Grandi cervelli, leggete e arrossite

da Il Sabato n.41 del 14 Ottobre 1989

Arriva il libro di Paul Johnson contro gli intellettuali. Manca un capitolo. Quello che riguarda l’Italia. Il Sabato l’ha scritto

di Antonio Socci

SOTTO la penna di Johnson (Paul Johnson, Intellettuali, edizioni Longanesi) gli intellettuali escono a pezzi, come una categoria di gaglioffi. Indro Montanelli però ha osservato, a ragione, che sotto la scure dello storico inglese cadono esclusivamente i «progressisti», insomma gli intellettuali per eccellenza, quelli che si sono arrogati le prerogative che una volta erano della Chiesa, di direzione spirituale degli uomini, di condanna, di salvezza, di assoluzione e di guida.

Johnson non si è cimentato con l’Italia, ed è un peccato. La nostra è un’antica tradizione di cortigiani, di cuor-di-leone all’ombra del potere, di palloni gonfiati. Prendiamo uno dei primi vati, un grande della Patria che la scuola di Stato e la pubblicistica hanno santificato: Cesare Beccaria, che è il simbolo dell’Illuminismo italiano. Il suo libro Dei delitti e delle pene, aveva scritto Luigi Firpo, «è ormai patrimonio morale irrinunciabile dell’intera umanità».

Cesare Beccaria

L’oscura barbarie della storia si è diradata quando il Beccaria fu partorito, e con lui «il genuino slancio di carità verso i derelitti e gli oppressi». Ma guai se la penna irriverente di Johnson venisse a curiosare dietro questo monumento. Scoprirebbe quel marchesino Cesare, abulico e grassottello, che andava in bestia per delle inezie, arrivando — come ha ricordato di recente l’Apolloni — a «far impiccare i suoi servi per dei furtarelli da nulla».

Come maestro di filantropia non c’è male. D’altra parte quei due colossali pettegoli che furono i fratelli Verri (suoi «amici» e maestri) nel loro carteggio gli vomitano addosso una quantità di infamie da far rabbrividire. Alessandro Verri a Pietro: «Ciò che m’ha sempre reso, ardirò dire, abbominevole quest’uomo stravagante è la sua imbecillità unita a una rozza ferocia (…) è quel fondo di bassezza ch’io sospetto nel suo cuore pel danaro e per li miseri, benché abbia tutt’altra anima quando scrive».

IL CASO DE AMICIS

Edmondo De Amicis

Vizi privati e pubbliche virtù. Come quelle di De Amicis. Ha commosso generazioni di italiani insegnando alle giovani scolaresche il primato dei sentimenti e l’umanitarismo come nuova religione civile, l’esaltazione della bontà e della compassione per i deboli e il disgusto verso la cattiveria dei Franti e la prepotenza dei forti.

Poi, qualche mese fa, un esperto di storie piemontesi, Luciano Tamburini, ha scovato nei meandri della Biblioteca nazionale di Torino l’unica polverosa copia del romanzo Conclusione. Autrice: Calista, pseudonimo di Teresa, moglie di Edmondo De Amicis. La Teresa aveva già lasciato ai posteri delle pagine al vetriolo sui suoi patimenti sentimentali. Ma da questo nuovo libro il marito esce davvero a pezzi.

Secondo Tamburini è lui, l’autore di Cuore, quel mascalzone che umilia la povera moglie, buona e tenera, che insegue tutte le sottane «in piazza e nelle alcove, ti sbeffeggia ne’ suoi postriboli, e se non riesce di farti uscire dalla casa edificata da te, egli stesso ti spoglierà di tutto e se ne andrà».

A dar credito a queste pagine, Edmondo sarebbe farabutto capace di studiare sistematici piani di persecuzione contro la povera donna, e anzi capace perfino di arrivare alle mani. Pare addirittura che il malnato si dedicasse a disinvolti adulteri perfino durante la nascita del secondo figlio, Ugo. E la poveretta ricorda episodi penosi, come quando «afferrandomi per i polsi mi ripeteva duro: “Spero bene che stavolta morirai”».

C’è chi è insorto a queste rivelazioni. Magari sarà solo astio di moglie vendicatrice. Tuttavia il maestro dell’educazione sentimentale degli italiani, il vate della nuova religione civile non fu uno stinco di santo, non dette un grande esempio di «cuore». Ma nel Belpaese ha poi attecchito una schiatta di intellettuali che danno lezioni di moralità a un popolo italiano che considerano fiacco e corrotto.

Giulio Carlo Argan

Prendiamo, ad esempio, il gran maestro della critica d’arte nazionale, Giulio Carlo Argan. Appena qualche anno fa dichiarava all’Espresso che Mario Sironi, in effetti, era un grande artista, ma che lui solo adesso può riconoscere il suo valore perché Sironi fu un fascista convinto e lodarlo negli anni Trenta voleva dire rendere omaggio al regime: «E’ facile oggi» dice Argan «affermare che Sironi è stato un ottimo pittore… Ma nel 1930 scrivere un saggio elogiativo di Sironi equivaleva ad assumere una posizione politica».

Il lettore ignaro, a queste parole penserà ad un Argan perseguitato politico. Peccato solo che di un Argan perseguitato proprio non si ha nessuna notizia. Al contrario il professor Nino Tripodi, già senatore missino, nel suo libro Intellet­tuali sotto due bandiere parla di un Argan iscritto al Pnf, che raggiunge gli alti gradi dell’amministrazione delle Belle Arti, divenendo in pochi anni ispettore.

Molto vicino al ministro Bottai, «si dice che gli abbia allestito parecchi discorsi e che abbia fatto il bello e il cattivo tempo nel corso operativo della sua politica». Seppur giovane doveva essere già un’autorità nella gerarchia se il povero Cesare Pavese, chiedendo a Mussolini, nel gennaio ’36, uno sconto della pena del confino di Brancaleone Calabro, cita fra i suoi meriti l’aver invitato a collaborare ad una sua rivista «il camerata Giulio Carlo Argan».

Che Pavese abbia preso un colossale abbaglio? Perché non si accorse che Argan aveva nausea «della volgarità e mediocrità culturale del fascismo»? Certo nel ’41 Argan è membro della giuria del Premio Bergamo e si fa fotogra­fare col distintivo fascista accanto a Farinacci, racconta Tripodi. E’ anche vero che dal 1938 fino al 25 luglio ’43 Argan fu segretario di redazione de Le Arti che Bottai presentò così: «La rivista sarà espressione retta della politica artistica del regime» (anche delle aberrazioni antisemite).

Ma su Sironi, Argan non scrisse mai una parola d’apprezzamento: naturalmente per non compromettersi col fascismo. Infatti subito dopo la caduta del regime Argan si accorse di colpo e senza tentennamenti di essere sempre stato antifascista e comunista. Perciò negli anni Settanta il Pci lo fece addirittura sindaco di Roma.

DAL NERO AL ROSSO

Pietro Ingrao

Il Pci, nel dopoguerra, fece una vera strenna di intellettuali ex-fascisti. Fu una trasmigrazione. Il Pci allestì così la sua colossale «organizzazione della cultura» sulle ceneri del Minculpop. Alcuni si buttarono in politica, come Ingrao, Natta o Lajolo, autore de Il voltagabbana. Altri ci provarono, come lo scrittore Massimo Bontempelli. Il 18 aprile 1948 fu eletto senatore nelle liste del Pci di cui si era detto «innamorato». Appena qualche anno prima aveva pubblicato un’altra dichiarazione d’amore: «Credo nel fascismo rivoluzione quotidiana». Un amore che Bontempelli ritenne trascurabile.

Natalino Sapegno

Ma fu in buona e nutritissima compagnia: Tripodi ha raccontato le vicende di Ranuccio Bianchi Bandinelle Romano Bilenchi, Galvano della Volpe, Natalino Sapegno, Carlo Muscetta, Salvatore Quasimodo, Sem Benelli, e molti altri. Su questa transumanza collettiva dell’intelligenza italiana dal nero al rosso si sono formate varie scuole di pensiero: «bischeri» (Ernesto Rossi); «buffoni» (Levi); «lecchini» (Ramperti) e altre irriferibili.

Una menzione particolare meritano i liberal come Eugenio Scalfari e quegli altri che nacquero alla professione su giornali come Roma fascista inneggiando al Duce. Costoro hanno il popolo italiano in gran disprezzo. Il liberal, secondo Scalfari, ha 25 cromosomi: «Sobri. Di solito longilinei, di solito benestanti. Fondamentalmente laici… (è) l’Italia dei galantuomini, l’Italia perbene, la memoria storica dell’Italia risorgimentale».

Eugenio Scalfari

Guarda caso proprio «Aristocrazia» era il titolo di un suo memorabile articolo su Roma fascista (16/7/’42): «Soprattutto ciò che conta è formare un adeguato “Spirito aristocratico”… Oggi mentre sembra che Sua Maestà la Massa (come la definì il Duce in un lontano giorno) tenti di riprendere il suo trono, è necessario riporre l’accento nell’elemento disuguaglianza, che il Fascismo ha posto come cardine della sua dottrina. Bisogna combattere ad oltranza “la” massa se si vuole, come noi vogliamo, raggiungere l’elevazione “delle” masse. Soltanto la disuguaglianza può portarci alla aristocrazia». Un bel programmino democratico.

Umberto Eco

Eppure negli anni di fuoco questi intellettuali, grandi firme del giornalismo italiano, infiammarono il cuore dei giovani rivoluzionari. C’è un manifesto — fra tanti — del 1971 che reca in calce 50 firme, fra cui Umberto Eco, Giulio Carlo Argan, Salvatore Samperi, Enzo Paci, Domenico Porzio, Natalia Ginzburg. Solidarizzavano con i «rivoluzionari» messi sotto inchiesta per questioni di espropri proletari e incitamento alla lotta armata: «Quando i cittadini da lei imputati» scrissero i nostri eroi al magistrato «dicono che se i padroni sono dei ladri è giusto andarci a riprendere quello che hanno rubato, lo diciamo con loro. (…) Quando s’impegnano a combattere un giorno con le armi in pugno contro lo Stato fino alla liberazione dai padroni e dallo sfruttamento, ci impegnamo con loro».

Natalia Ginzburg

Alcuni di quei ragazzi le armi poi le presero davvero, seminarono e raccolsero morte. Ma i nostri intellettuali restarono nei salotti e sulle cattedre, nemmeno uno ha mai ritenuto di dover fare autocritica. Argan, interpellato diciotto anni dopo: «Non ricordo più nulla. Firmai il documento, ma non vorrei tornarci sopra».

MORAVIA IL TIRCHIO

Fa caso a sé Alberto Moravia. «Anni fa», ha scritto Massimo Fini, «proprio nel momento in cui il terrorismo lanciava il suo massimo attacco e le strade di questo Paese si coprivano del sangue di poveracci, fu l’autore dello slogan “Né con lo Stato, né con le Br”. Slogan particolarmente ripugnante nel caso di Moravia che dai servizi di questo Stato, cioè da noi, pretese anche di farsi pagare le spese della malattia della moglie».

Alberto Moravia

Roberto D’Agostino lo chiama «l’Avaro Gambarotta». Fece appunto delle scene madri chiedendo al presidente Pertini una pensione speciale per la moglie Elsa Morante, ricoverata in clinica. Moravia ottenne per l’indigente addirittura un assegno personale di Pertini e uno dal comune di Roma. Quando morì si seppe che la Morante aveva lasciato in eredità un patrimonio di 650 milioni, da cui però aveva escluso il marito spilorcio. Moravia allora fece ricorso e ottenne la metà di quel patrimonio. E’ proverbiale il suo slancio filantropico.

Il Pci, nel 1984, lo fece eleggere al Parlamento europeo perché aveva confessato in una auto-intervista all’Unità che ardeva di passione per il pericolo nucleare.  Un modesto obbiettivo per il quale gli è bastato presenziare a Strasburgo sette volte in cinque anni. Per questo il mondo gli deve riconoscenza imperitura (intanto la Cee gli ha già corrisposto discreti stipendi da parlamentare).