Appunti per una definizione storica del fascismo

da http://www.totustuustools.net/

[Conferenza tenuta il 19 aprile 1969 presso la sezione milanese  dell’Unione Italiana per il Progresso della Cultura]

di Augusto del Noce

La tesi che risulta dai precedenti saggi è la seguente: il fondamento del progressismo, così nella sua forma di illuminismo laico come in quella di modernismo religioso, è un giudizio sulla storia contemporanea; per dir meglio, su una zona della storia contemporanea, quella dell’Europa fra le due guerre. Quale, già lo si è visto (vedere la pagina di del Noce sulla Filosofia dei “giovani” e la contestazione, su questo sito); ora, l’attitudine contraddittoria a cui ha dato luogo e per la cui designazione ho usato il termine di millenarismo negativistico, porta al problema della sua revisione.

Si badi bene: non si tratta menomamente di mutare il giudizio assiologicamente negativo sul fascismo; invece, di vedere quali posizioni ideali siano state coinvolte nella sua catastrofe.

* * *

È del 1963 il primo libro che abbia tentato un’esaustiva comprensione storico-filosofica del fascismo come “fenomeno epocale”, quello di Ernst Nolte (Der Faschismus in seinerEpoche, Piper, Monaco, 1963; trad. it. I tre volti del fascismo. Sugar, Milano,1966, a cui le citazioni rinviano). Sostanzialmente, si può dire che esso abbia dato espressione rigorosa all’idea che informa i giudizi correnti: quella secondo cui i fenomeni fascisti dovrebbero venire sussunti sotto il concetto generale di controrivoluzione.

Ernst Nolte

Visto nel suo aspetto più profondo, come fenomeno transpolitico, il fascismo sarebbe per il Nolte una disposizione di “resistenza contro la trascendenza”, termine con cui intende non la trascendenza religiosa, ma quella che oggi si suoi chiamare “trascendenza orizzontale”, trascendimento storico, insomma. Quello che per il fascismo, in qualsiasi delle sue forme, è il nemico, deve essere “individuato” nella “libertà verso l’infinito” che, “innata nell’individuo e reale nell’evoluzione universale, minaccia di distruggere ciò che si conosce e si ama” (Op. cit., p. 685).

Sul piano più strettamente politico questa “resistenza contro la trascendenza” si affermerà come lotta sino alla morte contro i movimenti che la rappresentano, ed esprimono la ricerca di andare al di là dell’ordine presente, verso una realtà sociale più ampia. Si dovrebbe perciò parlare di un’assenza comune che si sarebbe specificata in diverse forme nei vari paesi europei, a seconda delle loro diverse situazioni politiche, economiche, culturali.

Le principali di queste forme costituirebbero altrettanti gradi; così il Nolte ha delineato una linea unitaria di sviluppo, in cui il primo grado sarebbe rappresentato dall’Action française, il secondo dal fascismo italiano; il terzo dal nazismo. Come è facile osservare, una tale interpretazione corrisponde alla veduta corrente, secondo cui i termini ultimi dei contrasti presenti sarebbero le parti dei tradizionalisti e dei progressisti, ogni valore venendo assorbito dalla causa dei progressisti: e secondo cui ogni atteggiamento tradizionalista conterrebbe, anche se nella più inconsapevole delle maniere, e allo stato germinale, una possibilità fascista.

Ciò che però caratterizza la sua opera è che questo giudizio non condiziona la ricerca, come presupposto polemico, ma invece appare essere il risultato di un reale sforzo di comprensione storica. Di qui la sua importanza: perché la rigorosa messa, in forma di un giudizio corrente serve pure a farne apparire i caratteri contestabili. Anzitutto; da che cosa egli si trova portato a parlare di un'”epoca del fascismo”?

Da questo: è esistito un periodo in cui, in seguito all’arretramento e al chiudersi in se stessi delle potenze periferiche (Stati Uniti, Unione Sovietica; isolazionismo americano; socialismo in un solo paese per cui la Russia “ridivenne una terra incognita ai limiti del mondo“) l’Europa, pur dopo quell’anno 1917, in cui la prima guerra mondiale aveva cessato dall’essere un conflitto di stati nazionali, poteva, nuovamente considerare se stessa come il centro del mondo, e affermarsi quale proscenio degli avvenimenti mondiali.

Ora, poiché “si deve denominare un’epoca, caratterizzata decisamente da contese politiche, sulla scorta di quello che, nel punto culminante degli avvenimenti, costituisce il fenomeno del tipo più nuovo, ebbene, in tal caso sarà inevitabile chiamare l’epoca delle guerre mondiali epoca del fascismo“; termine che “presenta il vantaggio di non esibire alcun contenuto concreto; e di non presentarsi al pari della parola tedesca ‘nazionalsocialismo’ con una pretesa contenutistica che non pare giustificata” (Op. cit., p. 22).

Col dare una tale definizione dell’epoca, il Nolte non pretende affatto a una particolare originalità. Ha cura, anzi, di sottolineare com’essa fosse già stata affermata da rappresentanti delle correnti più diverse. Che nel giro di brevi anni l’intera Europa sarebbe stata fascista, era stata affermazione di Mussolini, spesso ripetuta negli anni del massimo suo potere, 1930-1935. Ma, su questo punto, avversari decisissimi si erano trovati d’accordo, con opposto accento valutativo.

Così T’homas Mann nel 1938 aveva definito il fascismo come “una malattia del nostro tempo, che è di casa dappertutto, e dalla quale nessun paese può dirsi immune“. Così, nella nota opera La distruzione della ragione il Lukàcs ha indicato “nello sviluppo spirituale e politico tedesco null’altro che la manifestazione più saliente di un processo internazionale che si svolge nell’ambito dei mondo capitalistico” (Op. cit., pp. 23-24).

Bastano già queste citazioni per vedere il posto che l’opera del Nolte occupa tra le interpretazioni del fascismo (Per i loro caratteri e la loro storia, è prezioso il recente libro di R. De Felice, Le interpretazioni del fascismo, Laterza, Bari, 1969). Essa si situa dopo quella, diciamo in largo senso ‘liberale’ della “malattia morale” e dopo quella, marxista. Il Lukàcs aveva parlato di una linea unitaria di processo verso l’irrazionalismo “da Schelling a Hitler“, includendovi tutti i pensatori tedeschi di rilievo successivi alla morte di Hegel.

Da questa tesi, in cui riconosce però un aspetto di verità, il Nolte dissente soprattutto per quei che riguarda il prefascismo di Max Weber, e naturalmente il dissenso su questo pensatore ha un contraccolpo decisivo per quel che riguarda l’intera linea indicata dal Lukàcs. Forse — non ho verificato quest’idea — il suo libro potrebbe esser definito come un rifacimento per l’Europa intera di quello che il Lukàcs ha scritto sul pensiero reazionario tedesco, operato però da uno scrittore su cui è stata forte l’influenza di Weber (1).

Max Weber

Ora, nello stesso giro di tempo in cui il Nolte scriveva il suo libro, io mi ero proposto il suo medesimo problema — di una definizione del fascismo in sede trascendentale — arrivando però a prospettive diverse. Nel 1964, infatti, nel mio libro Il problema dell’ateismo, definii la peculiarità della storia contemporanea per il suo carattere di storia filosofica.

Il mio punto di vista, che mantengo oggi del tutto invariato, era semplice: se si riconosce un carattere genuinamente filosofico all’opera di Marx, bisogna prendere alla lettera la sua frase secondo cui la sua concezione è quella di una filosofia che diventa mondo (che si oltrepassa nella realizzazione politica e cerca in questa la sua verifica) opposta a quella di un mondo che diventa filosofia nell’autocoscienza; se poi la storia contemporanea non può essere compresa che in relazione alla rivoluzione comunista, essa acquisisce un carattere nuovo, diverso da tutta la storia precedente, soprattutto dal Rinascimento in poi.

Non è soltanto una storia che può essere compresa dal filosofo; è una storia fatta dal filosofo, perché il valore del pensiero è per Marx quello di realizzare la condizione per un’azione efficace a trasformare la società e il mondo; e per riferimento al carattere precipuo della filosofia di Marx, mi parve di doverla definire come l’età dell’espansione dell’ateismo. Preferirei oggi, per indicare la stessa cosa, parlare di “epoca della secolarizzazione“, servendomi di un termine che ora è divenuto corrente.

Secolarizzazione e ateismo sono certamente le due facce della stessa moneta; ma siccome il termine di secolarizzazione dice ciò che questa età vuol essere — processo verso una situazione in cui si possa dire che Dio è scomparso senza lasciar tracce — e siccome qui si tratta di un’analisi interna di quest’epoca, prima che di un giudizio valutativo, qui è la ragione della mia preferenza.

Ora se l’età contemporanea deve, a mio giudizio, venir definita come epoca della secolarizzazione, l’inizio non può essere cercato che nell’opera di Lenin; quindi, davanti a una rivoluzione che nell’intenzione è mondiale, non mi sembra possibile ritagliare l’idea di un’epoca semplicemente europea e parlare di un “epoca del fascismo“.

Bisognerà invece parlare del “momento fascista” dell’epoca della secolarizzazione. Credo inoltre che un’ulteriore specificazione si presenti come necessaria. Nell’epoca della secolarizzazione noi possiamo distinguere un periodo che si può dire sacrale (in relazione al fenomeno delle religioni secolari, che accomunano comunismo, nazismo e fascismo) e un periodo profano; a un dipresso, e con l’approssimazione necessaria delle date, possiamo dire che il primo si chiude con la morte di Stalin.

Fascismo e nazismo appartengono interamente al periodo “sacrale”; fenomeno nuovo che caratterizza in maniera precipua il periodo “profano” è la società opulenta. Anche qui azzardando un’ipotesi, mi pare si possa dire che il Nolte sia stato sviato dall’analogia tra la posizione dell’Action française rispetto al radicalismo e quella del nazismo rispetto al comunismo (Cfr., per es., op. cit., p. 63).

Non vorrò negare che la simmetria vi sia, ma, appunto, soltanto una simmetria; è infatti altrettanto impossibile vedere nel nazionalsocialismo la continuazione e lo svolgimento dell’Action française che nel comunismo lo svolgimento del radicalismo. Di più, mi sembra che lo stesso Nolte si trovi in imbarazzo quando deve trattare del termine medio tra Action française e nazismo, cioè del fascismo propriamente detto. Nel considerarlo, infatti, egli accentua molto giustamente, i tratti segnati da un persistente influsso marxista, e le curiose affinità tra Mussolini e Lenin.

Si avrebbe dunque, nel momento mediano, un elemento che è del tutto assente nel momento iniziale (Action française) e di nuovo scompare nel momento conclusivo nazionalsocialista. E, allora, non è almeno singolare definire l’intera epoca con il termine di fascismo?

Siamo con ciò arrivati al punto veramente centrale: se si possano sussumere sotto il comune concetto di controrivoluzione (o di reazione, o di resistenza contro la trascendenza, ecc.) così i movimenti tradizionalisti e nazionalisti, che più o meno si richiamano tutti all’ispirazione dottrinaria dell’Action française, come il fascismo e il nazismo, in modo che si possa parlare di una stessa essenza, che si è specificata diversamente a seconda delle condizioni culturali ed economiche dei paesi in cui si era realizzata, o se invece l’attenzione debba prevalentemente venir portala sulle differenze.

Se ci si mette in questa seconda via si delineano poi due diverse possibilità interpretative: 1) si devono distinguere qualitativamente i movimenti nazionalisti dal fascismo e dal nazismo, riconoscendo però una stessa essenza a questi due ultimi fenomeni? 2) si deve invece parlare di fascismo e di nazismo, come di fenomeni per essenza diversi?

Come si vede, il punto più delicato, e quello che ora cercherò di affrontare, è proprio quello di assegnare il punto giusto al fascismo italiano: che alcuni associano al nazismo, mentre altri sono proclivi a considerarlo come una semplice variante dei regimi autoritari (2).

La distinzione così di fascismo come di nazismo dal nazionalismo propriamente detto, può essere stabilita facilmente. Il nazionalismo, infatti, si presenta come un tradizionalismo, come uno sforzo per perpetuare un’eredità, quest’eredità essendo per lo più legittimata per rapporto a valori trascendenti, anche se poi vi sia la tendenza a vederli soltanto nella funzione di legittimare un’eredità (per ciò ai può vedere nel nazionalismo lo sbocco finale di un’inesatta idea della tradizione) (3).

Il fascismo concepisce invece la nazione non più come un’eredità di valori, ma come un divenire di potenza. A diversità dal nazionalismo, la storia non è concepita come una fedeltà, ma come una creazione continua che merita di rovesciare nel suo passaggio tutto ciò che le si può opporre. Si tratta, del resto, di una distinzione su cui spesso ebbero a insistere Hitler e Goebbels che riconobbero l’originalità del fascismo nell’essere stato il primo movimento che avesse combattuto marxismo e comunismo da un punto di vista non reazionario (per le affermazioni di Hitler e di Goebbels al riguardo, cfr. nolte, op. cit., pp. 455-436).

Sta in ciò la ragione della devozione indubbiamente sincera che Hitler mantenne sempre per Mussolini. Assai più che i tratti comuni importano però le differenze. In quello stesso libro sostenevo che il fascismo deve essere storicamente definito come la piena realizzazione e il completo scacco di quel socialismo rivoluzionario che ha accolto la critica idealistica del materialismo naturalistico e dello scientismo, senza supporre la reale posizione di Marx (o pensandola come una posizione contraddittoria di spirito rivoluzionario e di materialismo); e che la biografia di Mussolini è il migliore documento per lo studio dell’idea di rivoluzione totale sganciata dal materialismo marxista e connessa invece col clima di pensiero dominante in Europa nei primi decenni del Novecento (Il problema dell’ateismo, Il Mulino, Bologna, 1964, p. CLI ss).

La successiva biografia di De Felice, preparata in assoluta indipendenza dalle idee che avevo allora accennato, mi pare offrirne la conferma. Rispetto alla caratterizzazione del fascismo, tre mi sembrano essere i fatti essenziali su cui deve venir portata l’attenzione; 1) che fu fondato da colui che giustamente può essere considerato come l’iniziatore, avanti la prima guerra mondiale, del comunismo europeo; 2) che l’ascesa di Mussolini ha temporalmente coinciso con quella della cultura idealistica, che l’avvento del fascismo ha coinciso con l’epoca del completo successo di questa culture, che vi è una corrispondenza temporale tra i declini dell’uno e dell’altra, 3) che questa cultura idealistica italiana prende inizio da quella prima grande disputa sul marxismo teorico, 1895-1900, che segnò l’europeizzarsi della cultura italiana.

Non si può, insomma, intendere Mussolini al di fuori della “misteriosa vicinanza e lontananza insieme che lo collegava alla figura di Lenin, punto ben visto dal Nolte (Op. cit., p. 405 e passim), ma non sufficientemente approfondito. Il mistero della lontananza viene infatti tolto di mezzo quando si pensi a quella distinzione tra “il vivo e il morto in Marx” (4) che la cultura idealistica italiana aveva definito, che Mussolini aveva di fatto accettato, e Lenin, nella sua riaffermazione dell’unità inscindibile tra materialismo radicale e azione rivoluzionaria, rifiutato.

La vicinanza a Lenin è stata assai bene illustrata dal Nolte: “se per comunismo si intende l’ala intransigente staccatasi da quella riformistica, disposta alla collaborazione, del partito socialista, Mussolini può essere a ragione definito il primo e, da un certo punto di vista, l’unico comunista europeo del periodo, in quanto in tutti gli altri paesi europei la scissione suddetta avvenne soltanto per influenza del bolscevismo russo, formatesi, tanto nel 1902 quanto nel 1914, nei limiti di una situazione affatto diversa. In ogni caso, si può dire che Mussolini ponesse non solo le basi del comunismo italiano postbellico… egli fu anche il promotore dell’impotenza della socialdemocrazia in fieri, raccolta intorno a Turati, che fu forse la causa immediata della vittoria fascista. Il suo ‘volontarismo’, che a torto si è tentato di contrapporre alla sua ortodossia marxista, non è che l’espressione teoretica della sua intransigenza. Tale volontarismo, infatti, si rivolge polemicamente contro la teoria evoluzionistica dell’epoca, e costituisce l’esatto analogo della lotta condotta da Lenin contro la dottrina del ‘decorso spontaneo‘” (nolte, op. cit., pp. 268-69).

Dove è giusto parlare di analogia, non di ortodossia marxista. Il “volontarismo” di Mussolini, non è la “dialettica” di Lenin; è il rifiuto del materialismo marxista, in relazione alla generale critica allora corrente del materialismo naturalistico e del positivismo evoluzionista. Ma, ora, dobbiamo domandarci: che cosa diventa l’atteggiamento rivoluzionario — inteso nel suo senso più rigoroso, come sostituzione della politica alla religione nella liberazione dell’uomo — quando venga totalmente sganciato dal momento materialistico e dall’utopistico?

L’essenzialità del materialismo a quella che giustamente è stata detta “non nuova filosofia della prassi, ma nuova prassi della filosofia” di Lenin, autentico definitore su questo punto del significato del pensiero marxista, è, oggi, assai chiara.

Sotto un primo riguardo il momento materialistico significa la sconsacrazione dell’ordine che si deve abbattere; sotto il secondo assai più importante — che implica la conservazione, e non la semplice negazione, del pensiero utopistico nel pensiero rivoluzionario — è intrinseco alla finalità rivoluzionaria stessa, in quanto diretta all’instaurazione di una nuova idea dell’uomo, materialistica nel senso che è separata da ogni traccia del divino, in quanto il pensiero dell’uomo è praxis, attività sensitiva umana, pensiero espressivo e non rivelativo, che non è nulla oltre la sua espressione sensibile; al di fuori del nuovo e radicale materialismo non essendo pensabile lo stesso comunismo (per questa indissolubilità cfr. il mio libro Il problema dell’ateismo, Cit., p. 35 ss.).

Separato dal materialismo lo spirito rivoluzionario si converte in una specie di mistica dell’azione, in quel che si suoi dire con un termine diventato logoro perché sciupato nelle abitudini del parlare comune, “attivismo”; tensione verso un’azione che è voluta per sé, come semplice trasformazione della realtà, e non finalizzata a un ordine, con la conseguente retrocessione dei valori che, invece, di dar significato all’azione, sono pensati valere soltanto come strumenti che possono promuoverla.

Ma non basta: la logica che gli è intrinseca lo porta anche alla negazione della personalità degli altri, alla loro riduzione a oggetti; dato il conferimento del valore alla pura azione, gli altri soggetti cessano di essere fini in se stessi per diventare puri strumenti ed ostacoli. Questo disconoscimento è però altra cosa dal semplice disconoscimento morale. Nel caso del disconoscimento morale si tratta di un rifiuto pratico di eseguire quel che la legge morale comanda.

Nel caso, invece, dell’attivismo si tratta di una prospettiva totale per cui gli altri sono ridotti a oggetti, in modo che non ha più senso parlare di doveri morali nei loro riguardi. Come definire quest’attitudine? Io proporrei il termine di solipsismo, e personalmente sarei portato a credere che l’unico senso preciso che si possa dare alla nozione di solipsismo sia questo; insostenibile come posizione teoretica, il solipsismo è possibile come atteggiamento vissuto.

La totale spersonalizzazione che l’attivismo include porta a togliere alla realtà l’aspetto di sussistenza autonoma; sembra che essa non esista che nella mia azione, come ostacolo che proietto davanti a me per superarlo.

Sul termine si potrà discutere; ma è comunque certo che all’azione di Mussolini non si addicono la qualificazione di anarchica, perché resta sempre che l’anarchismo cerca l’abolizione del potere, e invece Mussolini la sua conquista, né quella di reazionaria, perché non si può rintracciare la tradizione che Mussolini abbia riaffermata e difesa; né, ovviamente, di giacobina e di comunista.

A me pare che partendo da una fenomenologia dell’attivismo diventino comprensibili quegli aspetti contraddittori che rendono così difficile, come De Felice ha giustamente notato, tratteggiare un ritratto di Mussolini (Cfr. Mussolini il fascista, I. La conquista del potere, Einaudi, Torino, 1965, p. 472).

Perfettamente De Felice ha parlato di un miscuglio di personalismo, di scetticismo, di diffidenza, di sicurezza in se medesimo e al tempo stesso di sfiducia nell’intrinseco valore di ogni atto, e, quindi, nella possibilità di dare all’azione un significato morale, un valore che non fosse provvisorio, strumentale, tattico.

Partiamo dal primo, dal personalismo. Bene il Cantimori lo ha delineato, nel 1935: “questo senso della potenza, questa volontà di predominio che lo fa identificarsi spontaneamente con la sua patria, questo fortissimo protagonismo politico, diventa, nei momenti della lotta più aspra per un’affermazione della propria volontà, consapevolezza e affermazione della propria individualità… e questa consapevolezza di sé, questo esser continuamente presente, cosciente della propria volontà e della propria individualità, continuerà sempre: la identificazione spontanea con il proprio popolo si articola sempre più attraverso tale consapevolezza, in ordine, in comando, in primato, in dominio, in compiacimento per la disciplina e obbedienza ottenute” (cfr. in de felice, Mussolini il fascista, cit., II, L’organizzazione dello Stato fascista, p. 358).

Per sé, l’identificazione con la causa del proprio popolo caratterizza ogni politico ed è da essa che questi trae la propria forza; ma in Mussolini si compie in una volontà di predominio, in un protagonismo politico che è consapevolezza e affermazione della propria personalità; che altro può significare questo se non un’identificazione che si opera a rovescio di quella dei grandi politici attraverso una specie di assorbimento per così dire, del popolo in sé?

Di qui quei caratteri che sconcertarono quegli uomini della vecchia generazione politica che furono in rapporto con lui: l’esclusivo e feroce culto di se medesimo, l’eccezionale energia volitiva, la nessuna discriminazione fra il bene e il male, il nessun indizio di senso del diritto.

Rispetto a cui è da aggiungere: se si potesse ridurre la personalità di Mussolini a questo semplice immoralismo, neppure si potrebbe intendere il suo successo. In realtà, nella disposizione attivistica abbiamo una singolare coincidenza di moralismo e di immoralismo. Moralismo, nel senso di autotrascendimento di sé nell’azione; immoralismo, nel disconoscimento della personalità morale degli altri.

Qui è anche la radice ultima dell’antiliberalismo fascista, se il liberalismo è caratterizzato dal rispetto dell’altrui persona. Si spiega pure il tratto, su cui particolarmente aveva insistito Gobetti, del suo tatticismo e trasformismo: l’assenza della finalità ultima dell’azione, gli concedeva infatti una disponibilità massima per ogni tatticismo e trasformismo ma al tempo stesso gli vietava di dare all’azione un valore che non fosse appunto provvisorio e tattico.

Di qui l’altra contraddizione per cui non poteva pensare se stesso che come creatore, mentre di fatto la sua azione non poteva esplicarsi che come distruttrice. Per la radicalità di questa azione distruttiva, pensiamo infatti al posto che gli verrà dato, tra qualche decennio, nei manuali di storia: c’era una realtà storica nuova, il Regno d’Italia, fondato nel 1861, e fu Mussolini colui che lo consunse e lo distrusse; sotto questo rapporto, fu veramente l’anti-Cavour.

Si intende anche l’osservazione acuta di Gramsci per cui Mussolini non poteva essere un “capo”; ciò, però, non già perché vi si debba vedere quel che Gramsci pensava, “il tipo concentrato del piccolo borghese italiano“, ma in ragione proprio della sua disposizione attivistica. Costretto da essa a trattare gli altri come forze, veniva a sua volta visto dagli altri come una forza di cui disporre.

Da ciò anche la continua minaccia di restare prigioniero delle forze con cui si alleava, e il continuo bisogno di bilanciare queste forze con altre; onde la sua continua politica di compromessi e di contrappesi, anche se si trattava di compromessi che non si davano per tali.

Renzo De Felice

Onde perfettamente De Felice ha scritto che “credendo così di essere l’arbitro di tutto, e non accorgendosi che, di compromesso in compromesso, il suo margine di autonomia si riduceva sempre più e che la logica delle cose, dei problemi di fondo rimasti senza soluzione, lo soffocava progressivamente, e lo riduceva a un piccolo Laocoonte che appariva forte solo perché poteva gonfiare i muscoli, ma era irrimediabilmente stretto in un groviglio di spire che lentamente lo avrebbero soffocato” (Mussolini il fascista, cit.. I, p. 475).

Si intende pure la sua sfiducia negli uomini, la sua incapacità di comunicazione umana e di amicizia, e quindi il ricorso al pessimismo di Machiavelli per sentire questa solitudine come forza; per questo riguardo il suo Preludio a Machiavelli, del 1924, è tra le pagine che meglio illuminano la sua personalità.

Né c’è difficoltà a intendere come potessero combinarsi in lui una straordinaria attitudine di parlare al popolo e di trascinarlo in quanto massa con l’incapacità di colloquiare cogli uomini in quanto singoli, e di giudicarli. Perciò ebbe su di lui tanta presa la lettura della Psicologia delle folle del Le Bon; gli rivelava i meccanismi che determinano il comportamento collettivo, lo istruiva nella tecnica che doveva usare nei suoi discorsi e nei suoi interventi (5).

Diventa pure chiara la sua incapacità di formare un’elite e di scegliere dei collaboratori veramente validi; perché questi uomini che accettavano di essere strumenti, per fare a loro volta di Mussolini il loro strumento, non potevano certo essere le coscienze più diritte. Questi non sono che esempi che ho addotto per proporre un tema: si può ravvisare, dal punto di vista tipologico, in Mussolini la personalità solipsista allo stato puro.

Con l’avvertenza, però, che non si intende con ciò delineare dei tratti psicologici o cercar di spiegare il fascismo con la psicologia di Mussolini. Sono tratti che dipendono in realtà dalla sua iniziale scelta per l’attitudine rivoluzionaria, pensata come contraddittoria col materialismo; dalla irrazionalizzazione, se si vuoi dir così, della posizione rivoluzionaria.

È a questo punto che deve esser posto il problema del rapporto tra il fascismo e la cultura dell’epoca. Bisogna però guardarsi da una troppo ristretta e accademica idea della cultura, e arrivare al comune discorso sulla superficialità e ignoranza di Mussolini; discorso che si traduce poi in quell’ordinario ritratto che lo rappresenta come un semplice demagogo, sia pure con qualità, in questo genere non comuni; o nell’altro che vi vede l’esemplare dell’avventuriero opportunista, pronto a ogni cambiamento, a seconda della possibilità di successo; di cui poi è specificazione quello del traditore o del transfuga, o rispetto al socialismo o all’interventismo democratico.

Certo, non poté incontrare i problemi culturali che da politico; e pensò contro certe idee che trovava incarnate in posizioni politiche, e aderì a certe vedute culturali piuttosto che ad altre, in relazione a questa polemica politica. Una volta che si è detto questo, si deve vedere quali pensatori abbia dovuto incontrare e domandarsi se abbia verificato nella pratica, e quindi coinvolto nel suo scacco, certe direzioni di pensiero. Il termine della sua polemica è chiaro: si tratta del socialismo riformista e della cultura che lo accompagnava; del marxismo ripensato nella cultura positivistica della fine ottocento, e diventato un consiglio di prudenza ai rivoluzionari (6).

Perciò “anch’egli fu detto e si disse volentieri ‘idealista’” perché “aperto come giovane che era alle correnti contemporanee, procurò ad infondere al socialismo una nuova anima, adoperando la teoria della violenza di Sorel, l’intuizione di Bergson, il prammatismo, il misticismo dell’azione, tutto il volontarismo che da più anni era nell’aria intellettuale e che pareva a molti, idealismo“.

È il noto giudizio di Croce (Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Laterza, Bari, 19427, p. 279), non inesatto, ma tuttavia generico, e che per questa genericità rischia di sviare.

Maggior significato si deve dare alla rievocazione singolarmente istruttiva, con cui lo stesso Mussolini illustrò nell’ottobre 1939 al De Begnac il processo che l’aveva portato più di vent’anni prima alla fondazione dei Fasci di combattimento: “Le guide spirituali erano rimaste indietro di mill’anni a noi che avevamo sofferto l’esperienza della lunga trincea. Croce non ci aveva detto in quaranta mesi una sola parola di speranza. Del Vecchio aveva raccolto in un libro per noi combattenti il meglio del suo nobile cuore, ma pochissimi erano culturalmente in grado di comprendere il suo discorso. Gli economisti riaprivano il nostro animo ad un qualche interesse alla vita. De Viti, De Marco, Einaudi, Ricci e, soprattutto, Pantaleoni e Pareto. Sorel sembrava appartenere ad altra età, ormai. Gentile preparava la strada a chi — come me — avesse desiderato camminare su di essa” (Y. de Begnac, Palazzo Venezia, Storia di un regime. Roma, 1959. p. 157).

Certamente, si tratta di una veduta retrospettiva: è difficile pensare che nei primi mesi del 1919 Mussolini abbia guardato a Gentile; anche se questi, particolarmente dopo Caporetto, avesse preso posizione come scrittore politico. Suggerisce però una veduta importante, anzitutto come indicazione dei limiti che si devono dare all’influenza di Sorel su Mussolini: al momento in cui il Mussolini “fascista” succedeva al Mussolini rivoluzionario, due dei protagonisti della disputa italiana sul marxismo teorico, Croce e Sorel, non gli parlavano più; mentre invece la sua veduta sulmomento storico si incontrava con quella di Gentile.

Giovanni Gentile

Ora, la veduta affermata dal Gentile scrittore politico non si può separare in alcun modo dalla sua filosofia; e questa a sua volta (pongo qui una tesi che non posso ora dimostrare con la precisione sufficiente, ma che tuttavia penso possa venir largamente accettata) deve venire storicamente vista come l’epilogo più rigoroso di quella disputa. Dobbiamo perciò passare qui a definire il senso dell’incontro di Gentile e di Mussolini.

Presenta certo degli aspetti singolari: Mussolini aveva provato interesse per il Marx rivoluzionario e per Nietzsche; e Gentile soltanto per il Marx filosofo, né vi è nella sua opera traccia di un’influenza di Nietzsche; come pure degli altri autori che possono aver esercitato un’influenza su Mussolini: Sorel, Pareto, Le Bon.

Genericamente possiamo dire che fu incontro per negazioni: per un verso l’attualismo gentiliano era travagliato da un’aspirazione verso l’azione, mentre per l’altro era del tutto impotente, nonché a formare, a modellare e a prospettare un movimento politico; di più, nel riguardo delle forme politiche esistenti, pronunziava le stesse negazioni che pure pronunziava il fascismo, Mentre il fascismo nel suo periodo di consolidamento aveva bisogno di una legittimazione culturale.

Facilmente si è portati da ciò al pensiero di un’illusione del filosofo, accortamente captata dal politico. In questo discorso la premessa è insufficiente e la conclusione inesatta. Osserviamo infatti che il modo in cui così Mussolini come Gentile possono venir detti eretici, rispetto al marxismo, è strettamente simile.

È giudizio ormai corrente che quel primo lavoro che fu dedicato, nel mondo intero, alla filosofia di Marx da Gentile (La filosofia di Marx, 1899) non è affatto un episodio marginale della sua opera. Si può infatti presentare l’attualismo come un marxismo dissodato dal materialismo. È a partire da questo punto che possiamo definire il senso dell’adesione di Gentile al fascismo.

È una posizione che deve venir vista come unica, perché non si può ascriverla a quella dei tanti fiancheggiatori di ogni tipo (è del tutto inesatta l’idea di un Gentile che aderisse al fascismo in nome degli ideali della vecchia destra storica), e meno che mai, si intende, a quella dell’intransigentismo diciannovista.

Fu egli l’unico a vedere in Mussolini non già una forza atta a servire o per il consolidamento dell’ordine o per un ordine nuovo costruito a partire dallo squadrismo, ma invece il solo uomo capace di compiere l’opera del Risorgimento. Credo che le parole che pronunziò dopo quell’incontro con Mussolini del novembre ’43, che decise la sua adesione alla repubblica sociale, “o l’Italia si salva con lui, o è perduta per parecchi secoli” debbano venir intese nel senso più letterale, come conferma ultima di questa sua interpretazione.

Anche quando tutto indicava che il fascismo stava per concludersi in una catastrofe, Gentile non poteva staccarsene: per una coerenza intellettuale, ancor prima che per l’impegno a restar fedele nella disgrazia alla causa che aveva seguito nel momento della fortuna. Per intendere la natura del suo consenso converrà prender le mosse dallo scritto dell’agosto 1927 su Origini e dottrina del fascismo.

La data è molto importante. Esso appare dopo che il fascismo aveva rotto definitivamente con il liberalismo prefascista e dopo che Croce non soltanto si era messo all’opposizione, ma dopo che aveva ragionato i motivi di questa nella Storia d’Italia dal 1871 al 1915, dello stesso anno. Il prime paragrafo si intitola “Le due anime del popolo italiano prima della guerra” e contiene un’interpretazione estremamente significativa dell’interventismo e della partecipazione dell’Italia alla prima guerra mondiale.

Alla vigilia e all’indomani della guerra l’animo non era concorde perché “c’erano nell’anima italiana due correnti affatto diverse, e quasi due anime irreducibili, che combattevano da quasi due decenni e si contrastavano il campo accanitamente, per riuscire a quella conciliazione che richiede sempre una guerra guerreggiata e una vittoria finale col trionfo d’uno degli avversari, che solo può conservare del vinto, quel che è conservabile“.

La partecipazione italiana alla prima guerra mondiale è sentita essenzialmente come rivoluzione; la guerra è lo strumento perché la parte risorgimentale possa vincere sulla parte non risorgimentale “…entrare nella guerra, gettare nel fuoco tutta la nazione, dei volenti e dei nolenti, non tanto per Trento e Trieste e la Dalmazia, e non certo per i vantaggi specifici, politici e militari, se non economici che queste annessioni avrebbero potuto arrecare… In guerra bisognava entrare per cementare una volta nel sangue questa Nazione formatasi più per fortuna che per valore dei suoi figli… Cementare la Nazione, come può fare soltanto la guerra, creando a tutti i cittadini un solo pensiero, un solo sentire, una stessa passione, una comune speranza…

Cementarla, questa Nazione, per farne una Nazione vera, reale, viva, capace di muoversi e di volere e farsi valere e pesare nel mondo, ed entrare insomma nella storia, con una sua personalità, con una sua fisionomia, con un suo carattere, con una nota sua originale, senza più vivere d’accatto sulle civiltà altrui, e all’ombra dei grandi popoli fattori della storia. Crearla dunque davvero questa Nazione, come soltanto è possibile che sorga ogni realtà spirituale: con uno sforzo attraverso il sacrifizio“.

Abbiamo qui il passaggio dall’impostazione democratica della prima guerra mondiale, come lotta per la libertà delle Nazioni, all’impostazione fascista (7), e l’insieme del saggio è estremamente interessante per far cogliere la rottura tra l’interventismo democratico e l’interventismo fascista; insomma, tra il fascismo e quello che successivamente prenderà nuova forma come partito d’azione.

Com’erano definite queste due Italie? “I neutralisti stavano per il tornaconto e gli interventisti per una ragione morale, non tangibile, non palpabile, non pesabile sulla bilancia“. La prima parte era per Gentile quella dell’Italia giolittiana, la seconda del l’Italia mazziniana; ed è appunto nella continuazione di Mazzini che avverrebbe per Gentile il suo incontro con Mussolini: “Mazziniano (quest’ultimo) di quella tempra schietta che il mazzinianismo trovò nella sua Romagna, egli aveva già superato, prima per istinto e poi per riflessione, attraverso una giovinezza travagliata e pensosa, ricca di esperienza e di meditazione, nutrita della più recente cultura italiana, tutta l’ideologia socialista“.

Particolarmente importante è quanto vi è detto sulla separazione tra nazionalismo e fascismo: “Sta in ciò che per il nazionalismo la nazione è un’entità che trascende la volontà e la personalità dell’individuo, perché concepita come obiettivamente esistente, indipendentemente dalla coscienza dei singoli; esistente anche se questi non lavorino a farla esistere, a crearla. […] L’individuo nel nazionalismo diventa un risultato, qualche cosa che ha nello stato il suo antecedente che lo limita sopprimendone la libertà, o condannandolo sopra un terreno nel quale egli nasce, deve vivere e deve morire; mentre per il fascismo lo stato e l’individuo si immedesimano, o meglio sono termini inseparabili di una sintesi necessaria“.

In breve, quel che caratterizza per Gentile il fascismo, e lo differenzia dal nazionalismo, è il rifiuto di quel carattere naturalistico da cui proverrebbero gli aspetti retrivi, illiberali, conservatori. Abbiamo in una certa maniera un Gentile che si inserisce nello sviluppo del fascismo per contenderlo a conservatori, nazionalisti e tradizionalisti (8).

Lo stesse atteggiamento viene da lui assunto nei riguardi della monarchia: nel nazionalismo essa era un presupposto in quanto faceva parte del processo di formazione storica della nazione italiana. E viceversa per Gentile “tutto che pareva già in essere, e quasi un legato ereditario, si trasfigura in una nostra personale conquista, che svanirebbe appena ce ne distraessimo, noi che ne siamo gli autori“.

Sarebbe totalmente errato ridurre questo saggio a un puro scritto di circostanza, e ciò perché la visione del Risorgimento che Gentile vi afferma è in continuità diretta con quella già delineata addirittura nei suoi primissimi scritti; espressa, già nella prefazione del Rosmini e Gioberti (1898), e il Rosmini e Gioberti e La filosofia di Marx sono due libri inseparabili (9).

Gentile era ossessionato dal termine di “riforma” al modo in cui Marx lo era stato da quello di rivoluzione. Riforma della dialettica, riforma della scuola; riforma dello stato; ecc.: ma il termine di riforma significava per lui, non già rettificazione di un ordine costituito, ma nuova forma attraverso cui il passato deve essere restituito a nuova vita; è più prossimo cioè a quello di rivoluzione che a quello di riforma ordinariamente inteso.

E la sua filosofia è veramente inscindibile dall’idea di una riforma religioso-politica, continuazione in certo senso di quella riforma cattolica giobertiana in cui già si trovano tutti i motivi del modernismo; ne’ ha senso per lui come puro sistema speculativo, indipendentemente da questa riforma.

Egli è l’ultimo dei riformatori religioso-politici italiani, in una linea che va da Bruno a Gioberti; né del resto egli presentò la sua filosofia in altro modo: e in certo senso può anche venir detto l’ultimo dei risorgimentali. Gentile aveva curiosamente ritrovato la figura del filosofo politico nel corso dei suoi studi giovanili su Rosmini e Gioberti e su Marx. Studi, il cui senso complessivo può essere espresso nella formula che segue: il marxismo separato dal materialismo e il giobertismo separato dal platonismo, e perciò immanentizzato, si identificano.

Da ciò era arrivate a un’interpretazione del Risorgimento che si ricollegava a quella di Gioberti nella forma di continuazione e di approfondimento; di un giobertismo particolare, però; per cui l’opposizione a Mazzini era tolta, e si poteva affermare l’attualità di Mazzini dopo Marx. Col che si stabiliva pure una curiosa analogia tra Gentile e Marx; si può dire che come Marx pensa alla rivoluzione francese come rivoluzione compiuta; così Gentile pensa al Risorgimento italiano come risorgimento incompiuto.

Dal mazzinianesimo-giobertismo di Gentile, e quindi dall’unità di religione e di politica, seguiva quella serie di negazioni che coinvolgeva, oltre l’intero sistema giolittiano, anche lo stesso nazionalismo. Procedendo per accenni, è importante osservare quale scossa avesse rappresentato per lui la prima guerra mondiale, e particolarmente Caporetto che gli parve segnare il crollo dell’Italia post-risorgimentale, e quel che seguì, in cui egli ravvisò la rinascita dello spirito risorgimentale.

Ebbe allora l’impressione che le cose venissero a lui, confermando la sua veduta filosofica e permettendone la realizzazione, onde i vari scritti politici del periodo tra Caporetto e la marcia su Roma — gli articoli raccolti in Guerra e Fede e Dopo la vittoria, i saggi su Mazzini e su Gioberti, i Discorsi di religione, in cui l’accento cade sull’impostazione di una politica religiosa. Possiamo così renderci conto della necessità dell’incontro.

Era naturale che Gentile pensasse che come egli, a partire dalla critica teorica di Marx aveva incontrato il pensiero risorgimentale, lo stesso dovesse avvenire per Mussolini a partire dalla critica politico-pratica del marxismo (10).  Si vede dunque come, in sede di un giudizio storico e non moralistico e polemico sul fascismo, la questione delle illusioni di cui Gentile sarebbe stato vittima, non debba esser posta. E che il fascismo fu un fenomeno assai più complesso di come viene presentato dalla consueta pubblicistica, se portò ad aderirvi, per un obbligo di coerenza intellettuale, il maggior filosofo italiano del tempo.

D’altra parte non può non essere senza significato il fatto che le stesse critiche fondamentali mosse contro l’attualismo, di attivismo e di solipsismo, servano come criteri storici essenziali per intendere la natura del fascismo. Mi si può domandare: se è facile ricostruire l’idea che Gentile si formò di Mussolini, quale fu quella che Mussolini si formò di Gentile?

È un tema, questo, che non è stato ancora trattato da alcuno, che io sappia. Certamente si può pensare che egli non abbia troppo gradito di venir considerato come lo strumento di una riforma religioso-politica pensata da un altro, e di cui neppur bene afferrava i termini; e ho già detto della sua incapacità di vere amicizie.

Tuttavia, sentì che non poteva metterlo completamente da parte; così ricorse a lui per la stesura della Dottrina del Fascismo; così mi è sembrato molto significativo quell’accenno nella conversazione col De Begnac, avvenuta in un momento in cui Gentile non era certo troppo in auge. Se è vero quanto finora ho detto, non poteva essere che così.

* * *

Possiamo ora tentare una definizione complessiva? Il fascismo, secondo quel che si è detto, sarebbe la posizione rivoluzionaria, di origine marxista, quale doveva diventare dopo aver accettato i risultati di quella critica del marxismo teorico che fu svolta in Italia negli ultimi anni del secolo scorso e di cui l’attualismo può essere considerato la conclusione filosofica.

Naturalmente, questa definizione non concerne che la sua forma, che, per sé, non è sufficiente a spiegare la sua realizzazione pratica. Questa, ovviamente, non si sarebbe data senza una serie di occasioni storiche: la guerra mondiale, il modo in cui avvenne l’intervento, Caporetto, la trasfigurazione della battaglia di Vittorio Veneto nel mito della vittoria mutilata, la rivoluzione russa, il biennio rosso, ecc.

Come si inserisce in quella che prima si è chiamata l’epoca della secolarizzazione? Sotto questo riguardo deve essere definito come alternativa al leninismo (al leninismo, si badi, non allo stalinismo; anche se lo stalinismo e il richiudersi della Russia in se stessa potevano sembrar confermare la validità della soluzione fascista).

Ma il termine alternativa (“o loro o noi“) può essere inteso in due sensi: quello di opposizione assoluta, o quello di inveramento, in una forma adeguata a un paese di civiltà e di cultura superiori alla russa; non dell’Italia soltanto, anzi, se Mussolini poté pensare, intorno al 1930, a una prossima fascistizzazione del mondo.

A mio giudizio, è in questo secondo senso che Mussolini pensò al fascismo; e qui sta la differenza tra fascismo e nazismo. Intorno al 1920, due uomini si contendevano nel mondo la pretesa di incarnare la vera figura del rivoluzionario, Lenin e Mussolini. E si deve riconoscere che in questa pretesa Mussolini fu veramente sincero.

Rivoluzione fallita, dunque, che trovò la sua giustificazione storica, nel senso di condizione della sua possibilità, nel fatto che il marxleninismo non ha potuto realizzarsi come rivoluzione mondiale, ma ha dovuto arrestarsi davanti alla realtà delle nazioni.

Il constatare però che il fascismo sia fallito come rivoluzione, non equivale a dire che debba esser considerato come fenomeno reazionario; ne’ a giustificare i giudizi secondo cui Mussolini avrebbe deliberatamente ingannato sin dagli inizi, servendosi come copertura di una fraseologia rivoluzionaria.

Ma la considerazione dell’esito non può servire come criterio per la definizione dell’inizio. Chi, ad es., dice che il comunismo è fallito perché ha portato a una “nuova classe”, più oppressiva di ogni altra, non vuoi certamente dire con questo che il comunismo sia sorto in un’intenzione reazionaria.

Perciò, se è inesatto parlare di fascismi, altrettanto lo è il giudizio che la loro catastrofe coinvolga quella degli ideali tradizionali in cui la vecchia Europa era cresciuta; giudizio, il secondo, carico delle più gravi conseguenze pratiche.

Quel che, a mio modo di vedere, il crollo del fascismo propriamente detto coinvolge, è la linea dei riformatori religioso-politici italiani, linea unitaria che è insieme antiprotestante e in posizione eretica rispetto al cattolicesimo; che nell’ultimo suo atto giunge, con Gentile, al tentativo di inveramento idealistico del marxismo.

Al solito, si risponderà che nessuno pretende realmente affermare che la caduta del fascismo coincida con il crollo degli ideali tradizionali; ma questo significa soltanto che nessuno ha potuto seriamente dimostrare che l’affermazione di tali ideali sia legata direttamente alla politica fascista; non che nella pubblicistica corrente, ad alto o a basso livello, non si ragioni come se l’epoca nuova, affermatasi dopo la sua caduta, non importi anche tale crollo; nel linguaggio del nuovo mestiere di demolitori di tabù, il loro assertore è sempre considerato come un fascista più o meno consapevole, o quasi sempre inconscio; e “fascismo” è fatto sinonimo di “repressività”.

Non vorrò certo accumunare a simili personaggi uno studioso della serietà del Nolte, e sono ben certo che il suo intendimento è tutt’altro, ma è un fatto che la formula di “resistenza contro la trascendenza” facilmente si cangia a livello inferiore, in quella di “spirito di repressività“.

Per il significato di quanto ho detto, valga un esempio. Comunemente si pensa che il fascismo abbia trovato un sostegno valido in quella parte del mondo cattolico che più era avversa al modernismo; e in realtà, si può ben ammettere che un’illusione vi fu, in molti dei suoi componenti; obbedienti a quella visione cattolica dell'”anti-moderno” che coinvolgeva in una condanna globale tutti gli aspetti della modernità, e oltrepassava in ciò la critica del modernismo, e che effettivamente era prevalente tra il ’20 e il ’30 (come dimenticare che diede anche il titolo a un’opera di Maritain?): per loro il fascismo combatteva le grandi eresie moderne, il liberalismo e il socialismo, ed era destinato ad esaurirsi in questa lotta, lasciando lo spazio aperto a una restaurazione cattolica.

Se questo è vero, occorre però aggiungere che si trattò, per costoro, di un’illusione; in illusioni rispetto al fascismo caddero troppi (si pensi a Croce per i primi anni), sicché una storia completa del fascismo sarebbe in gran parte la loro storia. Di ciò la spiegazione è del resto facile: quell’assenza di contenuto, come finalità ultima che abbiamo visto esser legata al tatticismo di Mussolini, spiega come quasi nessuna figura di rilievo della storia italiana del nostro secolo non si sia, per un momento almeno, illusa su di lui (anche Salvemini e Gramsci, al tempo dell’intervento!).

Si è voluto qui mostrare come invece l’adesione di Gentile, che, sotto il riguardo religioso, può essere considerato come il più coerente dei modernisti – in polemica con altri modernisti per questa sua coerenza (ho cercato di definire questo punto nel mio saggio Gentile e la poligonia giobertiana, cit.) – sia stata intellettualmente obbligata.

È per un singolare travolgimento che si pensa oggi come interiormente obbligata l’adesione dei tradizionalisti, di qualsiasi parte, e invece scusabile perché motivata da illusioni, quella degli assertori dello spirito di modernità. E’ proprio contro quest’idea, solidificatasi ormai come abitudine mentale, che il presente discorso è diretto.

Alla base di questo travolgimento sta l’idea che novità sia sempre sinonimo di positività. Idea, se ben si osserva, che è intrinseca all’epoca della secolarizzazione, perché questa conferisce un significato magico, di parola-forza al termine di rivoluzione: oggi quasi sempre come perfettamente osserva il Monnerot “la parola ‘rivoluzione’ è presa en bonne part; quando non lo sarà più, avremo cangiato d’epoca” (J. Munnerot, Sociologie de la Rèvolution. Fayard, Paris 1969, pp. 7-8).

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NOTE

(1) V. pp. 724-731, e ivi i giudizi: “Esattamente come per Kant, Hegel e Marx; l’oggetto di Max Weber è dunque la società borghese nel quadro del processo storico universale. Egli libera pero la sua analisi da alcune gravi premesse dogmatiche della concezione marxiana (p. 726) “di conseguenza la citazione delle grandi rivoluzioni europee, ivi compresa la rivoluzione francese, ha nella sua bocca un accento pienamente positivo” (p. 729), che sembrano pure esprimere la direzione filosofica e politica del pensiero del Nolte.

(2) Come esempio di associazione al nazismo si può vedere il poco conosciuto, ma assai intelligente libretto di Henri lemaìtre, Les fascismes dans l’histotre, Parigi, 1959, che vi arriva appunto ‘.i partire dalla giusta separazione dal nazionalismo. Il parere opposto è invece generalmente sostenuto dagli studiosi che partono dallo studio del fenomeno del. totalitarismo: così per la arehdt, Le origini del totalitarismo, trad. it., Milano, 1967, p. 357, almeno sino al 1938 il fascismo non sarebbe stato un regime totalitario, ma una comune dittatura nazionalistica, nata dalle difficoltà della democrazia pluripartitica; è da vedere anche, nello stesso senso, il libro del P. G. fessard S. J., De l’actualité historique, Parigi, 1960, t. I, che trattando dell’antitesi e insieme della parentela tra comunismo e nazismo, in relazione al passo hegeliano sul padrone e sullo schiavo, vorrebbe riservare il termine totalitarismo al comunismo e al nazismo, collocando anche lui il fascismo tra le comuni dittature autoritarie. La verità è che il fascismo occupa, come si vedrà, un posto a sé, e non può venire assimilato né alle dittature nazionaliste, né al nazismo.

(3) Per la detta definizione della separazione tra fascismo e nazionalismo cfr. lemaìtre, op. cit., pp. 25-26. È curioso come il Lemaitre, senza dar l’apparenza di saperlo, e muovendo dalla pura considerazione dei caratteri storici, ritrovi la separazione tra nazionalismo e fascismo esattamente nei termini che già aveva indicato Gentile.

(4) Non è certo senza significato che Mussolini abbia intitolato Ciò che v’ha di viro e di morto nel marxismo la sua conferenza tenuta a Cesena il 1° maggio 1911, in cui si trovano i fondamenti teorici di quella frazione rivoluzionaria dei partito socialista, che egli portò alla vittoria nel Congresso nazionale di Reggio Emilia (luglio 1912), parafrasando il titolo della monografia crociana del 1906 Ciò che c’è di vivo e di morto nella filosofa di Hegel.

(5) Parlando appunto dell’influenza del Le Bon, de felice, Mussolini il fascista, cit., II, p. 369, osserva giustamente come, contro l’opinione corrente, un esame attento degli scritti e dei discorsi mussoliniani dimstrerebbe come in essi quasi nulla fosse lasciato all’improvvisazione e come i suoi interventi rispondessero a una tecnica attentamente studiata.

(6) Interessante a questo riguardo la polemica, già alla vigilia del Congresso di Reggio Emilia, di Claudio Treves contro “l’idealismo rivoluzionario”, perché mette bene in luce la posizione contro cui Mussolini si batteva; cfr. de felice, Mussolini il rivoluzionario, Torino, 1965, pp. 116-117.

(7) Trattando dell’impostazione mussoliniana del mito della guerra rivoluzionaria, il de felice osserva perfettamente: “Parafrasando e completando una nota affermazione del Croce, se la parola d’ordine era per i nazionalisti ‘per la guerra e non per l’Italia’ e per i repubblicani e per i bissolatiani era ‘per la democrazia e non per l’Italia’, per Mussolini la parola d’ordine era ‘per la rivoluzione e non per l’Italia’” (Mussolini il rivoluzionario, Torino, 1965, p. 284). Ma quale poteva essere il contenuto di questa rivoluzione? Non si insisterà mai abbastanza sul fatto che “il concetto di classe” e l’idea della sua funzione rivoluzionaria erano stati scoperti da Marx attraverso un processo puramente filosofico; anche se poi aveva inteso accertarli nell’esperienza storica. Vi è una necessità nelle essenze di pensiero, e una volta abbandonata la filosofia di Marx, Mussolini doveva anche abbandonare la tesi della funzione rivoluzionaria della classe proletaria. Questo avvenne immediatamente dopo Caporetto. Il De Felice ha mostrato bene come dati da quel momento “il suo progressivo allontanarsi dai socialismo, il suo ‘superarlo’ […] nel trincerismo e nella formula di una nuova società dei combattenti e dei produttori […]. Persa irrimediabilmente così la possibilità di agire sulla massa proletaria, l’unica forza per realizzare una politica nuova erano i trinceristi, i combattenti(ivi, p. 394). Partito così dalla “rivoluzione”, Mussolini incontrava “l’Italia” attraverso il combattentismo. Partendo dal punto di vista esattamente opposto — dall’Italia e dal primato filosofico che essa, a suo giudizio, aveva raggiunto — Gentile incontrava egli pure rivoluzione e combattentismo.

(8) Il costante attrito tra Mussolini e il nazionalismo è ben lumeggiato nei volumi del De Felice: anche se, naturalmente, Mussolini non poté mai fare a meno dell’appoggio nazionalista. Per la posizione di Gentile, è molto importante anche il suo discorso di Firenze su La tradizione italiane: (25 aprile 1936) diretto contro le due retoriche della Roma imperiale e della Roma cristiana; e se l’accento batte soprattutto contro la “nuova incarnazione dei vecchio guelfismo“, successiva alla Conciliazione, l’argomentazione è svolta però in nome di quel concetto di tradizione a partire dal quale nel dianzi ricordato Origini e Dottrina, aveva criticato il nazionalismo.

(9) Mi permetto rinviare ad alcuni miei scritti gentiliani: Appunti sul primo Gentile e la genesi dell’attualismo, in Giornale critico della Filosofia italiana; 1964; L’idea di Risorgimento come categoria filosofica in G. G., ivi, 1968; Gentile e la poligonia giobertiana, ivi, 1969.

(10) H. S. harris, The social philosophy of Giovanni Gentile, University of Illinois press, Urbana, 1960, che pure intende escludere un rapporto di collegamento necessario tra l’attualismo e il fascismo, osserva molto giustamente a proposito dell’atteggiamento di Gentile che “egli non era semplicemente fedele alla nazione come a un’entità puramente ideale. Egli era fedele a Mussolini in persona…. In termini hegeliani Gentile era certo che il Weltgeist lo possedesse e parlasse attraverso di lui” (p. 219), e che ciò spiega come dovesse continuare nella sua fedeltà al “regime” nonostante riconoscesse che il Partito faceva degli errori. Questa singolare attitudine diventa comprensibile se è vero quel che ho detto: Mussolini era per lui l’Uomo, l'”individuo cosmico” attraverso cui la sua riforma religioso-politica doveva operarsi.