La missione impossibile di Yang Zhizhu

Yang Zhizhu

Yang Zhizhu con i due figli

La Bussola quotidiana 21 gennaio 2011

di Riccardo Cascioli

Anche i dissidenti cinesi non sono tutti uguali, e mentre Hillary Clinton ha perorato pubblicamente la causa di Liu Xiaobo, insignito recentemente del Premio Nobel per la Pace, neanche un cenno per Yang Zhizhu, l’uomo che sta clamorosamente sfidando il regime cinese portandolo in tribunale e attirando anche l’attenzione dei giornali cinesi.

Ma chi è Yang Zhizhu? Lo ha scritto lui stesso sul suo blog: «Originalmente ero docente associato alla China Youth University for Political Sciences. Mia moglie è rimasta incinta per errore e non ci sentivamo di abortire. Così il 21 dicembre 2009 è nata la nostra seconda figlia. Nell’aprile 2010 sono stato licenziato dall’Università». Applicata implacabilmente la “legge del figlio unico”, che dal 1979 impone alle coppie di non avere più di un figlio. E se nelle città la punizione si risolve in multe, perdita del lavoro e dell’assistenza sociale, nelle campagne va anche peggio: aborto e sterilizzazioni forzate, infanticidi, villaggi rasi al suolo.

Lo hanno ricordato anche a Barack Obama quegli attivisti per i diritti umani che hanno indetto una manifestazione pubblica a Washiongton alla vigilia del vertice tra Obama e il presidente cinese Hu Jintao: «Mentre siamo riuniti a Washington – ha detto Chai Ling, uno dei capi della rivolta studentesca di Piazza Tienanmen – oggi in Cina ci saranno oltre 35mila aborti forzati. E’ come se avvenisse un massacro di Piazza Tienanmen ogni ora».

Yang Zhizhu è l’eroe che sta dando voce a questo popolo di perseguitati. Con la perdita del lavoro è arrivata anche una multa salatissima di 240mila yuan, quando il suo stipendio mensile era di 960 yuan, ridotto a 368 yuan dopo il licenziamento. Allora Yang ha fatto ciò che fino ad oggi era inimmaginabile: non solo si è rifiutato di pagare, ma ha presentato una denuncia contro l’ente governativo che aveva comminato la sanzione: la Commissione per la pianificazione familiare del distretto di Haidian.

E a chi gli chiede perché si rifiuta di pagare, Yang risponde: «Non c’è motivo per pagare. Siamo noi a dar da mangiare ai nostri figli, non il governo. La mia seconda figlia, Renan, non ha neanche diritto alla registrazione ufficiale. In un paese come questo, senza registrazione, non sei riconosciuto neanche come un essere umano e non hai alcun diritto, figurarsi l’assistenza. E’ come dare da mangiare ai tuoi animali. Anzi peggio, perché per i tuoi animali domestici il governo non ti mette multe. Inoltre, quando è nata Renan, ci è stato tolto anche il sussidio che spettava al primo figlio».

Ma la ribellione di Yang non si è fermata qui: a settembre si è messo “in vendita” nel centro di Pechino (vedi foto), disposto a diventare lo schiavo di chi lo comprerà: «Non ho soldi e posso pagare la mia sanzione solo vendendomi. Ma siccome non sarò in grado di prendermi cura dei miei figli una volta venduto, il mio prezzo è di almeno 640mila yuan. Chiunque deciderà di comprarmi mi avrà schiavo fino alla mia morte. Non accetto donazioni, perché davanti ai miei figli non voglio vivere da parassita».

Una provocazione? Sicuramente. Ma non siamo in Italia, siamo in Cina e le provocazioni si pagano a caro prezzo. E Yang sta conducendo una battaglia “impossibile”, consapevole che per lui e la sua famiglia può finire molto male. Anche perché non può contare su molta comprensione in Occidente, dove imbarazza chi lotta contro il governo cinese in nome del diritto alla vita.

Eppure si ha l’impressione che l’azione di Yang sia come il granellino di sabbia capace di bloccare un grande e complesso ingranaggio. Tanto è vero che anche la stampa cinese ha cominciato a prestargli attenzione: il primo a tirar fuori la storia è stato il Beijing Times, giornale in lingua inglese controllato dal Partito comunista, che ha addirittura citato le parole di Yang quando affermava che la seconda figlia «è stata un dono di Dio». Poi è stato ripreso da altre riviste, tra cui il Century Weekly, secondo cui ci sono ormai diversi esperti che sostengono che mettere al mondo i figli sia un “diritto fondamentale” che non può essere negato dallo Stato. Tutte voci che si uniscono a quanti – anche all’interno del regime – cominciano ad essere preoccupati per gli effetti aberranti di questa politica, sia sociali che economici.

Varata nel 1979 con l’obiettivo di contenere la popolazione cinese sotto il miliardo e duecento milioni di abitanti nel 2000, la “legge del figlio unico” è stata una delle principali fonti di violazioni dei diritti umani. Le atrocità compiute dal regime cinese per ottenere questo obiettivo sono ben documentate in libri, riprese video e articoli: tra le conseguenze di questa “violenza di stato” che – non dimentichiamolo – è stata ed è tuttora finanziata dalle istituzioni internazionali, c’è la diffusa pratica dell’infanticidio ai danni delle bambine, visto che per motivi economici e culturali i cinesi preferiscono il figlio maschio.

Secondo stime attendibili, mancherebbero oggi all’appello in Cina ben 40 milioni di bambine, con uno squilibrio drammatico tra popolazione maschile e femminile. Se nel 1979 il rapporto era di 106 maschi nati per cento femmine, oggi si è arrivati a 120 contro 100, e in alcune regioni addirittura a 140 contro 100. A causa di questo squilibrio si calcola che oggi ci siano 25 milioni di giovani cinesi che non sono in grado di sposarsi, cifra che dovrebbe toccare i 40 milioni nel 2020.

E’ un fenomeno che si concentra soprattutto nelle aree rurali e in un contesto culturale in cui sposarsi è indispensabile per raggiungere un dignitoso status sociale, per cui si comprende che si tratta di una vera e propria bomba sociale che può esplodere in qualsiasi momento. Il fenomeno della tratta di giovani donne rapite in Vietnam, Corea del Nord e Myanmar per trovare moglie a questi cinesi è solo uno degli aspetti più evidenti di questa situazione. C’è poi il fenomeno delle “figlie nascoste”, che nelle aree rurali vengono fatte nascere (magari corrompendo i funzionari locali) ma non sono registrate. Si stima che sia un esercito di 100 milioni di bambine e donne senza alcun diritto, ufficialmente non esistenti. Un dramma nel dramma.

Ma gli economisti sono preoccupati anche per il rapido invecchiamento della popolazione – il più rapido sperimentato da un paese – causato da questo crollo della fertilità imposto: nel giro di pochi anni la Cina potrebbe trovarsi a corto di forza lavoro per alimentare la propria crescita economica e i “figli unici” di oggi si troveranno a sostenere un numero di anziani insostenibile, considerato anche che parliamo di un paese che non ha la rete di servizi sociali e ammortizzatori tipici dei paesi già industrializzati.

Yang Zhizhu non si è mosso perché vuole cambiare la Cina, lui vuole soltanto il diritto di amare i propri figli e di prendersi cura di loro. Ma questo gesto di amore legge la realtà di almeno altri 400 milioni di cinesi che in questi 30 anni, sono stati in un modo o nell’altro “colpiti” da questa legge. Tanti per non costituire una minaccia per il futuro del regime.