“Raccolto di dolore”, storia della carestia terroristica (Ucraina ’32)

pubblicato su Il Foglio

del 9 gennaio 2004

A DICIOTTO ANNI DALLA SUA USCITA IN AMERICA, FINALMENTE TRADOTTO IN ITALIANO IL SAGGIO DI ROBERT CONQUEST

Pubblichiamo ampi stralci dell’introduzione di “The harvest of Sorrow” di Robert Conquest, ora tradotto, a diciotto anni dalla sua uscita in America, da Liberal edizioni in collaborazione con Ukrainian Studies Fund di New York: “Raccolto di dolore” sarà in libreria ai primi di marzo.

(traduzione di Sergio Minucci)

Cinquant’anni fa, l’Ucraina e le terre situate a est di quella regione – un vasto territorio abitato da circa quaranta milioni di abitanti – apparivano come un unico, immenso Bergen-Belsen. Un quarto della popolazione rurale era morta o moribonda, e gli altri versavano in vari stadi di debilitazione, privi perfino della forza di seppellire i familiari o i vicini.

Allo stesso tempo (come accadde a Bergen-Belsen) ben nutrite squadre di polizia e di funzionari del partito sorvegliavano le vittime. Tutto ciò rappresentò il momento culminante di quella che Stalin definì la “rivoluzione dall’alto”, nel corso della quale lui e i suoi uomini annientarono due elementi considerati irrimediabilmente ostili al regime: la classe contadina dell’Urss nel suo complesso, e la nazione ucraina. […]

Nel 1929-1932, il Partito comunista sovietico guidato da Stalin sferrò un duplice attacco contro la classe contadina dell’intero paese: la dekulakizzazione e la collettivizzazione. Dekulakizzazione significò la soppressione o la deportazione nelle regioni artiche, insieme alle loro famiglie, di milioni di contadini. In teoria tutti quelli ricchi, in pratica tutti i più influenti e tutti coloro che con maggior vigore si opponevano ai piani del partito.

Collettivizzazione significò l’abolizione della proprietà privata della terra e la concentrazione dei contadini sopravvissuti in aziende agricole “collettive”, poste sotto il controllo del partito. Queste due svolte provocarono la morte di milioni di persone, soprattutto tra quanti furono deportati, ma anche tra i contadini collettivizzati (in particolare in alcune regioni, come ad esempio nel Kazachstan).

Successivamente, nel 1932-’33 ci fu quella che può essere definita una “carestia terroristica”, inflitta ai contadini collettivizzati dell’Ucraina e del Kuban in gran parte ucraino (oltre alle regioni del Don e del Volga), attraverso l’imposizione di quote di ammasso di frumento di gran lunga superiori alle possibilità reali, la requisizione totale di tutti i generi alimentari, e l’impedire che un aiuto esterno, perfino da altre regioni dell’Urss, raggiungesse le popolazioni affamate.

Questa politica fu accompagnata da un attacco su vasta scala contro tutti i maggiori centri ed esponenti culturali e intellettuali ucraini, e contro le Chiese d’Ucraina. La presunta renitenza dei contadini ucraini a consegnare il grano che non avevano, venne esplicitamente addebitata al nazionalismo, il che ben si accordava con il detto di Stalin che il problema nazionale fosse essenzialmente un problema contadino.

Il contadino ucraino venne così a soffrire doppiamente: in quanto contadino e in quanto ucraino. Ci troviamo di fronte quindi a due elementi distinti, o almeno parzialmente distinti: la lotta del partito contro i contadini e quella contro il sentimento nazionale ucraino. E prima di raccontare gli eventi culminanti di questa storia sarà bene esaminare i precedenti di entrambi.

Dal 1929 al 1933 (un periodo che durò pressappoco quanto la Prima guerra mondiale), ebbe luogo nelle campagne sovietiche una lotta di pari dimensione. Sebbene limitata a un singolo Stato, la guerra scatenata da Stalin contro i contadini provocò un numero di vittime più alto del totale delle vittime di tutti i paesi coinvolti nella Prima guerra mondiale.

Vi sono però alcune differenze: nel caso sovietico solo uno dei due belligeranti era armato, e le vittime (come c’era da attendersi) furono quasi tutte nel campo opposto. Per di più, inclusero donne bambini e anziani. […] Con questo libro mi prefiggo uno scopo abbastanza anomalo: imprimere nella coscienza della società occidentale la conoscenza di eventi che hanno coinvolto milioni di persone e provocato milioni di morti.

Ma come è possibile che essi non siano già compiutamente impressi nella nostra coscienza? […] Uno degli ostacoli più grossi è consistito nell’abilità di Stalin e delle autorità sovietiche nel nascondere o confondere la realtà, essendo tra l’altro facilitati in questo compito da molti occidentali che per un motivo o per l’altro avevano interesse a ingannare o a essere ingannati.

E anche quando questa realtà, o almeno una sua parte, riusciva a filtrare in modo generico nella coscienza degli occidentali, c’erano sempre delle formule sovietiche pronte a giustificarla, o quanto meno a scusarla. In particolare, fu proiettata l’immagine del “kulak” sfruttatore, ricco, potente e impopolare, da epurare (anche se in modo alquanto inumano) in quanto nemico del partito, del progresso e delle masse contadine.

In realtà la figura del kulak, ammesso che sia mai esistita, era scomparsa fin dal 1918, e con tale appellativo si definiva in realtà chiunque possedesse due o tre mucche, o perfino il più povero contadino amico di questi.

Al tempo della “carestia terroristica”, anch’essi erano ormai scomparsi dai villaggi. La dekulakizzazione sarebbe infatti potuta avvenire anche senza collettivizzazione (e qualcosa del genere era in realtà avvenuto nel 1918), e la collettivizzazione avrebbe potuto compiersi anche senza dekulakizzazione, come alcuni comunisti avevano in effetti sostenuto.

Gli attacchi furono sferrati dal governo sovietico in modo strettamente collegato fra loro, sebbene a prima vista tra le due azioni non esistesse alcun nesso logico. E la carestia non costituì affatto un evento ineluttabile. [… ]

I fatti che narreremo non sono semplicemente il risultato di semplice brama di potere, della volontà di sopprimere tutte le forze autonome esistenti nel paese, bensì furono il frutto di un’analisi teorica relativa ai risultati sociali ed economici raggiungibili attraverso le armi del terrore e della menzogna. I risultati sperati non furono in realtà raggiunti.

Si può tuttavia affermare che sopportare sacrifici di tali dimensioni, in nome di un dogma fino a quel momento privo di qualsiasi riscontro pratico, costituisca un’aberrazione morale e mentale, anche a prescindere dalle motivazioni inconsce o inconfessate, riscontrabili in questo così come in qualsiasi altro caso. Vale a dire che, al di là di semplici motivi di carriera, vendetta o vantaggio personali, ma a un livello più profondo (chiaramente individuato da Orwell), i comunisti “fecero credere, e forse credettero essi stessi, di aver preso il potere senza in realtà volerlo, e solo per un periodo limitato di tempo; che proprio dietro l’angolo esistesse un paradiso dove tutti gli esseri umani sarebbero stati liberi e uguali”, sebbene in realtà “il potere non è un mezzo, è un fine”.

Qualsiasi opinione si abbia al riguardo (e perfino volendo accettare le motivazioni degli stalinisti così come essi le esponevano) appare evidente che per molti aspetti quella razionalità che gli stessi avversari del programma staliniano riconoscevano non esisteva affatto, se non a un livello superficiale, assolutamente inadatto a una realtà tanto complessa.

La figura di Stalin aleggia sull’intera tragedia umana degli anni 1930-’33. Ciò che soprattutto caratterizzò l’intero periodo fu quel particolare clima d’ipocrisia e di evasività che riuscì a creare. Tale clima non rappresenta necessariamente un elemento intrinseco alla politica del terrore, ma in questo caso specifico l’inganno fu alla base di tutte le azioni compiute in quegli anni.

Durante la campagna contro la destra egli non si lanciò mai (se non all’ultimo momento) in un attacco pubblico, ricorrendo al contrario, nei momenti di maggior tensione, al compromesso, anche se solo a parole. Durante il processo di dekulakizzazione, egli dette a intendere che esistesse davvero una “classe” di contadini ricchi che i contadini poveri espropriavano spontaneamente.

Nel corso della collettivizzazione si sostenne sempre ufficialmente che si trattava di un movimento volontario, e che qualsiasi ricorso alla forza avrebbe costituito una deplorevole aberrazione. E quando giunse la “carestia terroristica” nel 1932-33, egli ne negò semplicemente l’esistenza. […]

Disponiamo oggi di tante e tali prove e riscontri incrociati da non lasciare più alcun serio dubbio su nessun specifico aspetto di quel periodo. Tali prove sono così riassumibili: innanzitutto disponiamo oggi di una gran mole di materiale direttamente concernente quegli eventi.

Spesso si tratta di piccole rivelazioni inserite in un mare di dichiarazioni ortodosse da parte di studiosi sovietici, sebbene ciò si riscontri più di frequente durante il periodo di Chruscév, soprattutto nei primi anni Sessanta, che non negli anni successivi. […]

Gli studiosi sovietici hanno inoltre nuovamente confermato e rese pubbliche le cifre del censimento del 1937, precedentemente soppresso. Siamo così oggi in grado di comparare tali cifre con le stime sovietiche sul “tasso naturale di crescita” di quel periodo, e calcolare quindi con ragionevole precisione l’enorme numero di vittime degli anni 1930-’33 (va comunque detto che anche accettando le cifre del censimento contraffatto dei 1939 tale numero rimane comunque impressionante).

Disponiamo poi di materiali ufficiali di quel periodo e che includono resoconti straordinariamente sinceri apparsi sulla stampa sovietica, soprattutto al di fuori di Mosca, parte dei quali è stata resa disponibile soltanto recentemente. Numerosi documenti segreti a livello locale sono inoltre giunti in vari modi in Occidente, ad esempio quelli contenuti nell’”Archivio di Smolensk” ora ad Harvard. Abbiamo poi la testimonianza di ex attivisti di partito, che presero parte all’attuazione pratica delle direttive del partito nei confronti dei contadini […].

Un’altra importante fonte è costituita dai resoconti di alcuni dei corrispondenti stranieri, a quel tempo in Russia (sebbene essi venissero allora notevolmente ostacolati nei loro compiti, o anche scavalcati da altri colleghi desiderosi di non inimicarsi le autorità sovietiche o perfino di divenirne complici). Abbiamo le testimonianze di cittadini stranieri in visita ai loro luoghi di origine o di comunisti stranieri che lavoravano in Urss.

Ci sono poi le lettere degli abitanti dei villaggi a correligionari o parenti in Occidente. Soprattutto, esistono un gran numero di testimonianze di prima mano da parte di coloro che sopravvissero alle deportazioni e alla carestia. Alcune di queste appaiono in singoli libri o articoli, mentre molte di più se ne trovano nell’immenso lavoro di documentazione compiuto da studiosi ucraini che hanno cercato con grande impegno le testimonianze di persone sparse in tutto il mondo.

[…] La caratteristica più interessante di tali testimonianze, specialmente quelle rese dagli stessi contadini, è il tono pacato e realistico con il quale quegli eventi terribili vengono solitamente narrati. E’ particolarmente gratificante poter confermare e dare pieno credito a queste fonti di prima mano. Per lungo tempo testimonianze oneste e veritiere sono state messe in dubbio e rifiutate, dai sovietici naturalmente, ma anche da molti occidentali, che per vari motivi non erano preparati ad affrontare una realtà così terrificante.

Ed è una grande soddisfazione che oggi quei tenaci testimoni della verità, così a lungo calunniati o ignorati, possano essere pienamente riabilitati. Vi è poi la narrativa, o meglio, la realtà sotto forma di narrativa. Uno dei più eminenti studiosi di economia sovietica, Alec Nove, ha notato che in Urss “le notizie più interessanti sulla vita rurale appaiono sui periodici letterari”.

[…] Scrive Pasternak nelle sue memorie inedite: “All’inizio degli anni Trenta, tra gli scrittori si diffuse la pratica di recarsi nelle fattorie collettive per raccogliere del materiale sulla nuova vita dei villaggi. Volli far anch’io come tutti, e così affrontai tale viaggio con l’idea di scrivere un libro. Ciò che vidi non poteva essere espresso a parole.

C’era una miseria così inumana, così inimmaginabile, un disastro così terribile che quasi cominciò a sembrare irreale, oltrepassava i limiti del cosciente. Mi ammalai. Per un intero anno non potei più scrivere”.

Anche per me, seppur investito da impressioni molto meno dirette, il compito si è rivelato spesso così angoscioso da farmi a volte dubitare di poterlo assolvere. Compito dello storico è scoprire e registrare quanto è realmente successo, accertare i fatti al di là di ogni dubbio e porli nel loro giusto contesto.

Assolvere questo dovere fondamentale non significa che egli non possa formarsi delle opinioni sui fatti che descrive. Non aspiro a una neutralità morale, e credo anzi che vi siano poche persone, al giorno d’oggi, che non condividano la mia valutazione degli eventi descritti nelle pagine che seguono.

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Video: https://www.youtube.com/watch?v=fe5HsMEZzCU