Il dialogo tra la Chiesa e la cultura moderna

© Studi cattolici

1964, n. 50, pp.45-50

di Augusto del Noce

Cercherò di delineare, nelle conseguenze ultime di cui sono suscettibili, due tipiche posizioni cattoliche rispetto al mondo moderno, quella della condanna e quella dell’apertura. Successiva mente porrò la domanda se è possibile una terza posizione, e se in essa debbano ravvisarsi le condizioni per un dialogo non modernista.

1. Condanna

Per la prima il mondo successivo alla rottura cinquecentesca della cristianità, e poi all’illuminismo e alle rivoluzioni è diretto a una catastrofe certa: forse al suicidio cosmico, di cui unica possibile alternativa è il suicidio morale. Riforma protestante, deviazione dell’umanesimo nel naturalismo rinascimentale, cartesianismo, illuminismo, rivoluzione francese, panteismo tedesco, scientismo, ateismo, rivoluzione comunista, scomparsa presente del pudore, sono tappe di un processo unitario di dissoluzione.

Si può caratterizzare il mondo moderno come presa progressiva di coscienza di un processo orientato a distruggere in noi la “moindre parcelle de la divinité”; questa frase del più blasfemo tra i poeti “maledetti”, Lautréamont, è un’illuminazione sul prometeismo moderno, come ricerca della conciliazione dell’uomo con la natura attraverso il rifiuto di Dio.

Autore insuperato in questa direzione, di critica della catastroficità del mondo moderno in conseguenza del suo ateismo, e del resto degno della maggior riflessione, è Donoso Cortés.  Al mondo moderno c’è soltanto dunque da resistere. Ma in che modo?

Fino al 1914 tracce di un mondo cristiano esistevano ancora; l’impero d’Austria era pur sempre l’erede del sacro romano impero, riformabile, per decaduto che fosse. Dopo la prima guerra mondiale si manifestarono delle forze che, generate dallo stesso mondo moderno, erano però in rivolta, sia pure per motivi non cattolici, contro le forze massoniche e atee.

Ci fu, da parte di molti cattolici, l’illusione della possibilità di utilizzarle; soprattutto la prima fra esse, il fascismo, in ragione dei comuni avversari. Non c’è da mendicare scuse, dopo tutto, perché chi tra il ’29 e il ’35 credeva nell’evoluzione cattolica del fascismo, e cercava il punto di concordanza per esempio, nella dottrina corporativa, certamente si sbagliava, ma non pronunziava un giudizio più azzardato di quello di chi oggi crede nell’evoluzione del comunismo.

Comunque, oggi, una cosa si è fatta chiara; nell’assertore di questa posizione si stabilisce una frattura tra la vita e il pensiero. Il suo pensiero è la pura coscienza della catastroficità; per vivere deve ricorrere a un compromesso col minor male, zona del minor male che continuamente si restringe.

2. Apertura

C’è poi, tra i cattolici stessi, la tesi direttamente opposta. La dualità delle posizioni cattoliche è stata certamente continua in tutta l’età moderna: oggi però ha raggiunto un’acuità che non ha precedenti. Il modernista (chiamiamolo così perché è il termine esatto, quello del resto che oggi accetta, pur rifiutando l’accusa di eresia) dice: “durante l’età moderna l’uomo è cresciuto.

Tra questa storia in sviluppo e il pensiero cattolico si generò un disgraziato malinteso; la controriforma ignorò la crescita, e volle mantenere il mondo in minorità. Così i cattolici finirono con l’identificare il male con la novità; così il nesso tra il cristianesimo e una sua incarnazione storica diventò il mondo cristiano termine intercambiabile con “latino”, “occidentale”, “europeo”.

“Così, essere cattolici ed essere storicamente a destra parvero diventare sinonimi: coerentemente il mondo cattolico si alleò in pratica con i suoi avversari di ieri, al momento in cui avevano perduto l’iniziativa storica, le monarchie assolute prima, poi la borghesia”.

“Oggi il cristianesimo deve riconoscere che, trascendente a tutte le culture, può tutte adattarle a sé. Ciò che a suo tempo fu fatto per l’aristotelismo, si deve farlo oggi per evoluzionismo e marxismo”.

Quando si infila una certa direzione, diventa inevitabile percorrerla sino in tondo; è impossibile fermarsi a metà. Guardiamo alla punta estrema cui si deve pervenire. C’è un Dio “latino” sorto “nel clima dell’Italia pagana” (curiosa la permanenza in molta parte del pensiero francese, del giudizio, che si formò agli ultimi del ‘500 sull'”irreligione italiana”), sostituto di Giove, visto ora come benefattore, ora come giudice, sempre però estraneo all’uomo. Dio della teologia “catafatica”, che applicava a Dio le categorie razionali elaborate per rapporto al mondo degli oggetti.

E c’è poi il Dio della teologia “apofatica”, di Plotino piuttosto che di Aristotele, che sarà poi nel pensiero cristiano quello dei padri greci, dello pseudo Dionigi, di Eckhart, del Cusano: l’Uno, l’inattingibile.

Il pensiero tradizionale della Chiesa ha cercato di fondere il Dio inattingibile, col Dio Essere puro, persona giuridica; il principio di analogia servendo a realizzarne l’immagine antropomorfica, Ora, la cancellazione di questa idea di Dio è stata l’opera del pensiero moderno, la quale, prima, ha distrutto le prove classiche della sua esistenza, e poi, attraverso l’evoluzionismo, i miti del Genesi e del peccato originale, e la stessa idea di Redenzione come atto espiatorio giuridico.

Quindi il senso di liberazione che apporta oggi l’ateismo, non differente nella sua qualità, si giudica, da quello che provarono i pagani convertiti al cristianesimo rispetto ai loro dei passati. Grande positività, perciò, dell’ateismo contemporaneo; la cui opera liberatrice deve però essere riconosciuta valida solo nei riguardi di “quella immagine di Dio”.

L’atteggiamento dei cattolici si misurerebbe dunque dalla loro posizione nei riguardi dell’ateismo di oggi; negazione massiccia o inveramento. Chi si ferma alla negazione massiccia, è nell’ultima linea della difesa del paganesimo. Di qui il parallelo, che spesso mi è accaduto di sentire, tra Pio XII e Giuliano l’apostata, come tra le due figure simboliche della difesa estrema di un mondo ormai condannato.

Giudizio, notiamo, che in questa posizione è necessario, anche se motivi di prudenza possono portare quei cattolici che lo professano a pronunziarlo a bassa voce. Riconosciamo pure l’elemento di fascino che c’è nel nuovo modernismo: tornare a sacralizzare le attività del mondo profano, uscire dal dualismo invivibile tra una radicale condanna teorica e un compromesso pratico necessariamente accettato senza più illusione sulla sua provvisorietà, riprendere l’iniziativa nel mondo storico in nome del cristianesimo.

E tuttavia sono troppe le ragioni che persuadono della sua insostenibilità. Modernismo, abbiamo detto, che non vuole essere eretico. Nulla, infatti, di un modernismo alla Loisy, auspicante un pacifico trapasso dalla religione cattolica a una religione dell’umanità, senza misteri e senza miracoli.

Invece, sforzo di comporre un’imitazione di Cristo all’uso dell’uomo moderno, come fu detto da un ammiratore di Teilhard, con giustizia per quel che riguardale intenzioni. Riconosciamo pure che non si può parlare di una continuazione diretta del modernismo dei primi anni del secolo.

Ma, ciò posto, bisogna riconoscere che è altrettanto vero che alle tesi di tale modernismo il nuovo si ricollega, attraverso la mediazione di un processo di pensiero che prese occasione dalla storia politica. Siamo con ciò portati a considerare la nuova posizione cattolica a partire dalla sua genesi, che è poi il modo migliore per definirne il significato e il valore.

Essa sorge in Francia negli anni più bui della seconda guerra, come ritrovamento della speranza al momento in cui tutto sembrava autorizzare la disperazione. È naturale che in quel tempo il nazismo venisse, per così dire, astratto dal contesto storico in cui era sorto, per diventare la somma di tutti i mali che avevano insidiato il cammino della civiltà; e il comunismo tendesse invece a passare, per questa prospettiva, da alleato di fatto in ragione di circostanze storiche, ad alleato di diritto.

Bisogna cioè domandarsi se la ripresa modernistica non accetti già dall’inizio una visione della storia contemporanea in termini di materialismo storico.

Nel tempo successivo alla rivoluzione russa, che pur con i suoi limiti e difetti segnerebbe il fatto che l’umanità sta ora compiendo il passaggio al “momento della socializzazione”, i ceti minacciati chiamano a loro difesa quel tale Dio-Giove custode dell’ordine anziché promotore del progresso. Ma il culto di questo Dio è così pagano che i “difensori dell’Occidente” finiscono col subordinarsi ai partigiani della Razza, di necessità portati alla più oppressiva delle guerre.

Questo esito della controrivoluzione del nostro secolo servirebbe a mostrare quanto fosse artificiosa la contrapposizione, in termini di avversari irriducibili, di cristianesimo e di marxismo. Di qui la conseguenza manifesta: il marxismo deve essere cristianizzato. Ma, in che modo?

Nella forma più elementare si pensa di staccarne una parte, la sociologia, e di rifiutarne un’altra, la filosofia. Si tratta però, evidentemente, di una via del tutto insoddisfacente. Resta l’altra, di ridurre l’intero marxismo a scienza. Costretto qui ad abbreviare i passaggi, dirò che l’unico processo possibile in questa via, è quello di universalizzare l’evoluzionismo, sino a raggiungere un panbiologismo in cui il passaggio alla socializzazione appaia un momento richiesto dall’evoluzione stessa.

Teilhard de C.

Non voglio pronunciarmi qui sul pensiero del padre Teilhard. Esiste però oggi un fenomeno culturale dai tratti ben definiti, il teilhardismo, che ha soppiantato presso i cattolici cosiddetti di sinistra il maritainismo e il mounierismo. Pronunziarsi nel suo riguardo è lecito, facendo provvisoriamente astrazione dalla domanda se esso non tradisca la sostanza più profonda del pensiero dell’autore a cui si richiama.

E per vedere lo sviluppo e la pericolosità delle posizioni ultime del pensiero cattolico di sinistra, cominciamo a osservare come l’argomento essenziale del Maritain contro l’ateismo contemporaneo si trovi annullato nel teilhardismo. Perché per Maritain a tale ateismo è immanente una contraddizione: sorto come rivolta morale contro un Dio filosofico, chiamato a giustificare i mali del mondo, ha finito con l’assoggettarsi al peggiore dei falsi dei, la storia, e al suo immanente progresso che ha il diritto di tutto travolgere.

E, ora, appunto questa morale del “senso della storia” che viene assunta dal teilhardismo corrente, scomparendo la distinzione, essenziale a Maritain, tra cooperazione a Dio e cooperazione alla storia.

Nei riguardi di questa posizione mi limiterò a menzionare tre punti che servono a manifestarne le difficoltà. Il primo, che gli ammiratori laici dell’opera teilhardiana non si sono sentiti menomamente scossi nel loro ateismo o nel loro panteismo. Il filosofo comunista Garaudy vi ha in sostanza visto la formula coerente dei cattolici compagni di strada.

Si sa che per il marxismo l’ateismo è un risultato: il comunista potrà procedere con il cristiano quando questi condivida il suo giudizio sul movimento della storia, senza entrare direttamente in controversia per quel che riguarda le questioni religiose.

A. Huxley

Il celebre scrittore Huxley, sostanzialmente panteista, ha dichiarato, affermando la sua ammirazione per Teilhard, che “la verità evoluzionista ci libera dalla paura servile dell’Ignoto e del soprannaturale… Il solo modo per colmare l’attuale frattura fra scienza e religione è di fare accettare alla scienza il principio che la religione è un organo dell’uomo in evoluzione, organo suscettibile di numerose modificazioni; e di fare accettare alla religione il fatto che le religioni si evolvono e devono evolversi”.

Si ripete cioè la vicenda del modernismo che, sorto per parlare agli uomini moderni, non ha però di fatto mai convertito nessuno. Né si può negare l’impressione che la “fede cristica” sia nel teilhardismo semplicemente il sovrapposto alla fede in un’evoluzione che porterà alla divinizzazione dell’uomo, senza essere da questa direttamente richiesta.

Non è stupefacente il passo “se in seguito a qualche rivolgimento interiore, venissi a perdere successivamente la mia fede nel Cristo, la mia fede in un Dio personale, la mia fede nello Spirito, mi sembra che continuerei a credere nel mondo (il valore, l’infallibilità e la bontà del mondo qual è, in ultima analisi, è la prima e la sola cosa in cui credo)” — in Comment je crois —-?

Se dovessimo prendere alla lettera questo passo, sembrerebbe che la fede cristiana si riduca a un’aggiunta gratuita, a una fede nella storia, che da sola basta a fondare tutti i miei atteggiamenti pratici. Si dirà che si tratta di una frase imprudente: resta sempre che il passaggio dall’immanenza alla trascendenza non appare giustificato, al modo che non lo era nelle forme modernistiche del primo novecento.

Non ho certo bisogno di dirlo io, dato che ho soltanto da riportare il passo di un teilhardiano estremista e intransigente, F. A. Viallet: “… Il fondo del pensiero di T.: un Dio immanente, che nella creazione, come lo pensava Spinoza, andava fino ai limiti del suo potere. “Dio non può creare che organicamente” dice ancora T. Questa visione si raddoppia però per lui con un’altra che sarebbe quella della trascendenza divina, ma tra le due visioni egli non ci dà una connessione logica” (Le dépassement, Fischbascher, Paris, 1961, p. 195).

Di più, tutti i critici del teilhardismo hanno osservato come il tema del peccato si trovi estremamente attenuato. Al più si può dire che Adamo ha peccato perché era ancora fanciullo, e che, con il peccato, ha acquistato maggiore coscienza (Cfr. il volume di saggi di G. FREMAUD O.S.B., L. JUGNET, R. Th. CALMEL O. P., raccolti sotto il titolo Gli errori di Teilhard de Chardin, Dell’Albero, Torino, 1964, p. 145).

Ora dalla considerazione della fenomenologia dell’ateismo da un punto di vista puramente teoretico (che ho svolto nel mio recente libro Il problema dell’ateismo. Il Mulino, Bologna, 1964) mi è sembrato di dover giungere alla seguente conclusione; non è la scienza e non è per sé la morale, non è neppure lo scandalo per le infedeltà storiche del mondo cristiano (insomma il processo che porta all’eresia) a poter dare una spiegazione dell’ateismo; esso è invece il punto terminale del processo del razionalismo, successivo alla sua fase metafisica.

Disvelante, nel suo carattere postulante, la postulazione originaria che è alla base del razionalismo. La negazione del soprannaturale che si esprime in un primo momento non è già nella negazione di Dio, ma nel rovesciamento del significato del peccato (così la caduta è vista come salutare dal Bruno, perché la moralità dell’uomo non è innocenza, ma conoscenza del bene e del male; nel “Dio che conferma le parole del serpente” in Hegel).

Nel processo ulteriore della dialettica che porta all’ateismo, Dio viene visto come il peccato, come la ferita dell’uomo, la cui rinascita può avvenire soltanto attraverso un riacquisto (o una conquista) dei poteri che aveva “alienato” o che aveva dovuto alienare durante il processo storico nella creazione di Dio. Di qui la essenzialità all’ateismo di termini come “surrealtà”, come “uomo totale”, come “superuomo”, designanti un nuovo stadio cui si giungerà attraverso un “salto qualitativo” generalmente detto “rivoluzione”.

Onde il carattere mistico, di restaurazione di un “sacro” rovesciato che è intrinseco all’ateismo vero e proprio, e che rende possibile anche gli equivoci al suo riguardo di pensatori religiosi, nella misura in cui confondono l’ateismo con una forma di rozzo materialismo naturalistico, e sono perciò portati a vedere nell’ateismo autentico una contraddizione che invece non c’è.

Non penso certo di accusare le forme modernistiche di essere inserite in un processo che per necessità logica concluda all’ateismo. Mi sembra tuttavia innegabile di dover parlare di una loro situazione di relativa inferiorità nel dialogo che impegnano con l’ateo: non c’è del resto una connessione tra l’attenuazione del tema del peccato e l’idea del passaggio a uno stato superiore all’umano, e questi due temi non sono propri, nella loro massima coerenza e forza, dell’ateismo?

Sono stato perciò colpito da molte osservazioni del Calmel (lette dopo che la mia ricerca era già stata conclusa), rivolte ora espressamente al pensiero del Teilhard. Come, ad esempio, questa: “anche divinizzato l’uomo mantiene la costituzione dell’uomo: non passa all’ultra-umano” (CALMEL, op. cit., p. 120, e cfr. il suo svolgimento nelle pp. successive).

Penso poi che la critica della posizione modernistica del dialogo debba cogliere soprattutto la sua radice, che sta in quell’interpretazione della storia contemporanea, a cui sopra si è accennato. In questa connessione il pensiero del Teilhard diventa il “teilhardismo”.

A mio modo di vedere non si possono astrarre fascismo e nazismo dal contesto generale della storia contemporanea per unificarli e farne l’essenziale avversario. In realtà, ciò che caratterizza la storia contemporanea è l’espansione dell’ateismo, perché essenziale all’ateismo è l’oltrepassare la pura posizione teoretica per “farsi mondo” secondo la celebre frase di Marx, e cercare nella trasformazione totale del rapporto fra l’uomo e la realtà, il suo criterio di verità.

Da ciò il carattere transpolitico della storia contemporanea: essa ha il suo carattere precipuo nell’essere storia filosofica, di spiegamento di un’essenza spirituale, quella dell’ateismo, e, a mio giudizio, della sua già avvenuta sconfitta. È proprio dal fallimento dell’ateismo marxista come rivoluzione mondiale che sono suscettibili di trovar spiegazione fascismo e nazismo come forme di opposizione al marxismo che tuttavia sono a esso subordinate.

Necessaria involuzione staliniana del comunismo e nazismo sono perciò due facce di uno stesso fenomeno; o è anche forse lecito dire che comunismo e nazismo sono i due aspetti del dramma in cui si consuma, nel giungere alla pratica, la filosofia classica tedesca (per una maggiore delucidazione su questo punto mi permetto rinviare al mio libro Il problema dell’ateismo, cit., introduzione, p. CXXVIII e ss.).

3. Dialogo non modernista

Inteso alla maniera modernistica il dialogo tra il pensiero cattolico e il pensiero moderno è un dialogo in situazione di inferiorità. Ad esempio, il dialogo col marxismo potrà mettere in luce certe esteriori concordanze, ma mai la contraddizione per cui il marxismo dovrebbe deporre quella figura ateistica… che è la sua essenza.

Da quel che sinora si è visto risulta però la possibilità che il dialogo si svolga in tutt’altra forma. Cioè quella che mette in luce nella storia contemporanea la verifica dello scacco di ogni forma del pensiero normalmente detto laicistico; e che da questo scacco trae le condizioni per un’autocritica che deve svolgersi all’interno dello stesso pensiero laico e che il pensiero cattolico deve stimolare e aiutare.

Consideriamo infatti la storia del mondo dopo il 1870, cioè dopo l’almeno provvisoria vittoria dello spirito laico contro la restaurazione cattolica. Possiamo distinguerci tre momenti: quello dal 70 al ’14, caratterizzato dal laicizzamento del cristianesimo, tentato in varie forme; quello della rivoluzione atea, tentata a partire dalla politica (comunismo) oppure dall’arte (fenomeno più significativo sotto questo riguardo, il surrealismo); prevalenza dell’irreligione naturale, sempre più accentuata nel secondo dopoguerra.

Il tentativo di laicizzamento del cristianesimo caratterizza infatti il periodo 70-’14; ora sotto la forma di conservazione, in termini di umanitarismo, della morale cristiana; ora in quella di una religione nei limiti della ragione che conservi come postulati necessari per la vita morale la credenza in Dio e nell’immortalità dell’anima; ora in quella di filosofie idealistiche dell’immanenza del divino.

La rivoluzione ateistica ha senza dubbio distrutto questo mondo, senza però attingere affatto quella superumanità che era il suo scopo; ha servito come mediazione per il passaggio dal mondo cristiano-laico a quello dell’irreligione naturale, caratterizzato dalla perdita della facoltà del sacro.

Che cosa intendo per “irreligione naturale”? Una posizione completamente diversa dall’ateismo, perché di esso rifiuta l’appello a uno stadio ulteriore dell’umanità. È caratterizzata dal rifiuto della stessa posizione del problema in termini di teismo e di ateismo, perché non interessa; da un relativismo assoluto per cui tutte le idee vengono viste come relative alla situazione psicologica e sociale di chi le afferma, e perciò come valutabili da un punto di vista utilitario, di stimolo alla vita.

Per cui tutto in conseguenza diventa puro oggetto di scambio. Simbolo, la scomparsa del pudore; nelle forme più elementari la riduzione di tutto ad “acqua, sonno, sesso”, la caduta insomma, nell’animalismo puro. “Eclissi del sacro” è termine ormai così corrente che riesce fastidioso il ripeterlo.

Quel che però importa osservare è come sia del tutto superficiale la spiegazione consueta che ne cerca le ragioni nello sviluppo della tecnica. In realtà la stessa forma in cui culturalmente si presenta questa eclissi, di sociologismo, ossia di marxismo oggettivato e rovesciato in assoluto relativismo, mostra come ben più profonda e ideale ne sia la ragione.

L’ateismo ha raggiunto la realtà storica, ma rovesciandosi in qualcosa di affatto diverso da quelle che erano le sue promesse. Consideriamo, infatti: ogni forma di pensiero ateistico, così quello della “rivolta cosmica”, da Sade al surrealismo, come l’ateismo di Marx, come quello di Nietzsche, muove contro tre comuni avversari, la religione trascendente, la filosofia del divino immanente, e lo spirito borghese; intendendo per borghese l’uomo la cui vita è del tutto determinata dalla categoria dell’utile, così che dissacra tutto ciò che pensa.

Ora, senza dubbio, la situazione presente può venire raffigurata come lo stadio ultimo cui deve giungere nel processo di dissacrazione lo spirito borghese. Ma ha poi l’ateismo marxista un’effettiva capacità di oltrepassarlo, o la sua potenza storica si è paradossalmente esaurita nel riuscire a portare lo spirito borghese a questo stadio ultimo?

La risposta non pare dubbia, se si considera la situazione ultima del comunismo. Giustamente si è parlato, a proposito del krusciovismo; di una “seconda crisi socialdemocratica” del comunismo, ma qui, attenzione!

La prima crisi socialdemocratica era avvenuta nel riguardo del mondo del cristianesimo laicizzato; la seconda avviene nell’accettazione di un mondo da cui il sacro è scomparso. L’antica socialdemocrazia poteva riferirsi a dei valori universali; il comunismo di oggi cerca di situarsi come forza particolarmente potente in un mondo di cui sono scomparsi i valori, abbandonando di fatto ogni idea di trasfigurazione messianica.

Poco importa se in questo stadio, che altri giudicherà evolutivo e io invece involutivo, possa conseguire dei successi, dato che li ottiene cedendo totalmente allo spirito borghese, ed esattamente nell’aspetto peggiore della sua decadenza. È chiaro come debba limitarmi qui a una semplice enunciazione senza poter ragionare questo punto in maniera realmente adeguata.

Tuttavia non si tratta proprio di asserzioni paradossali, ma di critiche che al krusciovismo vengono generalmente mosse. Ora se è così, se all’ateismo è essenziale un reale cangiamento della natura umana in modo che la comunità diventi il vero io e il mondo degli egoismi sia superato, chi non vede che oggi la sua impresa si manifesta come fallita?

Né può evitare di intenderlo l’intellettuale che al marxismo abbia sinceramente aderito. Ora, è proprio a partire dalla persuasione, nel cattolico, di questa duplice catastrofe del mondo moderno, così nell’aspetto di cristianesimo laicizzato, come in quello di radicale ateismo, che il dialogo tra il pensiero cattolico e quello cosiddetto moderno, nel senso di pensiero caratterizzato dalla negazione della trascendenza religiosa, può avere inizio.