Prepariamoci a dire ancora «niente oro alla patria».

oro_patriaLa Bussola quotidiana 2 febbraio 2011

Niente illusioni, se dopo Berlusconi la sinistra torna al Governo riprenderà vigore la persecuzione fiscale a danno di tutti gli italiani, nessuno escluso. Lo hanno già annunciato l’ex primo ministro Giuliano Amato, il banchiere cattolico-democratico Pellegrino Capaldo e il PD, con il discorso al Lingotto di Torino di Walter Veltroni, i quali propongono una imposta patrimoniale per alimentare nuovi sprechi pubblici e nuiovo statalismo

di Massimo Introvigne

Silvio Berlusconi è sceso in campo nella politica italiana nel 1994. È giusto trarre un bilancio delle luci e delle ombre del berlusconismo e riflettere sul dopo Berlusconi, e su La Bussola Quotidiana abbiamo cominciato a farlo. Ma nessuno può illudersi – a meno di adottare un vecchio modello alla Benedetto Croce (1886-1952) secondo cui la storia procede per parentesi che si aprono e si richiudono – di tornare semplicemente al 1993. Né questo sarebbe auspicabile.

Un ritorno al passato sembra delinearsi nelle proposte d’imposta patrimoniale che sono venute dall’ex primo ministro Giuliano Amato e dal banchiere cattolico-democratico Pellegrino Capaldo, e sono state adottate dal PD, con il discorso al Lingotto di Torino di Walter Veltroni, da alcuni grandi quotidiani e da esponenti significativi di area centrista. Le proposte oscillano fra i 30mila euro che il terzo di contribuenti italiani più  icchi dovrebbe pagare per «salvare la nave Italia che affonda» a un’imposta sugli immobili o sul loro aumento di valore che non dovrebbe fare eccezioni per nessuno e generare la mostruosa cifra di novecento miliardi di euro: un’imposta che la maggioranza dei proprietari d’immobili non potrebbe materialmente pagare e che dunque sarebbe convertita in una gigantesca ipoteca a favore del fisco sulle case degli italiani, che crescerebbe nel tempo a causa degli interessi composti e del tasso d’inflazione.

Tutto questo, naturalmente, lo abbiamo già visto. A me richiama battaglie che ho combattuto nelle fila di Alleanza Cattolica, la quale negli anni 1980 a fronte d’ipotesi analoghe scese in campo con una serie di manifesti e di slogan in gran parte coniati da Giovanni Cantoni: no alla «persecuzione fiscale», «niente oro alla patria», «meno miliardi e meno potere alla classe politica dell’aborto “legale”».

Quegli slogan e quelle campagne, certo non da soli, contribuirono a liberare tanti cattolici dai complessi d’inferiorità nei confronti delle sinistre stataliste, che presentavano le loro proposte di patrimoniale come intese a favorire i «poveri», preparando la strada a una serie di sconfitte elettorali delle sinistre e dei cattolico-democratico favorevoli a queste proposte. Vinse così, ripetutamente, il cavalier Berlusconi, che sulle promesse di non mettere le mani nelle tasche degli italiani e sul rifiuto delle patrimoniali ha costruito le sue fortune politiche.

Con la crisi del berlusconismo, torna la prospettiva della persecuzione fiscale. A meno che, come sembra pensare Giuliano Ferrara, la crisi del berlusconismo nelle sue più spettacolari dimensioni giudiziarie e giornalistiche recenti sia stata in qualche modo organizzata o favorita proprio dal partito della persecuzione fiscale, un «partito della patrimoniale» che intravede la possibilità di un enorme assalto al risparmio delle famiglie italiane per alimentare un rinnovato statalismo e nuovi carrozzoni della spesa pubblica.

A molti di noi sembrerà di tornare agli anni della giovinezza, ma occorre prepararsi a riprendere il tema della persecuzione fiscale e a smontare gli inganni secondo cui i buoni cattolici dovrebbero essere favorevoli alla patrimoniale in nome della solidarietà.

Su quali leggi fiscali siano «giuste» il patrimonio di documenti pontifici noto come dottrina sociale della Chiesa non è avaro d’indicazioni, anzi è molto preciso. Fa riferimento a tre princìpi: solidarietà, moralità e sussidiarietà. Il principio di solidarietà è quello secondo cui tutti devono contribuire al bene comune, specie a vantaggio dei più deboli e dei più poveri, e non è lecito tirarsi indietro per ragioni egoistiche.

Qui si situa la tradizionale critica cattolica dell’evasione fiscale, dove tra l’altro la parola «evasione» assume anche un significato analogo a quello che ha in espressioni come «letteratura di evasione» e simili. La Chiesa condanna una mentalità in cui non solo e non tanto si evadono le tasse, ma – nei casi di leggi ingiuste – si finge di poter evadere dalle tasse, rifugiandosi in una immaginaria dimensione «apolitica» dove l’evasione fiscale, come mentalità e come costume, è alternativa rispetto a una più consapevole ed efficace «protesta fiscale».

Più che «evadere» individualmente, di fronte a forme di persecuzione fiscale il cittadino consapevole dovrebbe protestare collettivamente e operare per far cessare la persecuzione attraverso l’impegno politico a favore di chi a tale persecuzione è contrario. La critica dell’evasione – nei due sensi del termine – si accompagna però alla condanna delle «leggi ingiuste».

Qui entrano in gioco gli altri due principi. Per il principio di moralità chi chiede tasse elevate deve dimostrare di spendere il denaro pubblico secondo criteri di oculatezza e altrettanto elevati principi di morale sociale, che non si riducono alla moralità individuale di singoli uomini politici, così che per esempio è ancor meno titolato di altri a chiedere miliardi chi pensa poi di spenderli in parte per finanziare l’aborto o le pillole abortive di Stato. Diversamente, il suo diritto alla solidarietà dei cittadini viene meno e, come insegnava il venerabile Giovanni Paolo II (1920-2005), «il crollo della moralità porta con sé il crollo della società».

Per il principio di sussidiarietà, cui i governi sono – sempre secondo Papa Wojtyla – «gravemente obbligati ad attenersi», lo Stato e gli enti territoriali non devono assorbire attività e risorse che non competono loro e che una corretta valutazione del bene comune indurrebbe a lasciare ai privati. Se lo Stato non rispetta questo principio, nasce lo statalismo che – secondo la classica e ancora valida formula del venerabile Pio XII (1876-1958) – è «l’estensione smisurata dell’attività dello Stato, dettata da ideologie false e malsane, che fa della politica finanziaria, particolarmente della politica fiscale, uno strumento al servizio di preoccupazioni di un ordine diverso».

L’Instrumentum Laboris della seconda Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi, documento così importante che Benedetto XVI si è recato in Africa nel 2009 con l’esplicito scopo di presentarlo, afferma al numero 25 che c’è un limite oltre il quale le «tasse eccessivamente alte» diventano «illecite». Le ipotesi di patrimoniale che costringono chi possiede una casa a rovinarsi o a ipotecarla, o vanno a prelevare trentamila euro dalle tasche di chi già paga più tasse – che spesso non fa parte dei più ricchi, ma solo dei più onesti -, sembrano proprio configurare queste ipotesi. Soprattutto, ci si chiede di portare acqua non ai pompieri ma agli incendiari.

La classe politica che chiede la patrimoniale governa o ha governato proprio quelle regioni e quei comuni, specie al Sud,  dove si sono creati i buchi più spaventosi. L’oro che ci si chiede di dare alla patria finirebbe nella stessa voragine o peggio inciterebbe quella classe politica a nuovi sprechi, così che dopo pochi anni o pochi mesi saremmo da capo nonostante l’immane prelievo. Ancora una volta, dunque, prepariamoci a dire no alla persecuzione fiscale.

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La Bussola Quotidiana 3 febbariao 2011

IL PCI E’ MORTO LO STATALISMO  VIVE

di Marco Invernizzi

Il dibattito sulla patrimoniale (o su qualcosa che comunque le assomiglia) rilanciato in questi giorni fa riemergere quella malcelata ostilità nei confronti della proprietà che è un tratto caratteristico della storia contemporanea dell’Italia.

Non sembra perciò una coincidenza che questo accada proprio nei giorni in cui ricorre il ventesimo anniversario della fine del Partito comunista italiano, nato a Livorno 90 anni fa, nel 1921, e appunto consegnato alla storia da Achille Occhetto il 3 febbraio del 1991. Perché soltanto alla luce di quanto ha fatto il Pci per seminare un pregiudizio negativo nei confronti della proprietà è comprensibile la proposta di “toccare” un qualcosa di giustamente ritenuto importante da ogni famiglia italiana, ovvero la casa di proprietà.

E in effetti, a vent’anni dalla sua morte, l’ideologia diffusa da tanti decenni permane in diverse manifestazioni di pensiero, tra cui appunto quella relativa alla proprietà. Il Pci nacque a Livorno nel 1921 da una scissione del Partito socialista, a sua volta nato nel 1892. L’ideologia egualitarista viene così seminata nel corpo sociale da oltre un secolo e per tutto il Novecento. Essa induce a guardare con sospetto la ricchezza, di cui la proprietà sarebbe il segno e la manifestazione esplicita. Essa nasce in un contesto sociale drammatico, seguito alla rivoluzione industriale e allo smembramento del sistema dei corpi intermedi, con milioni di lavoratori di ogni età sfruttati da un esiguo numero di datori di lavoro.

L’invidia sociale seminata dal socialismo emerge come forza politica in questa stagione, sfruttando una situazione di reale ingiustizia e provocando la lotta fra le classi. Il Pci, soprattutto il “partito nuovo” guidato da Palmiro Togliatti dopo il suo ritorno dall’Urss nel 1944, si fa carico di tradurre in lotta politica questa ideologia di classe. Lo fa in un modo appunto “nuovo”, privilegiando la lotta culturale volta a cambiare il senso comune degli italiani, con molta gradualità e cercando di non urtare il comune sentire cristiano della gran parte della popolazione. Questo lavoro culturale promosso dal Pci penetra e si estende oltre i militanti e gli iscritti al partito. E rimane anche dopo il suo tramonto.

Accanto a una certa avversione culturale alla ricchezza e alla proprietà, cresce anche l’idea che tocchi allo Stato intervenire e sostituire la società risolvendo tutti i problemi. Attenzione: la dottrina sociale della Chiesa e il buon senso non escludono a priori l’intervento dello Stato. Davanti alla drammaticità della questione operaia, nella seconda metà dell’800, la Chiesa affermò che certi problemi, fuori dalla portata dei corpi sociali, poteva risolverli solo lo Stato: fu questa la logica da cui nacque la Rerum novarum, nel 1891. Ma nel corso del 900 si diffonde un’altra visione di Stato, che si sostituisce alla società organizzando quest’ultima all’interno di strutture appunto pubbliche. E pubblico diventa solo quello proposto dallo Stato.

Il Pci è il principale portatore di questa mentalità nel secondo dopoguerra, ma non erano molto diverse le concezioni dello Stato proposte dal regime fascista e da certo cattolicesimo poco attento alla distinzione e alla valorizzazione della società, che nasce in Università Cattolica negli anni conclusivi del regime e diventa, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, una delle proposte politiche della sinistra dc, quella dei “professorini”, guidata da Giuseppe Dossetti. Così la scuola di Stato, le imprese di Stato, la Tv di Stato e si potrebbero fare tanti altri esempi. E soprattutto l’idea che lo Stato debba risolvere tutti i problemi, anche quelli creati dallo Stato stesso, come il debito pubblico, “prelevando” come con un bancomat direttamente dal corpo sociale. La patrimoniale, appunto.

Provvidenzialmente sono accadute diverse cose nuove in questi ultimi vent’anni e fra queste un sensibile incremento di consapevolezza culturale del valore assoluto del principio di sussidiarietà, insegnato dalla dottrina sociale della Chiesa e dal buon senso. Ma evidentemente deve essere rimasto uno “zoccolo duro” di popolazione (non so quanto esteso) che guarda solo allo Stato per risolvere i problemi, invece che auspicare un rilancio della società facendo diminuire i ceppi che le impediscono di operare.