Dalla sovranità nazionale alla crisi della chiesa. Intervista al Generale Marco Bertolini

da Ricognizioni 31 Luglio 2019

Marco Sudati  

Abbiamo intervistato il Generale di Corpo d’Armata (Aus.) Marco Bertolini, figura di spicco delle Forze Armate e attuale Presidente dell’Associazione Nazionale Paracadutisti d’Italia, il quale, con grande cortesia e disponibilità, ha risposto ad alcuni nostri quesiti sui temi più scottanti che riguardano il presente ed il futuro dell’Italia.

Nato a Parma il 21 giugno 1953, Marco Bertolini – figlio di Vittorio, reduce della battaglia di El Alamein – dal 1972 al 1976 ha frequentato l’Accademia Militare di Modena e la Scuola di Applicazione d’Arma di Torino. Nel 1976, con il grado di Tenente, ha prestato servizio presso il IX Battaglione d’Assalto Paracadutisti Col Moschin – una delle unità di elite delle nostre Forze Armate – del quale, per ben due volte (dal 1991 al 1993 e dal 1997 al 1998), è stato comandante.

Già comandante, dal 1999 al 2001, del Centro Addestramento Paracadutismo, dal 2002 al 2004 è stato posto al comando della Brigata Paracadutisti Folgore per poi assumere il comando interforze per le Operazioni delle Forze Speciali (COFS) e, successivamente, quello del Comando Operativo di vertice Interforze (COI). Dal luglio del 2016 Marco Bertolini ha cessato il suo servizio attivo nelle Forze Armate.

SULLA SOVRANITÀ NAZIONALE

Sig. Generale, vorrei cominciare questa nostra intervista toccando uno dei temi che lei affronta con maggior vigore. Mi riferisco alla questione della sovranità nazionale, oggi messa in discussione dall’invadenza di soggetti sovra-nazionali, connotati da una certa estraneità alla storia ed agli interessi legittimi dei popoli e delle nazioni europee.

Innanzitutto vorrei dire che, a mio avviso, la Sovranità sta allo Stato come la libertà sta all’individuo. Si tratta, insomma, di un valore di rilevanza assoluta (sul piano delle relazioni umane), che non è possibile relativizzare o, peggio, irridere, soprattutto da parte di chi ha funzioni di governo della cosa pubblica.

È sorprendente il fatto che rappresenti uno degli argomenti principe del dibattito politico odierno, se si tiene conto che fino a pochi anni fa gli Italiani erano il popolo più euro-entusiasta, quasi fossero impazienti di rimettere quel po’ di sovranità che ci rimaneva ad un’Unione Europea che era stata mitizzata per decenni. Ma il mito è caduto velocemente alla prova dei fatti.

Abbiamo visto cosa comporta sotto il profilo economico e finanziario, con l’umiliazione della Grecia e la messa sotto accusa del nostro paese, per il poco rigore in economia, perché recalcitrante a farsi invadere da masse incontrollate di africani, perché troppo sensibile nei confronti delle sirene russe, perché “troppo cattolico” e oscurantista, perché troppo mafioso (gli altri stanno meglio invece …), eccetera, eccetera.

La drammaticità del cambio è anche evidenziata dalle mutazioni dei partiti in tema di politica interna, con il partito antinazionale per antonomasia, la Lega, diventato il vessillifero della resistenza nazionale alla disgregazione. Evidentemente si saranno resi conto che le piccole patrie di bossiana memoria non hanno possibilità di sopravvivenza se cedono le patrie nazionali, che le contengono.  In ogni caso, oggi la sovranità è uno dei valori sui quali si sta dividendo la nostra società.

Ed è una divisione, appunto, che si produce sui “fondamentali” del nostro essere nazione, che separa i vari partiti e le varie ideologie non sulle modalità di perseguire un bene nazionale unanimemente riconosciuto, ma sull’esistenza di tale bene stesso. Insomma, la sovranità, o meglio l’indipendenza per la quale sono state combattute tre guerre nel XIX secolo ed una nel XX (la Grande Guerra) non rappresenta più il valore sul quale si possono ritrovare sia Peppone che Don Camillo, ma il terreno di scontro tra i due.

E tra i “fondamentali” in crisi ce ne sono altri, imprevedibili, come la famiglia ed il ruolo dei sessi nella composizione del futuro, che gettano un’ombra sul domani del continente nel suo complesso. E dell’Italia.

Come armonizzare una giusta attenzione per la sovranità nazionale e l’appartenenza alla Comunità Internazionale?

Sul fatto che l’Italia debba trovare una sua collocazione all’interno della Comunità Internazionale, con particolare riferimento all’Unione Europea, non v’è dubbio in quanto i più importanti problemi internazionali non possono essere risolti dalle singole nazioni, soprattutto quelli inerenti la sicurezza e le sfide dell’economia globale. Ma questa Comunità deve tenere conto della dignità e degli interessi dei singoli paesi, senza che alcuni di questi si debbano rassegnare a sacrificare i propri per quelli altrui.

E a ben vedere è quello che sta accadendo adesso, con l’Italia schiacciata da politiche economiche che non tengono conto delle nostre caratteristiche, nonché da un’immigrazione difficilissima da controllare, mentre gli “amici” europei si limitano a darci lezioni da quattro soldi di virtuosità finanziaria e di accoglienza.

Ma anche sotto il profilo più spiccatamente strategico, l’attenzione dell’UE si concentra su una sgradevole esibizione di forza contro la Russia nel Baltico e in Centro Europa, affettando indifferenza per quanto Putin sta facendo da anni per evitare che nel “nostro” Mediterraneo l’ISIS ed Al Qaida abbiano la meglio, a partire dalla Siria.

In questo contesto, l’Italia deve elaborare una propria politica estera di largo respiro, scrollandosi di dosso quella specie di imbambolamento indotto da una certa lettura del dettato costituzionale che, per alcuni, presupporrebbe il sacrificio degli interessi italiani a favore di quelli altrui. E questo dovrebbe essere il compito di politici illuminati e colti che ragionino in termini di portata generazionale, indicando quella che dovrà essere l’Italia del futuro; un’Italia consapevole di non essere semplicemente il confine meridionale di un’Europa franco-tedesca, ma il centro di un più ampio e nobile continente euromediterraneo nel quale non a caso è nata la civiltà occidentale e nel quale si scontrano attualmente gli interessi dei principali competitors internazionali.

Purtroppo, invece, gli unici che sembrano voler “volare alto” sono quelli che spingono per provvedimenti di portata epocale, come l’immigrazione selvaggia, lo Ius Soli e le politiche familiari suicide di cui siamo attoniti testimoni, per cambiare alla radice ed irrimediabilmente la nostra composizione antropologica, per distruggere la nostra cultura, frutto di una storia e di una religione che evidentemente disprezzano. Insomma, dobbiamo rinunciare all’illusione che ci sarà sempre una bandierina blu, della Nato, dell’Ue o dell’Onu, a difesa del nostro piccolo Tricolore, capace di indicarci quali interessi coltivare, quali nemici temere e quale “stile di vita” abbracciare; uno stile di vita per di più estraneo alla nostra cultura profonda, misurato quasi solo in centimetri quadrati di pelle esposta al sole. Un po’ poco, a mio avviso.

D’altra parte, abbiamo visto come questa Comunità Internazionale si sia fatta carico dei nostri interessi, già a partire dagli anni ’90 quando rispose alla evidentemente sgradita caduta della Cortina di Ferro imponendone un’altra nei Balcani, ancora nel cuore dell’Europa, questa volta ai danni di una Serbia umiliata, privata di accesso al mare con l’indipendenza del Montenegro e amputata della culla della propria identità nazionale e religiosa con la secessione del Kosovo.

O come in Libia, con una guerra sciagurata che ci ha costretti ad un’avvilente abiura del patto di amicizia siglato con Gheddafi pochi anni prima, vanificando le speranze di un vantaggioso, per entrambi, ritorno su quelle coste della nostra imprenditoria in crisi.  Per non parlare poi della gestione egoistica dell’immigrazione clandestina, per la quale l’unica soluzione sarebbe rappresentata, a sentire loro, dalla realizzazione di campi profughi sul nostro territorio (li chiamano eufemisticamente hot spot, consci di come l’inglese arrostisca i nostri provincialissimi cervelli); ma anche nel Medio Oriente, dove si è favorito l’incistarsi di una guerra senza fine in Siria, della quale pagano le conseguenze sia le popolazioni musulmane che le cospicue comunità cristiane del paese e che già ora trasforma il Mediterraneo nell’area più instabile del globo, percorsa da fremiti di conflittualità incontrollabili.

Per concludere con l’Ucraina, dove si è voluta una crisi alla quale la Russia non poteva non rispondere riprendendosi la Crimea, sede della sua Flotta del Mar Nero, strumento al quale non può rinunciare a meno di scomparire per sempre dal Mare Nostrum. E, visto che al peggio non c’è mai fine, aspettiamo di vedere cosa succederà con l’Iran, anche se Trump, grazie a Dio, ci ha abituato ad aperture di tavoli negoziali anche con gli interlocutori più improbabili, come Kim Jong Un, un attimo prima di ribaltarli. Insomma, un bel guazzabuglio di mare. E noi, ne siamo il centro.

Si tratta, quindi di un problema esclusivamente politico, economico e strategico?

Ritengo che ci siano delle incidenze di carattere sociale e religioso che un paese come l’Italia non può trascurare. La Chiesa cattolica, infatti, ha da sempre rappresentato un elemento centrale nella nostra identità nazionale, costituendo da un punto di vista sociale, culturale e storico l’elemento di continuità che ci lega al nostro passato e che ci caratterizza in ambito mondiale, fin dall’antichità.

Giusto per essere più chiari, non tutti al mondo sanno che l’Italia è una Repubblica, retta da un Presidente di nome Ciampi o Mattarella. Ma sull’esistenza di Roma, pochi dubbi! E che a Roma sieda il Papa e che questo si chiami Francesco, Benedetto, Giovanni o Paolo lo sanno più o meno tutti, anche negli angoli più reconditi del globo.

Ebbene, la Chiesa pare aver rinunciato a questo ruolo di focalizzazione e di nobilitazione dell’identità italiana con la salita alla cattedra di Pietro di Papa Bergoglio, il meno “italiano” tra gli ultimi Pontefici. E questo, fino al punto di dimostrare disinteresse e quasi fastidio per le nostre ambizioni e questioni nazionali, delle quali pare non curarsi, ad eccezione della solita, scontatissima questione dell’accoglienza, che pare debba essere indiscriminata per essere tale anche se rischia di erodere quel che resta della nostra compattezza etnico-culturale-religiosa sopravvissuta per millenni.

Purtroppo, una chiara affermazione della nostra sovranitàe l’individuazione di nostri precipui interessi, con riferimento a quelli più “alti”, non può prescindere da questa realtà, che ci aveva abituato ad una “sponda” potente oltretevere, dopo due millenni di storia in comune. Insomma, al disinteresse della “cattolica” non eravamo preparati.

SULL’ETICA SESSUALE E IL DECADIMENTO DEI COSTUMI

Veniamo ora ad un altro tema scottante e di estrema attualità, cosa pensa del decadimento dei costumi che sta caratterizzando la nostra società e del degrado che con moto accelerato sta deturpando l’etica del nostro popolo?

Da anni le nostre strade, asfaltate e digitali, sono testimoni di comportamenti che fino a non molto tempo fa non sarebbero stati nemmeno concepibili. Parlo dei Gay Pride dove l’ostentazione di fondi schiena nudi, di volgarità aberranti e di bestemmie urlate, scritte ed illustrate, non fanno più scalpore e vengono tollerate con una scrollatina di spalle in nome del rispetto dei “diritti”: i killer della nostra umanità.

Si tratta di una delle tante anticipazioni di quello che sarà un futuro distopico che nessuno, a partire dalla Chiesa, sembra avere il coraggio e la volontà di contrastare.  Eppure, tale stato delle cose, che lascia presagire nuovi orizzonti di perversione nello sdoganamento della pedofilia, trova la sua origine nel femminismo più politicamente corretto ed universalmente accettato, che ormai si è imposto come ideologia obbligatoria alla quale non ci si può sottrarre; fino al punto di inventare nuove categorie criminali (il femminicidio, lo stalking, ecc..) assurte al rango di Male molto più “Assoluto” dell’infanticidio, dell’aborto (ormai “diritto” incontrastato) o della pratica aberrante della sottrazione dei bambini ai genitori, di cui pare siano esempi eclatanti quanto ignorati i fatti del Forteto e di Bibbiano.

Credo, insomma, che il femminismo sia la punta di lancia di una violentissima offensiva contro l’umanità per come è stata conosciuta da sempre, non tanto per l’immoralità sessuale che sembra prediligere, quanto per l’obiettivo che si propone di negare e ribaltare: la complementarietà tra i sessi, uguali in dignità ma distinti in funzione e “meccanica”, il mezzo dato da Dio alla sua creatura per riprodursi e per proiettarsi nel futuro.

Se l’omosessualismo sdogana, quindi, comportamenti aberranti sotto il profilo della morale e del costume, il femminismo si conferma l’arma più radicale di un sovvertimento del quale omosessualismo e pedofilia sono semplici conseguenze. In quest’ottica si è spregiudicatamente sdoganato un nuovo significato della parola “amore”, quale mero soddisfacimento dei propri gusti, assolutamente svincolato da ogni dovere nei confronti degli altri e che non è lecito a nessuno contrastare.

Basta, quindi, con l’amore “comandamento” (cioè, frutto anche di autodisciplina in quanto non sempre istintivo) imposto da Gesù ai suoi apostoli, al centro dell’etica familiare dei miliardi di padri e madri che dagli albori dell’umanità hanno sacrificato se stessi per i figli, e viceversa. Ora amare significa semplicemente “star bene” e se per far ciò debbo abbandonare i figli ad un futuro da orfani a scartamento alternato, o devo lasciare “il partner” in balia della miseria come nel caso di tanti padri e madri abbandonati e ripudiati per qualcun altro, poco male.

SULLA FEDE E SULLA CHIESA

Sappiamo, Sig. Generale, che lei è un uomo religioso, un cattolico che non si vergogna di manifestare pubblicamente la propria fede. In molti ricordano, infatti, il segno della croce che lei si è fatto, al termine del discorso pronunciato in occasione del suo congedo dal servizio attivo. Un gesto tanto bello ed eloquente, quanto estremamente raro oggi (almeno a certi livelli istituzionali). Come vive e cosa ne pensa del travagliato momento storico che sta attraversando la Chiesa?

Confesso preliminarmente una profonda invidia per i tantissimi fortunati che credono di essere i soli ai quali Papa Francesco si rivolge con la Sua informalità, con il Suo richiamo alla povertà del fraticello di Assisi, col Suo aborrire gli atti più tradizionalmente simbolici del ministero petrino. Loro hanno già avuto, evidentemente, quello che a me manca ancora. Parlo di una rivelazione che li rende sicuri nella loro fede, senza bisogno di alcun artifizio per rinforzarla, senza bisogno di alcun appiglio a cui ancorarla.

Si sentono felicemente in comunicazione costante con Dio, col quale condividono (o credono di condividere) un pensiero vagamente di sinistra al quale abbeverarsi senza tregua.  Io, purtroppo, a differenza loro non ho visto nessuna luce. Non ho sentito nessuna voce.

Sono cristiano e cattolico semplicemente perché così erano i miei genitori e i miei nonni. Perché così mi ha insegnato a “dottrina” il parroco del mio paese più di mezzo secolo fa, facendomi imparare a memoria la lezioncina, in buona parte dimenticata.  Quella fede abbozzata l’ho poi elaborata, arricchita – si fa per dire – col mio pensiero, con quel po’ di introspezione che la scuola di allora ancora favoriva negli studenti.

E ora la tengo stretta con tutte le mie forze e con tutta la mia volontà (volontà), ripetendomi convinto che l’infinito e l’eterno non possono esistere né, al tempo stesso, desistere, che le righe dritte e le curve perfette delle nostre architetture, l’inutile cromatura del paraurti della mia auto, il groppo in gola provocato da una bella poesia, da una struggente armonia o da un bel dipinto mal si adattano alla “muffa cosmica” che qualcuno vorrebbe che noi si sia, nata dal caso e non ordinata da una Legge e Volontà (Volontà) precise.

Sono quindi convinto dell’esistenza di un Ordinatore-Decisore Assoluto e lo voglio riconoscere nel Dio della mia tradizione famigliare e culturale. Ma so anche che se fossi nato in Nord Africa proietterei questo mio sforzo su Allah e se fossi di famiglia ebraica implorerei solo il Dio della Torah. Invece, continuo a voler credere nel nostro Dio, Uno e Trino, il cui Figlio è nato, cresciuto, morto e risorto duemila anni fa. Per tutti, giudei e gentili, progressisti e oscurantisti, illuminati ed illusi!

Ma, in questa costante assenza di voci e di luci, si tratta di uno sforzo di volontà disperato che mi sarebbe impossibile senza un riferimento fermo alla tradizione del Dio dei miei vecchi, che altrimenti rischierebbe di sembrarmi uguale a quello di tutti gli altri. E non mi aiuta a risolvere questi problemi il continuo richiamo al dovere dell’amore rivoltomi da Papi, Vescovi e preti.

Amore per tutti, etero e soprattutto gay, bianchi e soprattutto neri, cristiani e soprattutto anticristiani, di qualsiasi declinazione religiosa o anti-religiosa essi siano. Analogo appello all’amore, travestito da “tolleranza” e “solidarietà” viene incessantemente gridato, rivendicato, proclamato da tutti, buoni e cattivi, indignati ed indignatori, atei militanti e new age ispirati, politici inquisiti e neoparlamentari dallafacciapulita, in massima parte tutt’altro che interessati alla mia ricerca di fede.

Cosa sarebbe, precisamente, questo amore, quindi? È difficile da capire per chi, come me, fatica ad amare chi non gli è almeno figlio. A meno che per amore non si consideri solo l’impotente commozione, o la banale emozione, provocata dalla visione dell’ordinaria sofferenza infantile, femminile e senile programmata, organizzata, condotta e teletrasmessa dalla nostra onnisciente, onnipotente ed autoassolvente modernità, che schiaccia tutti gli inermi, che irride tutti gli sconfitti, che sbeffeggia tutti gli stanchi, che insozza tutti i puri.

Come potrebbe essere confuso con l’amore un semplice moto dello spirito come questo, che si limita a inumidirmi l’occhio, a esasperare il mio senso di impotenza, senza comunque essere capace di spingermi all’azione, a schiantarmi col mio Zero sulla nave dei malvagi? Quelle che cerco sono le ragioni del mio credo. L’amore, comunque lo si intenda, non potrà che conseguire. Questo chiedo al Papa e ai Suoi Vescovi.

Queste ragioni chiedo di spiegarmi, queste certezze di radicarmi. Sveglino, illuminino la mia intelligenza, unica risorsa fino ad ora in grado di aiutarmi a trovare la strada. E, se la conoscono ancora, usino la lingua dei miei padri, così chiara negli anni della mia infanzia pre-liceale e pre-conciliare! Nell’attesa, continuo nel mio sforzo, disperandomi se non riesco a coinvolgere quanto vorrei chi amo, in questa mia battaglia.

E questa impotenza fa palpitare la mia già altalenante fede che cerca anche nei simboli, negli atti, negli eventi e nei gesti che non cambiano (che non cambiano), più che nelle parole che dicono tutti (che dicono tutti), un conforto. Una fede costantemente in fasce che aspetta speranzosa, come la biblica sentinella, la luce di un’alba che sembra ancora lontana, il rombo di una voce non ancora udita, per poi farsi veramente adulta nella recita del Credo di Nicea.

Per questo, continuo a scrutare l’orizzonte ad est, presidiando ostinatamente quello che mi è stato lasciato, ordinatamente riposto nella cittadella della mia tradizione familiare, unico inalterabile ed intangibile tesoro in quest’epoca che discute tutto, in nome di un’apertura ad un mondo che non vuole credere in null’altro che in se stesso.