Quaresima. Qual è il vero cuore di Cl

Il Sabato n.8

25 febbraio 1989

Tutti parlano di Comunione e liberazione. Ma il più delle volte i termini con cui se ne parla sono molto lontani dalla realtà di questo movimento. Perciò ci è sembrato giusto offrire ai lettori, in questo periodo verso la Pasqua, tre testi di don Giussani. Attraverso la lettura di queste pagine vorremmo suggerire da dove nasce e dove tende la vita di CI. In successione si inizia da una lettera inviata da don Giussani agli amici della Fraternità in occasione dell’Avvento ’88. Segue la trascrizione di una conversazione sulla Quaresima del 1973- Infine pubblichiamo la lettera che lo stesso don Giussani ha spedito alla Fraternità nel febbraio di quest’anno

IL METODO DELL’UNITA’

Lettera di don Giussani agli amici della Fraternità, dicembre 1988

CARISSIMI fratelli,

 la soglia dell’Avvento rilancia la storia del grande sacramento della Sua incarnazione; il Mistero si è «circoscritto in un volto umano». Qui sta tutto lo stupore, l’onore e la responsabilità della nostra fede.

È in questo la ragione unica della nostra fraternità. Ognuno di noi infatti potrebbe seguire il Signore e la sua Chiesa come crede opportuno, appoggiandosi come vuole, scegliendo cioè luoghi secondo il suo sentire o secondo le sue opinioni. Invece noi ci siamo messi insieme perché, attraverso la sequela obbediente all’incontro che è avvenuto tra noi, il Signore ci ha fatto intravvedere un’intensità e gioia maggiori nel vederLo e nel seguirLo.

L’Avvento ci trova insieme perché da un ascolto umile e da una fedele sequela noi siamo persuasi che proviene un cammino cristiano più vero, secondo l’esempio del Verbo fatto «obbediente» — e secondo l’esempio degli ordini religiosi nella storia della Chiesa.

La nostra unità non dà quindi alcun obbligo, non è un dovere: essa è semplicemente un metodo, perché la carità di Cristo sia più semplice, sicura, ardente, intera e continua.

Quante vicende ha attraversato il movimento in questi ultimi sei mesi! E quante vicende personali! E quanti pensieri, opinioni, reazioni, impeti ed incertezze possono essere sorti nel nostro cuore. Ma ciò che importa è riprendere più concretamente e generosamente l’umile sequela alla unità che ci guida, ci invita e ci decide. Essa può ben sbagliare:

– per questo dobbiamo pregare che essa sia più protesa nella invocazione dello Spirito e della Madonna e nell’attenzione all’insegnamento e alle direttive del Magistero;

– per questo dobbiamo sempre intervenire positivamente, con pazienza. Ma proprio per quanto abbiamo detto, non sarebbe mai conveniente a noi scegliere di staccarci per affermare ultimamente nostre posizioni personali o di gruppo: è in una sequela alla compagnia dataci dal Signore il metodo più utile per imparare lo Spirito e l’obbedienza al mistero della Chiesa!

Riprendiamo il cammino, allora, con una maturità più grande, cioè con una più grande consapevolezza, umiltà e amore fedele.

Mai la nostra compagnia è stata una fioritura così impressionante di creazioni in cui «la gioia dell’amore a Cristo si rende sperimentabile nell’amore ai fratelli»: dalla generosità del «mattone», ai tentativi di creare grandi opere per malati e anziani, dalle cooperative per handicappati a quelle per il sostegno e la compagnia ai bisognosi, dalle famiglie per l’accoglienza alla grande accoglienza della gente di tutto il mondo per amore del loro Destino, Cristo, come sono tutte le nostre missioni.

Grazie di cuore, fratelli.

Perdonatemi ciò di cui non so esservi esempio, e vi sono eternamente riconoscente per l’esempio che a me voi tutti siete.

Auguri di Buon Natale, a voi, alle vostre famiglie, ai vostri gruppi.

Affezionatissimo

don Luigi Giussani

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TESTIMONIANZA SULLA QUARESIMA

Appunti presi nel corso di una conversazione con don Giussani

VIENE il tempo in cui la parola, il discorso cristiano deve nascere dal nostro personale guardare a Gesù Cristo. È infatti Gesù Cristo la Parola che sta in capo alla meditazione quaresimale.

Se il tema dell’Avvento è stato quello della attesa globale, se il tempo del Natale è stato l’annuncio della salvezza che è venuta ed è cominciata a manifestarsi, la liturgia della Quaresima è il sovrano affermarsi di questa salvezza avvenuta, Gesù Cristo. Gesù Cristo che domina l’uomo, che domina la natura, il cosmo, il mondo e tutta quanta la sua storia, Gesù Cristo nei contorni ormai precisi della sua maturità, nella definizione ormai chiara della sua missione, nel suo volto ormai inconfondibile, presente fra tutte le cose umane. La figura matura di Cristo, questo uomo nuovo, si palesa secondo tutta la forza della sua novità. Una misura nuova è entrata nel mondo, una proposta nuova è entrata nella vita, una misura e proposta così nuove che tutto il gioco della vita sta nell’accettare questa misura nuova oppure nell’affondarsi schiavi della vecchiaia.

Ma la misura del mistero di Dio è una persona, è un uomo maturo, è una personalità precisa, che si aggira come presenza che non si può sfuggire tra le nostre amicizie, tra le nostre case, dentro i nostri ambienti di lavoro e di interesse, che affronta personalmente noi stessi, che ci affronta personalmente. Tutta la fede è qui: tutta la fede è nella faccia che assumiamo, è nello sguardo che portiamo di fronte a questa persona, nella reazione che abbiamo a questa presenza.

La liturgia quaresimale illumina questa presenza, l’imponenza della sua proposta, la concretezza della sua figura attraverso i Vangeli. Quello della Samaritana: — quest’uomo che legge veramente fino in fondo per cui nulla gli sfugge, nulla si può sottrarre, per cui veramente bisogna andare fino in fondo, non si può stare a metà —; quello di Abramo: «Se ascolterete la mia parola veramente allora sarete miei discepoli»: meno di questo è la misura della menzogna —; quello del cieco dalla nascita guarito e Lazzaro resuscitato da morte: la potenza con cui governa le cose e il tempo.

E il bambino diventato grande, è l’accento dell’Epifania che si impone per le strade, che contesta, che si oppone a quell’espressione sintetica dell’affermarsi umano che è la mentalità e il potere comune.

Questo è il primo spunto: domandiamoci se ci troviamo di fronte a questa figura, a questa realtà, a questa persona, se questo Tu è in noi, se questo Tu invade tutta la nostra personalità, se questo Tu va fino in fondo come direzione, come intendimento, volontà, desiderio, amore, se la nostra vita è questo amore.

Altrimenti poggiamo sulla carne e «ogni carne è come erba, e ogni sua gloria è come fiore d’erba; seccò l’erba e il fiore cadde, ma la parola del Signore rimane in eterno» (I Pietro 1, 24). Questa parola non è un discorso, è una persona reale, un uomo, è Gesù Cristo (I Pietro 2, 6-8).

Ridestiamo dunque la coscienza di questa presenza dalla profondità di nebbia, di misconoscenza, di discordanza enormi. Ricollochiamoci di fronte a Colui al quale la nostra vita è risposta, che è il fondamento, il significato della nostra responsabilità.

Dobbiamo riprendere subito nelle mani questo Tu la cui presenza i Vangeli della Quaresima rendono al nostro occhio interiore, alla nostra immaginazione più facile da riconoscere: questo miracolo della nostra vita. Il miracolo di questa presenza che agli altri non è dato di riconoscere come propria, talmente propria da definire il significato stesso, la sostanza stessa della vita, da diventare il proprio nome (Romani 8, 28-30).

Questo Tu e questa presenza significano un cambiamento della nostra vita. Per questo la Quaresima è il tempo della conversione, non più dell’attesa ultima e vaga, non più di una gioia senza responsabilità per l’annuncio appena dato, l’ammirazione per il primo manifestarsi. Di fronte a questo manifestarsi maturo, forte — che dice lo scopo per cui è venuto («prima che Abramo fosse, Io sono»), di fronte a questa presenza ormai matura che non cela più gli scopi per cui è venuta: il possesso di noi — noi dobbiamo una risposta.

Il primo fondamentale cambiamento che la Quaresima deve portare, che la coscienza rinnovata di questo Tu deve produrre nella nostra vita, è che sia una vita di fede, che sia giusta, cioè che viva della fede.

Il tempo di Dio arricchirà così il tempo che passa, il tempo che diventa tempo della fede arricchirà così la nostra anima e la conforterà, la renderà sempre più forte, la consolerà, la renderà sempre più piena, sempre più capace di gioia.

«Quelli che ha chiamato li ha pure giustificati, e quelli che ha giustificato li ha altresì glorificati» (Romani 8, 30). Insomma è un cambiamento profondo, radicale, è la santità della vita.

E il tempo del cambiamento del criterio di valore, il tempo della penitenza. Tutti i miracoli di Quaresima sono stati ietti per cambiare la gente. Il miracolo del fatto che Gesù Cristo si è rivelato nella sua personalità matura, tanto da proporsi e da attirare la nostra personalità matura, è perché esso ci possa invadere e trasformare in Lui.

Questo è il miracolo per cui gli altri possono glorificare il Signore, questo è il miracolo per cui la gente capisce che Dio ci ha visitati, ci visita: la nostra trasformazione, il nostro cambiamento.

Un cambiamento in noi genera un luogo. Cristo, diventato adulto, questa novità di vita, ha creato un luogo nuovo, una struttura nuova. E nello stesso tempo questa struttura nuova che il nostro cambiamento produce diventa a sua volta ciò che l’assicura, diventa il luogo dello Spi­rito, diventa l’oggettivarsi della forza dello Spirito, come ha fatto il Signore con la sua Chiesa.

«Una volta purificate le vostre anime nell’obbedienza alla verità, in vista di un fraterno amore senza finzione, amatevi gli uni gli altri con un cuore puro, intensamente, essendo figli procreati non da seme corruttibile, ma da uno incorruttibile, per mezzo della Parola vivente e stabile di Dio» (I Pietro 1, 22-23).

Questa è ancora l’urgenza di vita che Dio ci rivolge: che il nostro cambiamento crei una struttura, perché questo solo lo indica come vero, questa creazione non da seme corruttibile, non da volontà umana, non da volontà di proprio programma, non da volontà di proprio rifugio, non da volontà di chi rifugge dalla situazione terrena in cui è stato collocato per crearsi una propria situazione terrena.

«Procreati non da seme corruttibile, ma da uno incorruttibile, dalla Parola che è Cristo». Dall’essere attratti, dall’aver sentito questa Parola, da questa Persona matura e forte che cambia le cose (vedi la Samaritana), che cambia il cieco dalla nascita, che cambia la morte in vita, che domina le cose perché «prima che Abramo fosse, Io sono». Io c’ero 2000 anni fa, sono qui ora a percuotere, a richiamare, a sostenere te, voglio te.

Ripensiamo al Gesù maturo, quello che ci pretende, quello dei Vangeli della Quaresima. Ripensiamo al cambiamento che ci impone, di cui la fede è il livello radicale, quello da cui nasce, e la speranza segna l’aspirazione come costanza, e la carità segna l’oggettivarsi, la creazione della struttura nuova, quella struttura che a tutti gli uomini, e per i primi a noi stessi, sia miracolo, perché il Signore ha visitato e visita il mondo attraverso noi. E ricordiamoci che l’aspetto più acuto di questa conversione nella carità è l’obbedienza nel suo aspetto profondo, vasto, che nasce come motivo non da seme corruttibile o da qualunque altra ragione, ma da seme incorruttibile. «Io pongo in Sion una pietra angolare, scelta, pregiata, e chi pone su di essa la sua fede non resterà deluso» (I Pietro 2, 6).

Perché la pietra angolare senza ciò che vi si appoggi, senza il nesso, resta pietra d’inciampo. Per noi Gesù Cristo può restare solo pietra d’inciampo se non diventa ciò in cui è riposta tutta la nostra vita.

È la maturità della nostra persona che corrisponde, risponde, aderisce alla ma­turità della Sua persona.

«Voi lo amate senza averlo visto, mentre esultate di una gioia ineffabile e gloriosa, sicuri come siete di conseguire il fine della vostra fede cioè la vostra salvezza» (I Pietro 1, 8-9).

Il tema vero è quello che riguarda la nostra persona. Tutto si rivolge e parte di lì: la maturità della nostra persona è l’adesione che diamo al Gesù Cristo della Quaresima.

Questo è il tempo in cui il Signore ci raccoglie, ci salva attraverso la sua Parola fatta carne, diventato uno di noi. L’anno liturgico è la storia della Parola di Dio nella nostra vita; la Quaresima è il tempo della Parola di Dio che cammina dentro il mondo.

Ma qual è la strada che si può percorrere con intelligenza e con cuore libero se non una strada di cui è chiara e certa la meta? Diversamente, sarebbe un luogo di violenza; questa è, infatti, la posizione dell’uomo che cerca di portare la salvezza nel mondo attraverso l’indagine, l’analisi, gli sforzi propri.

Al di fuori del tentativo violento di imporre una meta, non esiste strada chiara e certa se l’immagine ultima di essa non è un dono, una Grazia.

La strada cristiana non è in noi lucida e intelligente ed è, invece, così riottosa e resistente, oscura e quasi tetra, comunque insoddisfatta, perché la personalità non è dominata, investita, determinata nell’im­maginazione, nel giudizio e nel cuore dall’«ultimo giorno», dalla fine. L’amore alla Sua seconda venuta, l’amore alla fine del mondo, l’amore alla manifestazione finale, di cui parla san Paolo nell’ottavo capitolo della lettera ai Romani, ha un nome particolare: la speranza. La speranza cristiana è la certezza dell’esito finale, per cui tutta la vita è vissuta come amore ad un futuro certo.

«La fine di tutte le cose è prossima. Siate dunque sobri e prudenti per attendere alla preghiera» (I Pietro 4, 2).

La preghiera è la coscienza della realtà nella sua verità e la verità della realtà è Gesù Cristo, il Verbo fatto carne, nel quale tutte le cose consistono, perché «tutto il Padre gli ha dato in mano e, senza di Lui, nulla è stato fatto di ciò che è stato fatto».

La preghiera è dunque la coscienza della verità ultima delle cose, Gesù Cristo («Dio consistenza tenace delle cose») e la verità di Cristo sarà manifesta al Suo ritorno, quando tutto sarà compiuto.

«Questo mi preme dirvi, o fratelli, il tempo si fa breve, sicché d’ora in poi quelli che hanno moglie vivano come se non l’avessero, quelli che piangono come se non piangessero, quelli che sono contenti come se non lo fossero, quelli che comprano come se non possedessero, quelli che usano di questo mondo come se non ne godessero, perché non è questo il volto vero delle cose» (I Corinti 7, 32). Il sentimento della Sua venuta, del manifestarsi finale, deve diventare il contenuto determinante della nostra coscienza, perché al Suo ritorno noi saremo noi stessi, il «Suo ritorno» è il diventare «noi stessi».

Per questo i Santi aspiravano a vederLo, aspiravano alla morte, esattamente come ognuno di noi lega il suo umore buono o cattivo alla speranza di certi avvenimenti, perché la nostra coscienza è dominata dagli eventi cui aspiriamo, dalle immagini del futuro che ipotizziamo.

Il sintomo di quanto il desiderio della Sua venuta domini in noi è il senso del tempo che passa veloce, il sentimento dell’effimero, del provvisorio. Il senso della brevità del tempo, ilare, genera la vera uguaglianza di tutte le cose: essere sposati o non esserlo è lo stesso. Tutte le cose sono uguali perché la consistenza di esse non sta nella forma, ma nell’essere passo verso l’Avvenimento, verso il suo manifestarsi pieno. La consistenza di ogni cosa sta nella manifestazione finale. Non è, quindi, l’appiattimento o la monotonia, perché se uno è sposato e l’altro no, se uno piange e l’altro no, si tratta del disegno del Padre. Questa è la vera ugua­glianza: tutto consiste in ciò che verrà, e quindi nella proporzione ad esso di ciò che è.

Al senso ilare della brevità del tempo corrisponde, come corollario, l’assenza profonda di affanno, di ansia. L’ansia e l’affanno derivano dal paragonare, all’in­terno del proprio progetto, se stessi e il presente a ciò che occorre per realizzare il proprio piano e che bisogna reperire, trovare, realizzare. Caratteristica dell’affanno e dell’ansia è la facilità a paragonarsi con gli altri, dalla quale derivano: invidia, gelosia, risentimento.

Nel tempo quaresimale, il primo aspetto della conversione, il mea culpa, il primo gesto di contrizione devono essere il porci davanti al desiderio della Sua venuta finale. Nessun altro atteggiamento per sua natura si sprigiona in grido, nella preghiera purissima «vieni», come questo. Tant’è vero che la fine dell’Apocalisse dice: «Vieni», e la prima preghiera dei primi cristiani è: «Vieni».

Inoltre questo è l’unico atteggiamento che ci costringe ad abbandonare tutto perché, mentre la morte può mantenere ancora il sentimento di se stessi in un senso di paura, qui bisogna abbandonare se stessi; non si può diventare aspirazione totale «a Lui che viene», se non per amore. Perciò dimenticare tutto è avere presente tutto, ma trasformato nel desiderio di Lui.

Si tratta di una antropologia diversa, di una figura d’uomo radicalmente diversa anche se vive nella carne, come tutti gli altri uomini [cfr. II Corinti, 5: «Pur vivendo nella carne, vivo nella fede del Figlio di Dio, Gesù Cristo»).

Romani 8, 22-26: «Noi sappiamo infatti, che, fino ad ora, tutta quanta la natura sospira e soffre le doglie del parto, anzi, non solo essa, ma anche noi che abbiamo le primizie dello Spirito; noi pure sospiriamo in noi stessi, aspettando il compimento della adozione, cioè la glorificazione del nostro corpo. In speranza infatti siamo già stati salvati; ora, il vedere ciò che si spera non sarebbe più speranza. Ma se noi speriamo ciò che non vediamo, è per mezzo della pazienza che noi l’aspettiamo».

Quest’ultima parola — pazienza — riassume tutta l’etica, la descrizione del comportamento umano dal punto di vista del rapporto con la realtà, tempo e spazio, cose e persone, per uomini che vivano la fede nel Suo ritorno, e camminano «spe erecti».

Cosa vuol dire che il tempo è breve e ilare, cosa vuol dire che tutte le cose sono uguali perché la loro consistenza sta nella Sua venuta, se non che la vita è governata dalla pazienza?

La pazienza vera è piena di profonda ilarità e non si affanna: «Nella vostra pazienza possiederete la vostra vita». La pazienza, perciò, è l’impeto della tensione al Suo ritorno; come disse santa Caterina, nasce dal grido: «La verità è come la luce che tace quando è tempo di tacere e, tacendo, grida col grido della pazienza».

Come la Bibbia chiama la seconda venuta, la manifestazione finale del Signore?

La terminologia biblica parla del «compimento delle promesse». La storia ebraica è la storia della promessa, e la vita del popolo ebreo era la vita di una promessa. Questa singolare storia del popolo ebraico era il segno che Dio aveva creato per tutta la storia di tutta l’umanità, perché l’uomo era stato creato promessa e la storia dell’umanità è tutta la storia della promessa in cui siamo stati creati.

L’adempimento della promessa è Gesù Cristo, ed Egli rivelerà di essere la risposta alle promesse in modo intero, inequivocabile, manifesto, al Suo secondo ritorno.

Cristo, dunque, è l’adempimento della promessa, e questo significa che Cristo è tutto; e non «per modo di dire», perché non è, innanzitutto, una scelta nostra, ma l’annotazione di una realtà: «Io sono la pietra d’angolo». È un dato di fatto che E-gli sia la pietra angolare sulla quale, soltanto, si può costruire.

Allora, se la storia non è nient’altro che il misterioso svilupparsi di questa Presenza fino al Suo trionfo finale, la sensazione che dobbiamo avere del tempo umano cui partecipiamo è di essere presi da questo Fatto che, come torrente impetuoso, ci sta travolgendo e portando verso quel traguardo, — è di essere dentro Ciò che è già accaduto, è il tempo come memoria.

Questo vuol dire che nella prospera o nell’avversa fortuna, nel bene e nel male, nel dolore e nella gioia, uno incomincia a sentire che tutto sta compiendosi e «non est illis scandalum», non c’è più scandalo per loro. Possiamo avere una simile coscienza di noi solo all’interno del Fatto di Cristo, perciò all’interno della comunione con tutti coloro di cui Cristo è fatto.

Abbiamo detto che la Quaresima è la Parola di Dio che cammina nel mondo, cioè una spada che taglia: la Parola di Dio genera divisione e lotta. Questo è il significato della parola mortificazione come legge della vita cristiana. La Parola di Dio è per far vivere, eppure taglia e divide: morte e risurrezione.

La condizione della risurrezione è la morte, la condizione della vita è una sembianza di morte.

Che cosa si oppone alla Parola di Dio come spada che taglia? Tutto ciò che in noi tende a non essere convertito, a non essere di Cristo, ad essere autonomo.

Tale illusoria autonomia può derivare dall’orgoglio o dalla infedeltà, dalla non fede, dal non senso del mistero di Cristo. L’autonomia come amor proprio vorrebbe porre come misura delle azioni e, quindi, dei rapporti, la propria reazione (da cui le invidie, le gelosie, le risse, le recriminazioni, le insoddisfazioni), mentre il criterio deve essere l’Avvenimento di Cristo e l’aspettativa del Suo ritorno.

Ma la vera radice cattiva che si oppone alla spada che taglia e che non lascia che questa spada ci rompa nella contrizione, la vera radice è il non senso del mistero di Cristo: la storia e l’esistenza devono essere valutate in base al mistero di Cristo e non in base ai nostri tempi e ai nostri ritmi, cioè alle nostre pretese.

Se la memoria di Cristo e l’attesa della Sua venuta sono tutto in noi, allora in tutto, pur rimanendo opaco e greve (perché è nell’enigma che la fede vive), l’albore della trasfigurazione incomincia, incomincia il presentimento. Ciò che si incomincia a presentire nella Eucarestia, si comincia a presentire in tutto quello che nasce da noi.

Le cose sono ancora grevi e opache: non possiamo aspettarci dal loro cambiamento la nostra tranquillità, ma dal nostro cambiamento la loro trasfigurazione, secondo il misterioso disegno del Padre, nella pazienza. Se, ad un certo punto, il nostro sguardo e il nostro cuore cambiano davvero le cose, questo è un miracolo che Dio fa quando vuole: nella pazienza. Lo Spirito non ci lascerà mancare nulla di questa Sua testimonianza che, pure, è necessaria per la ragionevolezza della fede. Ma, quando una nostra azione diventa miracolo, cioè è guardata come parte del segno di Cristo, allora già ne siamo staccati, la vediamo piccola, non ne siamo più schiavi e la nostra felicità non dipende più dall’esito stesso. Cristo morì senza vedere le cose cambiare e, così, ognuno di noi è destinato a vivere la stessa traiettoria di Cristo e a morire come se non avesse concluso nulla. Se il Padre ha trattato il Maestro così, tratterà così anche i discepoli.

Le cose sono grevi, ma noi le portiamo, perché siamo fatti come Cristo, il gigante che percorre la strada.

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Questo testo è stato tratto da “Dalla liturgia vissuta. Una testimonianza. Appunti presi nel corso di conversazioni con don Luigi Giussani”, Jaca Book, 1973

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LA SEQUELA DI CRISTO

Lettera di don Giussani agli amici della Fraternità, febbraio 1989

CARISSIMI amici,

l’anniversario del riconoscimento ecclesiale della nostra Fraternità (11 febbraio 1982) porta con sé una notizia che rappresenta il culmine e il compimento della grazia che il Signore ci ha fatta di una fede che sia vita e missione.

Difatti l’8 dicembre ultimo scorso il Consiglio per i Laici, «sorretto dal parere favorevole espresso dal Santo Padre», ha riconosciuto l’Associazione laicale denominata Memores Domini confermandola in «Associazione ecclesiale privata universale, dotata di personalità giuridica nell’ordinamento canonico, dichiarandola a tutti gli effetti Associazione di Diritto Pontificio e stabilendo che da tutti sia riconosciuta come tale».

I Memores Domini spesso tra noi sono chiamati «Gruppo adulto». Sono coloro che il Signore ha chiamati ad una dedizione a Lui attraverso una particolare osservanza della verginità, della povertà e dell’obbedienza. Nella comunità cristiana tali gruppi svolgono l’alta funzione di richiamare come esempio vissuto la vita di tutta la stessa comunità all’ideale per cui si esiste e si agisce: è in funzione di Cristo che si fa famiglia, si lavora e si possiede, si convive con gli altri uomini. Quello dei Memores Domini rappresenta quindi il vertice del riconoscimento autorevole della nostra esperienza come Fraternità. Oltre la gratitudine al Signore e al Santo Padre dobbiamo sentire il dovere di pregare per questi nostri fratelli e di imitarne l’esempio.

Quello cui loro sono chiamati rappresenta il cuore di quello cui siamo chiamati tutti nella famiglia, nel lavoro, nella vita consociata. E tutti sappiamo quanto fragile sia l’uomo di fronte alla purità nell’amore; quanto sia difficile la libertà dalle cose che usiamo — senza nulla sottrarre alla appassionata attenzione nell’uso della realtà; quanto sia duro accettare le condizioni di una vita comunitaria adeguandosi lealmente a criteri e giudizi altrui. La rinnovata benevolente attenzione del Papa obbliga quindi tutti i gruppi della Fraternità ad invocare la Madonna perché l’unico grande Ideale della vita sia Cristo e la Sua gloria nel mondo che è la Chiesa: con tutte le nostre forze, qualsiasi vocazione abbiamo.

Sotto la guida dei nostri assistenti, la Quaresima ci ridesti fervore evangelico nella vita di castità, di povertà e di obbedienza nella vicendevole soggezione. Il libro del mese, L’amicizia di Cristo di Benson, potrà essere di grande aiuto per una meditazione pacata, lenta e piena di attenzione.

Vorrei essere compagno ad ogni vostra fatica: ma l’umiliazione stessa di non poter corrispondere ad ogni vostra chiamata renda la mia vita più utile alla vostra.

Con grande affetto vi ringrazio dell’umiltà e fedeltà della vostra sequela.

Affezionatissimo

don Luigi Giussani