Il mistero presente (Luigi Giussani)

Il Sabato n.16 del 22 Aprile 1989

La fisicità di Cristo: ecco esattamente ciò che il Potere, la mentalità dominante cerca di sterminare davanti ai nostri occhi. L’Imperatore sente questa Presenza come il suo principale avversario. Mentre è l’incontro con essa che dà consistenza vera alla nostra esistenza.

Con il riconoscimento di questa drammatica Presenza, in cui abita corporalmente la pienezza della Divinità, inizia per la vita qualcosa di radicalmente nuovo. È l’avvenimento del Mistero presente che rende la nostra vita un flusso continuo di novità. Il Sabato propone gli appunti da una conversazione di don Luigi Giussani

«L’imperatore si rivolse ai cristiani dicendo: “Strani uomini… ditemi dunque voi stessi, o cristiani, abbandonati dalla maggioranza dei vostri fratelli e capi: che cosa avete di più caro nel cristianesimo?”. Allora si alzò in piedi lo starets Giovanni e rispose con dolcezza: “Grande sovrano! Quello che noi abbiamo di più caro nel cristianesimo è Cristo stesso. Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui, giacché noi sappiamo che in Lui dimora corporalmente tutta la pienezza della divinità”». V. Solov’èv, Il racconto dell’Anticristo

Una presenza devastante

PER situare adeguatamente l’attività del nostro io non possiamo non partire dall’ambiente in cui il nostro io è immerso. Dal punto di vista che qui ci interessa, vogliamo notare che l’ambito in cui siamo immersi compie su di noi un’opera devastante. Noi nasciamo organicamente connessi ad una presenza devastante: è la presenza della cultura al Potere.

C’è un sintomo significativo, fra i tanti già in altre occasioni citati, di questa caratteristica dell’ambito in cui siamo collocati come un feto dentro il ventre materno, un sintomo colto in riferimento alla esperienza di cristiani impegnati e implicati in un Movimento: quando avete letto il testo di Solov’èv (qui sopra riportato) che ha rappresentato per noi una sorta di Manifesto per il 1988, vi siete trovati d’accordo, cioè lo avete letto come si legge un libro che raccoglie osservazioni condivisibili e perciò lo avete accolto come una cosa ovvia, teoricamente ovvia, ma non ne siete stati provocati.

Ecco: questo «essere d’accordo senza essere provocati» è una caratteristica comune tra noi, dovuta alla azione devastante della cultura al Potere. Mentre il problema dei soldi o della carriera ha un contraccolpo immediato, sensitivamente emozionante, quello che avete letto di Solov’év non ottiene più che un accordo teorico o scontato, senza costituire una provocazione vitale e mobilitante le proprie energie affettive.

Il disagio della dualità

COSI’, di fronte all’annuncio cristiano, alla provocazione cristiana, un grave disagio si instaura. Da un punto di vista strettamente razionale non si può eludere la pretesa del cristianesimo. Come diceva Kierkegaard, di fronte all’annuncio cristiano, da un punto di vista razionale, «tu devi» proprio prendere posizione.

Non si può non prendere posizione, non si può, per così dire, «scivolar via». Ma con la quotidianità, con lo svegliarsi al mattino, vestirsi, mangiare e andare al lavoro, con tutto lo sviluppo della giornata, questo annuncio che nesso ha? Resta come una terra incognita, come un mondo strano e alieno all’interesse quotidiano: ecco da dove sorge il disagio. Così, come abbiamo dovuto notare, la nostra attività ci conduce facilmente ad una stanchezza, manca di un movente adeguato.

L’attività è sempre sottoalimentata se non c’è nesso effettivo fra la motivazione tematizzata e la vita quotidiana. Non basta che questa vita quotidiana si inscriva in progetti dettati da un teorico riconoscimento. Il disagio di cui parliamo qui porta allo scoperto, accusa e anche alimenta una fragilità: ciò che facciamo (teoricamente certi discorsi e praticamente certe attività) non ha la capacità di trasformare la quotidianità. E ciò che non ha capacità di incidere e di trasformare il presente (è solo nel presente che il reale si pone e si rivela) è qualcosa di fragile, come un sogno, un pensiero senza conseguenze, una immaginazione senza compiuta o debita emozione che mobiliti la realtà dell’individuo.

Ora, se la nostra adesione teorica e pratica, se ciò che facciamo, non ha la capacità di trasformare la quotidianità, di incidere, allora noi siamo lasciati inermi, senza difesa, di fronte alla mentalità comune. Dobbiamo comprendere meglio la radice di ciò che stiamo additando. L’aspetto decisivo del problema può essere anticipato così: ciò che non è unito all’origine non può venire unito dopo, a meno che insorga una conversione alla radice, cioè un inizio nuovo.

Noi siamo di fronte alla realtà quotidiana con gli occhi, con la sensibilità, con l’animo, col cuore della mentalità comune e poi pretendiamo far coesistere ciò che facciamo con la parola «Cristo», o entro la cornice di una nostra adesione. Ma essa così non trasforma niente, fa crescere solo il disagio.

La fragilità che proviene da questa «dualità», e che si rivela nel disagio, identifica la frammentarietà della nostra vita, poiché senza una origine a partire da cui tutto viene concepito non ci sono che frammenti. E la salvezza dalla soggezione al comune modo di sentire è solo la distrazione: la gente è così sempre fuori di sé, perché se entrasse nella propria «casa» la troverebbe tanto inospitale da atterrirsene.

La frammentarietà, la dispersività, la polverizzazione di tutto, dicevamo, salvo brevi brani di progetto e di sforzi effimeri. Ciò che non è unito agli inizi, ciò che non nasce da una radice vera, dall’unica sorgente vera, non può essere fatto diventare vero dopo: rimane disfatto. Se un gesto non «nasce per», non si può giustificarlo nel suo svolgimento.

Quando avete letto il manifesto di Solov’év non vi avete letto la radice e l’origine delle vostre attività: l’attività resta così sganciata dalla sua origine, anzi, quanto più siete immersi nell’attività, tanto più essa attenua la provocazione di cui dovrebbe essere invece strumento, elimina la percossa, la sfida che il Fatto cristiano implica in sé.

Per questo la nostra comunicazione agli altri, il nostro annuncio, resta verbale, un discorso: non si può dire all’altro «fai come me», cioè «fai quel che faccio io». Tutto ciò non porta alla conclusione che occorra «fare meno attività». Chi dicesse «facciamo meno attività per pregare di più», non pregherebbe di più, ma farebbe soltanto meno attività!

Non si tratta di sospendere alcunché: è come se si dovesse invece incominciare da capo in quel che si fa, ritrovare l’unità della partenza, cioè «far rinascere» l’attività dalla sua vera origine, dall’Uno. Occorre qui notare che il prendere coscienza con sincerità del disagio cui abbiamo accennato, nella sua accusa alla fragilità, alla frammentarietà, alla polverizzazione, alla dualità per cui le iniziative e le attività non generano personalità, per cui non matura la nostra mentalità, per cui nel rapporto con gli altri è tutto formale o verbale e non un proporsi di sé, di un sé nuovo, eccetera—, il prendere coscienza di tale di sagio è già l’inizio di una maturità.

Dentro la vita

ABBIAMO parlato di una «azione devastante» della cultura al Potere. Domandiamoci sotto il profilo che qui più ci preme: «devastante che cosa?». Devastante il contenuto, la sostanza e la struttura stesse del Fatto cristiano. Infatti ciò che caratterizza il Fatto cristiano è che Cristo è una drammatica presenza. Drammatica perché inquietante e provocante il presente, perché opera nel e sul presente. Cristo è una drammatica presenza: in Lui abita corporalmente tutta la pienezza della Divinità.

La fisicità di Cristo: ecco esattamente ciò che la mentalità dominante cerca di sterminare ai nostri occhi. Che Cristo sia una presenza drammatica e incidente sul presente, che in Lui abiti corporalmente la Divinità, che quindi Dio sia presente fisicamente in Cristo e che Cristo sia realmente presente alla nostra esistenza, — questo è proprio la sostanza, il contenuto impressionante, l’eccezionalità del cristianesimo.

Cristo non è una presenza a lato, giustapposta, ma «dentro» il rapporto con chiunque e con qualsiasi cosa. «Che cosa avete di più caro? Quello che di più caro abbiamo, grande sovrano» dice il testo di Solov’èv «è Cristo stesso e tutto ciò che viene da Lui». Che cosa viene da Lui? Tutto. Cristo non è qualcosa di «prima» ma «dentro»! Dentro la tua gioia e la tua stanchezza, dentro la tua repulsione o la tua simpatia. Che cosa tremenda è questa!

È qui che dovremmo meditare sull’Ascensione, perché questo è proprio il mistero dell’Ascensione che la Pentecoste ha rivelato. San Paolo dice che Cristo è la consistenza di tutte le cose, tutto consiste in Lui, e san Giovanni dice che tutto è stato fatto per mezzo di Lui e senza di Lui nulla è stato fatto di ciò che è stato fatto. In Lui è la vita, cioè l’esistere, in Lui, in quell’uomo.

Nelle circostanze che pretenderebbero definire l’io e imprigionarlo, il rapporto con il cuore di tutte le cose, cioè Cristo, la coscienza di ciò che sta al cuore delle cose libera l’io all’infinito. Mentre nella concezione e nel modo di vivere comuni la persona non può che essere compressa, come se tutto fosse regolato dalle circostanze, l’io che vive il rapporto con la consi­stenza delle cose si libera dalla pretesa definitoria e totalizzante delle circostanze.

Proprio questo è, ultimamente, ciò che fa la differenza tra noi e coloro che appartengono alla mentalità comune, che può diventare anche differenza «fra» di noi: è l’esperienza del Mistero Presente. Mistero, cioè il cuore ultimo delle cose; Presente: diventato Uomo, il cui rapporto con noi coincide con la precarietà della «carne», delle circostanze.

Non è concepibile nulla di più inquietante di questa esperienza del Mistero Presente, nulla che disturbi di più la reattività della nostra vita, poiché stabilisce all’interno di tutti i nostri meccanismi e dinamismi (di qualunque genere, purché presi in mano dalla coscienza) una polarizzazione alternativa. L’esperienza del Mistero Presente rende irrequieto ogni dinamismo, disturba ogni meccanismo, stabilisce nel cuore di ogni nostro movimento una polarizzazione ultimamente giudi­cativa, determinante.

L’avvenimento nell’istante

DI questo Mistero Presente l’Imperatore non sa che farsene. O meglio: l’Imperatore sente questa presenza del Mistero come il suo nemico, il suo principale avversario. Perciò le affermazioni e le iniziative di tale Presenza lo irritano. L’avvenimento del Mistero Presente è per noi l’Incontro che continuamente polarizza il nostro vivere, dà significato e sintesi alla nostra esistenza. Ciò che noi chiamiamo «Incontro» è il palesarsi della coscienza dell’avvenimento del Mistero Presente.

Non c’è nessuna sorgente di novità nella vita se non questo Incontro; è l’avvenimento del Mistero Presente che rende la nostra vita un flusso continuo di novità. Con il riconoscimento di questa drammatica Presenza, in cui abita corporalmente la pienezza della Divinità, inizia per la vita qualcosa di radicalmente nuovo, su cui non sappiamo cosa dire, che non è in nostro potere.

È un inizio continuo, caratterizzato dal fatto che la libertà riconosce e decide ora non perché ha riconosciuto e deciso ieri o un istante prima, ma perché riconosce e decide ora. È l’avvenimento del Mistero nell’istante, per cui le circostanze non definiscono più il mio io. «Questa è dunque la vittoria che vince il mondo: la fede». La fede, cioè il riconoscimento del Mistero fatto Uomo, il riconoscimento della Divinità corporalmente presente in Cristo.

La tentazione degli apostoli

IL grande fatto della Sua Presenza emerge corporalmente in una compagnia come ambito in cui il mistero della Chiesa, luogo proprio della Presenza di Cristo, ti coglie in modo vivente. «Corporalmente» è qui analogico, ma l’analogia stabilisce, identifica una verità reale. Il Fatto, il grande Fatto, la drammatica presenza di Cristo ti appare emergendo in una compagnia.

La compagnia è il luogo di quella Presenza, una compagnia che partecipa, perciò, della drammaticità stessa di quella Presenza. Di fronte alla compagnia noi subiamo la stessa tentazione degli apostoli, quando quella notte, mentre la barca era in pericolo di affondare, vedendo avanzare verso di loro una figura furono presi dalla paura ed esclamarono: «E un fantasma», e si sentirono rispondere: «No, non sono un fantasma, sono io».

Analogamente, quando pensiamo alla «pretesa» che ha la compagnia, una compagnia fatta di gente come te e come me, di essere il luogo dove emerge il significato di tutto, dove emerge la Presenza reale del cuore di tutte le cose, allora ci viene paura; e la paura ci muove a dire: «E un fantasma, è una presunzione fantastica».

Invece la comunità è il luogo reale dell’Incontro, è la storia in cui l’Incontro diventa permanente. Per questo la compagnia, la comunità, non è una dimensione che nasca dall’organizzazione: o nasce dal riconoscimento e dalla libertà di ognuno, dal cuore di ognuno, oppure non esiste come compagnia, come comunità, esiste come gruppo. E un gruppo, cioè un’associazione, un’espressione associativa, non un movimento di essere.

Se l’unità tra nei non è in una partenza del cuore, della libertà, l’estraneità che c’è all’origine non è più superabile. Poco o tanto si resta giustapposti, si resta estranei. La trama dei rapporti tra noi costituisce lo strumento con cui Cristo ci incontra. Sono rapporti, quindi, che attingono qualcosa di più grande, per cui l’amicizia, la conoscenza, la convivenza non sono più come prima. Pensiamo a quel che ciò significa a cominciare dal rapporto tra l’uomo e la donna.

Per la persona

LA compagnia è il luogo dove Cristo ti provoca con la Sua presenza. La tua risposta a questa provocazione costituisce la tua personalità. La personalità, infatti, nasce e si sviluppa come rapporto ad un Tu. La persona si «costruisce» dunque nella risposta che dà alla comunità attraverso cui Cristo la provoca.

La storia della comunità, l’oggettivo segno della presenza di Cristo, diventa storia soggettiva, personale. Le parole che lo Starets pronuncia in risposta alla domanda dell’Imperatore diventano allora esperienza del proprio io. Esperienza di un personale riconoscimento della Sua presenza, quindi di una stima (vale a dire di un riconoscimento che inizia a trascinare con sé anche il cuore), perciò di una affezione e, in ultima istanza, di una appartenenza: qui sta la pace, poiché la vita della persona è tutta appoggiata alla sicurezza dell’ordine e del cuore delle cose, una pace che contiene la drammaticità.

Come il bambino sta, consiste, sperimenta di essere, perché appartiene al padre e alla madre, allo stesso modo strutturalmente, il nostro io ha la sua unica consistenza nell’appartenenza al grande Fatto della Sua Presenza. E questa soglia ultima del gioco della libertà, l’appartenenza al Mistero Presente, che viene evocata, nei termini più compiutamente umani che si possano immaginare, dalla ripetuta domanda che Cristo rivolge a Pietro: «Mi ami tu?».

Immaginiamoci come lo guardava mentre gli ripeteva, per tre volte, quella domanda, quasi con profonda e divina ironia: «Simone, mi ami tu?». Chissà come lo guardava mentre glielo chiedeva, e come Pietro si sentiva sotterrare vivo dal ricordo di tutti i suoi errori, che non erano solo nel passato ma la cui origine era dentro la sua carne e le sue ossa. In quel momento Pietro capiva che non poteva più dire: «Io non ti lascerò mai», come gli aveva detto prima di tradirlo.

Certamente Pietro non poteva più pensare di ripetere: «Io non ti tradirò mai», perché aveva sperimentato cos’era. Eppure sinceramente gli dice: «Sì, ti amo». Un «sì», che sta prima di tutti gli errori possibili e immaginabili, come espressione di un riconoscimento, di una stima, di una affezione, perciò di una appartenenza che nessun errore, nessuna incoerenza possono fermare o distruggere.

C’è un «prima» che è come l’albore della libertà, un «prima» che nessuno sbaglio può demolire o bloccare: «Sì, lo sai che ti amo». Questo «sì» è commovente e grandioso, è il «sì» detto all’infinito, che ha la natura dell’eterno, perché non è ricattabile da nulla, non è condizionato da nulla. Perciò è impossibile che il cristiano si scandalizzi di qualsiasi cosa, in sé o negli altri.

E quando sentiamo salire in noi l’obiezione più grande, l’obiezione di fronte alla nostra sproporzione, per cui ci verrebbe, per esempio, da esclamare: «Ma come faccio a dire all’altro “vieni” in comunità, se io sbaglio così?», pensiamo che Cristo ha legato la Sua presenza proprio a della gente che sbaglia e che tradisce come Simon Pietro, che sbaglia e tradisce come te. E questo il paradosso della Chiesa, da cui tutti deviano lo sguardo per poterle muovere facili obiezioni e accuse per qualsiasi mossa errata in essa possa avvenire.

Ma la Chiesa non potrebbe che rispondere a un simile eventuale accusatore: «E naturale, sono fatta di gente come te, sono fatta di uomini, perciò può capitare di tutto, può capitare che tutti commettano quello che hai commesso tu».

Ragione e affettività

RITORNIAMO ora, con un accenno, alle conseguenze sulla personalità del Potere devastante che ci circonda. Soprattutto due sono quelle che ci interessano.

A) Innanzitutto una difficoltà a comprendere: siamo protagonisti di una ragione fragile. E ciò stabilisce un «fiato corto» per la personalità. Per questo il testo di Solov’év l’avete letto e teoricamente vi è sembrato di capirlo, ma non vi ha provocato. Non ha provocato perché in realtà non è stato compreso. Se ve l’avessero chiesto avreste detto: «Sì, sì, ci credo, anch’io dico così», ma astrattamente, senza comprendere.

La ragione fragile di cui abbiamo parlato ci rende simili a coloro che, mancando di ogni inclinazione per la geometria, sono costretti a studiare a memoria i teoremi. Se per ipotesi essi stessero studiando un teorema, dimostrato poniamo con le lettere A, B, C, e malauguratamente la professoressa interrogandoli modificasse le lettere o il loro ordine, allora sarebbe una catastrofe: l’apprendimento è così ottusamente legato ai simboli, alla apparenza, che diventa loro impossibile raccapezzarsi e condurre la dimostrazione.

Analogamente avviene per noi. Così insorgono difficoltà a comprendere la verità dell’una o dell’altra persona, di questo o quell’aspetto della vita della comunità. Ci si arresta all’apparenza, alla forma, ai simboli e ci si impaluda in essi. Questo può accadere a riguardo dell’attività delle nostre cooperative, o della vita comune nelle sue diverse espressioni e sfumature.

Ma c’è un paragone che ci permette di capire adeguatamente quanto detto. Gli apostoli stessi, fino a quando è disceso lo Spirito Santo, avevano una ragione fragilissima. Erano attaccati alla forma, la forma effimera di Cristo. Non capivano chi era, non capivano cos’era. «E meglio per voi che Io me ne vada» diceva loro Cristo «perché se Io non me ne vado, voi identificate la forma di questa mia compagnia con il Divino.

E questo è equivoco, perché questa forma è contingente, quello che Io sono è infinitamente più profondo». Così, quando è asceso al cielo, cioè ha raggiunto il suo luogo dentro le cose, dentro la radice delle cose, ha mandato il suo spirito e hanno compreso. In quell’Uomo era la consistenza di tutto. E hanno capito quel che aveva detto: «Senza di me non potete fare niente».

B) La seconda conseguenza della mentalità comune è la divisione tra riconoscimento e affettività, fra il riconoscimento e l’essere attaccati al riconoscimento. Fra il riconoscimento che resta astratto e l’affettività che fluttua separatamente, come all’inizio dell’Umanesimo, cioè all’inizio dell’era moderna. Petrarca ammetteva tutto il dottrinale cristiano e lo sentiva anche più intensamente di noi, ma la sua sensibilità o affettività fluttuava autonomamente da esso ed egli era perciò diviso.

Per questo dice: «Chi mi darà l’ali di colomba sì che m’innalzi e levimi da terra?» e sia unificato. Nella divisione fra il riconoscimento e l’affettività ciò che polarizza l’affettività è allora l’apparenza. Così che il rapporto con il reale, il gesto (che è il rapporto con il reale) non veicola come suo significato Cristo. Il criterio dinamico del rapporto non è Cristo, la speranza del gesto non è Cristo. La conseguenza di ciò è che non sperimentiamo come Cristo «ca­bi» le cose, cioè faccia diventare cento volte più ricco ogni rapporto.

Lo strumento dell’amicizia

LA cosa più importante, come strumento, affinché l’Avvenimento del Mistero possieda la nostra vita e, attraverso la nostra vita, la vita del mondo, è che la nostra amicizia continui ad esistere. Essa è l’opposto della presenza devastante del Potere. L’amicizia rende Cristo provocazione quotidiana. Ci inoltra pedagogicamente in un rapporto con la realtà quotidiana come verifica che Cristo è «la cosa più cara».

L’amicizia mi educa a stabilire i rapporti quotidiani come verifica che Cristo è veramente la cosa più cara che ho. Dove la parola «caro» implica riconoscimento, stima, affezione, appartenenza, come abbiamo già osservato. La grande legge dello strumento che Cristo ha scelto per essere Presente, quell’amicizia che è la Chiesa in quanto vive stringendoti fisicamente d’appresso, è il seguire: una adesione umile all’amicizia come Movimento.

Seguire o interpretare

QUI si prospetta l’alternativa: o si segue nella compagnia, e allora la compagnia è veramente una fraternità come luogo del proprio io, dove il proprio io riconosce il suo senso e riconosce il senso del suo camminare; o si interpreta. Questo caratterizza la differenza metodologica del cattolicesimo da altro: il seguire. O si segue o si interpreta. Se si segue si è in compagnia profonda, in unità col passato e col futuro, e con tutti i fattori del presente.

Se si interpreta si è nella solitudine. Al seguire si oppone una logica individualistica, in cui la propria reazione, quel che si pensa o si sente, diventa criterio. In continuità con tale logica individualistica è la logica di gruppo, che dà origine a delle metastasi nella comunità, il gruppo si forma non come intensificazione dell’unità ma come alternativa all’unità: la reazione di uno diventa criterio per gli altri, ed ecco l’alienazione.

C’è invece una logica personalizzante. Ed è quella che ti unisce al tutto, come persona e come compagnia, e ti approfondisce dunque nella storia unica. L’esito del seguire è una coscienza sempre più profonda e semplice dell’appartenenza al Mistero Presente. Per questo la vita dell’io che «appartiene seguendo» diventa novità continua.

Quanto più uno percepisce sé come appartenente al Significato, tanto più è continuamente nuovo. Ma cos’è la novità? È il Destino che si sta avverando. È l’esperienza del Destino che si avvera. La liturgia indica ciò con il termine pegno. Pegno, o caparra: se io ti devo una somma di centomila lire e ti dò una caparra di diecimila lire, al saldo te ne dovrò ancora novantamila, e questo significa che le diecimila lire versate sono della stessa natura delle centomila dovute.

Il concetto di caparra, o di pegno, è importantissimo nella concezione esistenziale, antropologica ed ecclesiologica della vita cristiana, perché già c’è in questo mondo l’inizio del futuro. Ed è in questo già l’esito del seguire la compagnia vocazionale in cui Dio ci ha chiamati: l’io si sperimenta sempre più come novità, come Destino che si avvera.

Caratteristiche della vita nuova

CI restano ora alcune notazioni concrete. Primo. La nostra vita impostata secondo la sua essenzialità, la sua verità, ha una nota caratteristica, inconfondibile ed insostituibile, che è la letizia. La capacità di una amicizia lieta. È attraverso questa letizia, che caratterizza una trama di rapporti vissuta nella sequela, che Cristo percuote il mondo. Il mondo è colpito dalla letizia perché non ne è capace. Come diceva il Manzoni a proposito della pace: «… che il mondo irride ma che rapir non può».

È nella letizia che l’esperienza cristiana ottiene la sua verifica. La verità sta nella letizia. Beninteso, questa letizia è una connotazione che può «stare» con il morire, o col più grande dolore. Perché questa letizia non c’entra coi muscoli della faccia. C’entra con la luminosità della faccia, c’entra con gli occhi, questo sì. In secondo luogo, caratteristica della vita nuova, della vita di comunità, è la missionarietà, che non è il fare e l’agitarsi, ma l’essere, cioè il manifestarsi, il comunicarsi della propria identità: è l’epifania di una identità. In terzo luogo, quale corollario della missionarietà, una capacità di sfida.

Dalla vita di comunità nella sequela nasce una personalità capace di sfida. Questa sfida è la caratteristica, per così dire, «bellica» dell’amore. Una personalità che sfida è consapevole del punto unitario a partire dal quale guarda tutto e getta ponti con qualsiasi cosa, in un continuo paragone. C’è una formula che descrive questa dinamica: «Pour se poser, il s’oppose». E una formula che abbiamo imparato dal professor Lazzati più di trent’anni fa.

«Dio, rivelati a me»

IN quarto luogo, ciò che accade è un passaggio decisivo: dalla ripetizione di un discorso alla lieta inquietudine della domanda, dove la parola «inquietudine» allude ad un atteggiamento vibrante, mosso, teso dell’io. Dal discorso alla lieta inquietudine della domanda o, in altri termini, dalla capacità di definire alla capacità di chiedere. La domanda è il fare spazio al Mistero perché si manifesti. Perciò l’espressione minimale della domanda è quella dell’Innominato manzoniano: «Dio se ci sei, rivelati a me».

E la domanda di chi ancora non crede, ma già segue l’aprirsi di uno spazio. L’espressione più compiuta della domanda si trova al termine della Bibbia, alla fine della storia dell’umanità: «Vieni Signore Gesù». All’Imperatore, che non sa che farsene della grande Presenza, noi opponiamo — ed è per questo che la prepotenza della mentalità comune non ci disfa e non ci abbatte — la domanda della grande Presenza. La domanda è l’inizio dell’incontro con il Mistero Presente; a differenza del desiderio, che può rimanere velleità. La domanda è già un gesto, il più originalmente decisivo.