il conforto di un prete. Tra i religiosi martirizzati, oltre a don Angelo cugino di mio padre, ci fu anche il beato don Francesco Bonifacio».

E la furia della polizia jugoslava non risparmiò proprio nessuno: «Gli antifascisti furono i primi a essere gettati nelle foibe, perché il regime jugoslavo non voleva interlocutori. Molti partigiani italiani caddero nel tranello di Tito che li mandò a combattere sui monti al centro della Jugoslavia per annettersi senza intralci l’Istria. E anche sulla tragedia di Porzus, con l’eccidio fratricida tra i partigiani cattolici della Brigata Osoppo e quelli rossi della Brigata Garibaldi c’è la responsabilità di Togliatti che considerava fratelli i partigiani di Tito…».

Di sicuro i comunisti jugoslavi non si fecero alcuno scrupolo: «In Istria la gente spariva di notte – dice Tarticchio -. Ho conosciuto persone che non hanno dormito due notti di seguito nello stesso letto. Sapevano di essere scritti nel registro della famigerata polizia segreta dell’Ozna. La psicosi era tale per cui si andava a dormire, ma l’indomani mattina non si era sicuri di svegliarsi nello stesso letto».

E i ricordi di Tarticchio, raccolti anche in un prezioso libro di Marco Girardo Sopravvissuti e dimenticati (Paoline), vanno sempre a quella notte del 3 maggio 1945: «Non avevo ancora 9 anni. Quattro uomini fecero irruzione a casa nostra alle 2 di notte. Mi svegliai e mi rifugiai subito tra le braccia di mia madre. Andarono da mio padre col mitra spianato intimandogli di seguirlo al comando. Gli legarono i polsi con il filo di ferro e lo spinsero col calcio del fucile fuori dalla porta. Mia madre piangeva e continuava a chiedere perché.

L’unico dei quattro senza mitra che parlava italiano disse: “Non gridate o sparano”». I giorni seguenti furono pieni di angoscia: «Con mia madre andavamo tutti i giorni a portare biancheria e viveri a mio padre nel carcere di Pisino, una fortezza a strapiombo su una foiba. Ma non c’era possibilità di contatto con lui. Lo vedevamo solo attraverso le grate dalla strada. Lì l’ho visto l’ultima volta. Dopo 10 giorni, una mattina ci dissero che nella prigione non c’era più nessuno: nella notte i camion avevano portato via 800-850 persone».

Non poteva finire così. «Mia madre non si rassegnò all’idea di perdere suo marito. E con un coraggio che ancora adesso non mi spiego, si inoltrò in Jugoslavia per avere notizie. Ci avevano detto che lo avrebbero portato a Fiume per processarlo insieme con tutti i prigionieri. Ma solo dopo tanto tempo ho saputo che lì non arrivò nessuno: furono tutti infoibati». Ed era solo l’inizio di un’odissea senza fine: «Quando mia madre tornò dalla Jugoslavia un funzionario l’avvertì: “Guarda che sei nelle liste della polizia segreta, fai troppe domande, è probabile che ti arrestino e ti mandano nei campi di lavoro forzato della Jugoslavia e il bambino lo mandano in un collegio di rieducazione comunista nel nord della Slovenia”. Così scappammo di notte e attraversammo la linea di confine per sentieri di campagna passando sotto i reticolati. Prima ci rifugiammo a Pola, poi andammo via anche da lì di notte col piroscafo per Trieste insieme con il 98% della popolazione».

È l’inizio di quel triste esodo degli istriani di cui parla anche lo scrittore Diego Zandel in un bel libro uscito da poco I testimoni muti (Mursia). Una partenza sofferta ma senza alcuna alternativa: «Sei mesi prima che venisse firmato il trattato di Parigi – spiega Tarticchio – a Pola un atto terroristico di chiara matrice slava fece 110 vittime. Era l’ennesimo segnale che Tito ci costringeva ad andarcene. Partimmo il 20 gennaio 1947. Peraltro il trattato ci avrebbe comunque obbligato a scegliere: rimanere italiani e andarcene via. Oppure rimanere jugoslavi e restare sulla nostra terra».

Prima a Taranto da una sorella, poi a Milano. Ma l’accoglienza dei nostri connazionali non fu delle migliori. Anzi. «Non ci fu quella solidarietà fraterna che ci aspettavamo. Eravamo un corpo estraneo in una società che non ci voleva. La gente all’indomani della guerra chiedeva pane e lavoro e noi eravamo un ulteriore peso. Poi siamo stati invisi dai comunisti italiani sin dall’inizio, ci consideravano fascisti e reazionari per aver voltato le spalle al “paradiso” comunista di Tito».

Un’ostilità che ha pesato anche sulla storiografia: «I politici di ogni schieramento tacquero. Lo stesso Andreotti ammise che i democristiani non volevano incrinare l’arco costituzionale con i comunisti. Ma la cultura di sinistra ha negato per anni le foibe e quando ha dovuto prenderne atto le ha “giustificate” come la conseguenza delle malefatte del Fascismo aggressore della Jugoslavia. Ho fatto una ricerca: su 31 libri di storia per le scuole medie e superiori, soltanto 2 trattano le Foibe con onestà intellettuale. La maggior parte dei testi non ne parla neppure. Va bene il Giorno del ricordo: ma come si può ricordare qualcosa che non si conosce?».

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