La super ideologia

Il Sabato n.48 – 26 Novembre 1988

C’è una formula diffusa, soprattutto nella cultura democristiana, secondo cui la democrazia si identifica con la fine delle ideologie. È un equivoco pericoloso, dietro cui si cela una nuova ideologia positivista. È la super ideologia che oggi ha preso il sopravvento. Come è potuto accadere questo rovesciamento? E cosa c’entrano i cattolici in un simile progetto? Augusto del Noce in queste pagine dà una risposta originale e provocatoria. In primo piano, in questa strategia egemonica, c’è anche molto pensiero cattolico. Anzi, i cattolici di un’intera generazione. Eccone una storia senza remore

Augusto Del Noce

E’ diffusa oggi — e starei per dire soprattutto tra i democristiani — la formula della «fine (o del superamento) delle ideologie». Ha da tempo oscurato «l’ideale storico-concreto» maritainiano della «nuova cristianità», come si trattasse della formula ultima che il pensiero ideologico potesse assumere presso i cattolici. È il dopo-Maritain della cultura politica cattolica che ha incidenza reale nella politica effettuale mentre assai scarsa era stata quella del pensiero maritainiano autentico (si potrebbe parlare di una sua «recezione italiana», alquanto diversa dall’originale).

Il suo senso più ovvio è questo: perché possa esserci «democrazia compiuta», tale da rendere possibile l’alternanza, occorre che il campo della politica sia riservato alle «cose concrete», ai problemi particolari; debbono perciò essere bandite le ideologie, come atti pratici rivolti alla conquista del potere, presentati sotto vesti pseudo filosofiche o pseudo religiose.

Per troppo tempo speculatori politici, consapevoli o meno del loro agire, hanno fatto intervenire l’Essere (con la maiuscola) sotto la forma trascendente della volontà di Dio, o sotto quella immanentistica del senso della storia; la realtà superiore alla volontà dell’uomo è stata invocata per venire usata come strumento di questa volontà. E sempre questi interventi hanno avuto un significato totalizzante; la fine delle ideologie sarebbe sinonimo del passaggio alla vera democrazia.

Il paradigma antifascista

E un discorso che sembra plausibile. Tuttavia, il fatto stesso che elimini prospettive tradizionali deve portare a esaminarlo con la maggior cura. Le domande prime saranno queste: come ha potuto diffondersi nel mondo cattolico, che fino a non molti anni fa gli era del tutto estraneo? Quale filosofia esso implica? Quali conseguenze pratiche può avere?

Rispetto alla prima dobbiamo riferirci al «paradigma antifascista» che ha dominato, e in notevole parte continua a dominare, il mondo culturale politico: mito difficilissimo da sradicare, anche contro l’evidenza dei fatti che lo contraddicono, perché presenta la convergenza obbligata di due linee per sé diverse, l’illuministica e la marxiana, concordi però nel non ammettere una revisione nei riguardi della storia contemporanea. E che, quel che è peggio, non possono pensare altrimenti.

Per questa interpretazione il fascismo, considerato arbitrariamente come fenomeno internazionale che si differenzia secondo i vari paesi restando però identica la sua natura, è il «male del secolo», o anzi il male in cui si riassumono i mali dell’età moderna; è la rivolta contro la razionalità della storia operata da parte di coloro che la storia ha oltrepassato. Dal momento della più grande crisi che la storia abbia conosciuto, e che si è aperta con la Prima guerra mondiale, il fascismo diventa la crisi stessa. Definibile nei termini, comuni a illuministi e a marxisti, di reazione contro il progresso storico.

Ora, come questo paradigma poté diffondersi senza quasi incontrare resistenza nel mondo cattolico, pur chiaramente non corrispondendo né agli insegnamenti dei pontefici Pio XI e Pio XII, né alla tradizionale filosofia della storia cattolica? Secondo questa, infatti, è nell’espansione dell’ateismo, nel secolarismo, nell’immanentismo in genere, che deve essere ricercata la ragione ultima della grande crisi, né è legittimo dissociarne un momento considerandolo come il male radicale. E il più singolare è che ciò avvenga mentre studiosi laici la stanno riscoprendo: il paradosso presente è infatti quello per cui una notevole parte di studiosi laici incontra questa interpretazione, mentre un’altrettanto notevole, per numero, parte dei cattolici fa di tutto per allontanarsene.

La terza generazione

Non è questo comunque il momento per trattare di questo tema nella sua generalità. Limitiamoci invece a vedere quale sia stata la visione del mondo contemporaneo in gran parte di quei cattolici che compivano i vent’anni tra il ’45 e il ’50, e intendevano partecipare con passione alla vita politica, e che rappresentano oggi gran parte dei quadri dirigenti della Dc, e che hanno contribuito in maniera decisiva a formare la nuova generazione; aiutandoci in questo col ricco materiale che Giovanni Tassani ha raccolto nel suo libro La terza generazione (edizioni Lavoro, Roma 1988).

Dobbiamo cominciare con l’osservare che i cattolici degli anni Trenta non potevano prevedere di essere chiamati alla gestione del governo nella maniera che avvenne.

Apriamo qui una parentesi: chi infatti avrebbe potuto immaginare, mezzo secolo fa, che l’Italia sarebbe stata governata per più di quarant’anni, e probabilmente per molti altri ancora, dal partito dell’«unità non confessionale dei cattolici» (perché questa è la definizione storica della Dc) e che questo suo governo avrebbe proprio coinciso con quella secolarizzazione delle coscienze che i liberi pensatori di più di un secolo fa auspicavano senza riuscirci (il termine data da allora, e credo sia stato introdotto dalla scuola hegeliana di Napoli), pensando però insieme che tale secolarizzazione avrebbe dovuto fare tutt’uno col radicarsi del forte sentimento della nazionalità italiana, mentre invece è avvenuto esattamente l’opposto?

Nell’atteggiamento che i cattolici giovani degli anni Trenta assumevano riguardo alla politica troviamo prevalenti due linee.

I cattolici e il fascismo

1. Quella che pensava a una successione pacifica al fascismo. Il fascismo, nuovo Leviatano, provvidenziale della provvidenzialità di questo animale biblico, avrebbe debellato i nemici tradizionali del cattolicesimo — liberalismo, socialismo, massoneria — ma si sarebbe risolto in questa introduzione negativa a una restaurazione cattolica.

Padre Gemelli aveva scritto nel 1919, al momento della fondazione dell’università Cattolica che «i cattolici debbono essi fare la rivoluzione, ossia sostituire allo Stato liberale lo Stato cristiano contro i rossi e i bolscevichi».

Il fascismo era un momento di questa rivoluzione: avrebbe rappresentato la meno cruenta delle transizioni da un’età moderna, il cui secolarismo non aveva saputo portare che a un’immane tragedia, a una nuova cristianità.

E’ una linea che entrò in crisi quando apparve chiaro che la funzione di guida dei tanti movimenti che in tutta l’Europa continentale si opponevano insieme a democrazia e a comunismo stava passando dal fascismo italiano al nazismo.

2. Quella della scelta religiosa: obbedienza al regime fascista, nei limiti in cui non pretendesse di elevarsi a religione; noi non facciamo politica, a condizione che voi non facciate religione. Riuscì a preservare una notevole parte della gioventù italiana dall’influenza fascista, e fu un risultato di grande importanza. Esercitò una funzione decisiva per quel che riguarda il fallimento delle ambizioni totalitarie del fascismo. Ma, intenzionalmente, e proprio per attendere a questo compito, non si esprimeva in scuole di formazione politica.

Ma poi era venuta la guerra e la non preveduta Resistenza: in essa la prospettiva degli anni Trenta si era rovesciata: il fascismo era diventato il contenitore di tutti i mali, e il comunismo l’alleato.

Questo accordo si era allentato nei primi mesi del dopoguerra e successivamente rotto; e la borghesia aveva visto nel partito cattolico (allora, nell’uso corrente, partito cattolico e democrazia cristiana erano intesi come sinonimi), l’unica forza capace di impedire il successo comunista («l’argine», «la diga», eccetera). E per l’unione tra la causa religiosa e la ragionevole, e non soltanto borghese, paura, si giunse alla vittoria del 18 aprile. Possiamo renderci conto della preoccupazione — davanti a un risultato a cui pure avevano contribuito — dei giovani che avevano raggiunto i vent’anni nel clima della Resistenza’ o negli anni immediatamente successivi.

Il loro ragionamento era semplice: il fascismo era arrivato al potere, e l’aveva tenuto per vent’anni, in ragione della «paura del comunismo»; questa stessa paura aveva portato al potere la De. Il pericolo maggiore non era dunque più il comunismo, ma un’involuzione autoritaria del partito dei cattolici, che il clima della guerra fredda aveva reso tanto maggiormente possibile; e già la svolta sembrava prefigurata ai loro occhi in quei Comitati civici, che per il voto del 18 aprile avevano avuto una funzione decisiva.

Rinunciare all’anticomunismo senza essere però comunisti. Tale formula in cui la loro posizione può venire riassunta voleva dire che mentre il fascismo non è suscettibile di evoluzione democratica e deve anzi proseguire la sua via fino alla negazione estrema della cristiana eguale dignità di ogni persona umana, ossia sino al razzismo, il comunismo lo è; e si deve accompagnare questa evoluzione, pur senza transigere sulla differenza.

Inoltre, all’idea tradizionale dell’«anti-moderno» bisognava sostituire quella secondo cui se nell’età moderna tante idee positive avevano potuto farsi luce solo attraverso la connessione con modi di pensare che si affermavano come anticattolici o addirittura ateistici, ciò era da attribuire al «sonno sui principi» da parte cattolica; alla riduzione a «formule» delle verità della grande tradizione cristiana. Così era accaduto che la verità sulla situazione italiana era stata espressa da scrittori intransigentemente laici o anche comunisti (Gobetti, Gramsci, Dorso, Salvemini) diventati, sul piano politico, la loro lettura preferita, soprattutto Gramsci; lettura che, almeno come raccomandazione o aspirazione, avrebbe dovuto unirsi a quella «autentica» dei Padri e dei Dottori, al di fuori delle parafrasi e dei riassunti degli scrittori cattolici di tempi recenti.

Si intende a partire da ciò il riconoscersi di questi giovani in quel che è stato detto il «dossettismo». L’allora giovane leader aveva rappresentato la conversione all’antifascismo dei più freschi elementi dell’università Cattolica.

Un rovesciamento di prospettiva per cui da quello che vorrei chiamare «afascismo profascista», tale per quella comunanza di avversari che, come già si è detto, sembrava conciliare cattolici e fascisti, si passava alla collaborazione con i laici e con i comunisti contro l’avversario nazifascista; e si compiva questa conversione negli anni ’40-’41 quando ancora le sorti della guerra sembravano favorevoli all’Asse, e soprattutto — e la figura di Dossetti appariva, giustamente, emblematica — il passaggio all’impegno politico avveniva per dovere religioso.

Tra i ventenni degli anni Trenta c’era inoltre un’altra linea cattolica antifascista che non ripeteva i moduli dell’antico popolarismo, con cui era difficile comunicare perché sorto in altro clima: quello dei Rodano e dei Balbo; la sinistra cristiana, i cui aderenti vedevano nel comunismo una rivoluzione necessaria a cui i cristiani dovevano partecipare, perché si sarebbe risolta in una purificazione della vita religiosa; alcuni di essi militavano nel Pci, altri se ne erano staccati, senza rinnegare però la loro adesione passata.

I cattolici a due piani

Ma per Dossetti quello stesso dovere religioso che lo aveva portato alla politica nei primi anni Quaranta lo persuadeva a staccarsene, e ciò avveniva — caso che ha ben pochi riscontri — proprio al momento del maggior successo presso i giovani. Per lui, infatti, gli errori politici dei cattolici avevano radici ben più profonde che le decisioni di particolari uomini e si doveva risalire a una vera «riforma» della Chiesa; vera, cioè nell’ortodossia, affatto diversa da quelle false dell’eresia.

Era una posizione naturale in quella crisi del laicato dell’università Cattolica che si apriva con lui: l’illusione sul fascismo degli anni tra il ’29 e il ’38, che era stata più profonda di quel che oggi si sia disposti a pensare, non era che un aspetto della costante illusione che portava i cattolici a destra nelle scelte politiche; non poteva perciò non avere radici teologiche profonde; era il cattolicesimo postridentino che doveva essere ripensato.

Di qui, nell’agosto-settembre del ’51, al momento del congedo dalla politica, la sua distinzione dei due piani: quello politico, in cui i suoi allievi che si sentissero chiamati a tale compito avrebbero dovuto fronteggiare il pericolo dell’involuzione; e quello religioso in cui la crisi sarebbe stata considerata nel suo livello più profondo.

Il fatto è che i due piani non potevano essere tanto rigorosamente distinti e quelli che diremmo con frase approssimativa, in cui non vuole esserci la minima punta di malizia, gli orfani politici di Dossetti, si trovarono ad affrontare il problema del comunismo nei termini che già si sono detti.

Non potevano perciò non incontrare le tesi della sinistra cristiana e proprio nelle forme di Rodano e di Balbo (non di quella di Adriano Ossicini, in cui è piuttosto da ravvisare una continuazione della linea di Miglioli, dunque un maggior collegamento col popolarismo di sinistra): ora, qual era il tratto essenziale di questa linea se non appunto la distinzione tra un marxismo come scienza, guida per l’interpretazione corretta dei conflitti sociali, e un marxismo come filosofia, che nella figura che assumeva di materialismo dialettico aveva puro carattere di sovrastruttura ideologica?

Il ricorso alla copertura materialistica nel senso filosofico aveva rappresentato per il marxismo una necessità, dato che, nel tempo in cui era sorto, le posizioni conservatrici adducevano a loro difesa, le varie forme di pensiero spiritualistico: così che materialismo finiva col significare progresso e rivoluzione, spiritualismo e idealismo giustificazione dell’ordine esistente. Ma quando le posizioni politiche di ispirazione religiosa avrebbero compreso che l’alleare la causa della verità alla difesa di interessi significava la riduzione di Dio a feticcio, anche nel comunismo avrebbe avuto inizio un processo per cui l’impostazione ateistica sarebbe stata abbandonata.

Era questo il tema centrale della sinistra cristiana, posizione che i giovani democristiani erano portati ad accostare dopo la fine del dossettismo; ed è stata la sinistra cristiana a introdurre nel dibattito politico il tema del «superamento delle ideologie».

Equivoci marxisti

Il termine ideologia era già stato usato dal marxismo per designare una sovrastruttura mistificante in termini spiritualistici forze che non hanno proprio nulla di spirituale, quali gli interessi di classe; nella sinistra cattolica questo suo significato veniva generalizzato, così da poter venire applicato al marxismo stesso quando esso intendeva presentarsi come concezione generale della vita.

L’intenzione che muoveva a ciò era indubbiamente quella di affermare che il marxismo, valido nella sua critica delle forme idealistiche di immanentismo, tutte concludenti nella giustificazione, diretta o indiretta, dell’ordine storico esistente, non lo era invece contro il pensiero cattolico, trascendente ogni ordine storico.

Ma rischiava di portare a tutt’altra conseguenza, quella della riduzione di ogni concezione della vita, la cristiana e la marxista incluse, a ideologie spiegabili per il riferimento alle situazioni sociali e storiche in cui erano sorte. Si incontrava così un’altra filosofia, più pericolosa del marxismo stesso, il positivismo nella sua accezione più radicale.

Che cos’è infatti l’opposto dell’ideologia, intesa in questo senso negativo, se non la scienza? E non si possono bandire dal dominio della realtà politico e sociale, dall’ordinamento della realtà mondana, le concezioni della vita, se non promuovendo la scienza a tipo unico di conoscenza e a principio dell’organizzazione del mondo umano; e la scienza intesa nel senso moderno, come orientata verso il dominio tecnico del mondo. Il «tramonto delle ideologie» viene ad assumere così il senso dell’ideologia giustificante la società che oggi viene abitualmente chiamata tecnocratica, e ne accompagna il processo, già molto avanzato, di predominio egemonico.

Il tramonto delle ideologie

Tutti gli aspetti deteriori che presenta, e che sono stati oggetto di tante critiche, si possono facilmente dedurre da questo integrale positivismo, che ne è l’ideologia, anche se non si dichiara come tale.

Il nichilismo infatti, come generale devalorizzazione dei valori fino a ieri considerati come supremi, è l’altra sua faccia. Perché la scienza, considerando la realtà nell’aspetto di sistema di forze, non può proporre valori, e, quando venga assolutizzata nella forma di scientismo, non può che elevare a valore la stessa forza.

La nuova forma di totalitarismo che oggi ci minaccia non può avere origine che in questo scientismo; ed è una forma assai più raffinata di quelle, oggi non più ripetibili non già perché troppo barbare, ma perché primitive, dello stalinismo e dell’hitlerismo. Tutto questo non rientrava certo nelle previsioni di quei giovani democristiani di cui ho parlato dianzi; tuttavia le formule agiscono indipendentemente dalle intenzioni, e l’eterogenesi dei fini è tra i caratteri più salienti della realtà contemporanea; nella situazione di oggi la «fine delle ideologie» assume il senso che si è detto.

Si è data in questo discorso molta importanza all’influenza che sulla parte cattolica hanno avuto le tesi già avanzate dalla sinistra cristiana, un piccolo partito che si spense più di quarant’anni fa. Ma valga il parallelo con l’azionismo; entrambe queste formazioni passarono dalla politica elettorale alla politica della cultura; e anche oggi gran parte dell’opinione culturale è influenza in maniera decisiva dai loro giudizi, anche se non è consapevole di questa origine. E che tali giudizi fossero, in chi li pensava allora, associati a speranze del tutto diverse, poco importa.