Il lato oscuro degli aiuti

Unhcr_OnuInternazionale n. 876
del 10-16 Dicembre 2010

Negli ultimi quarantanni gli interventi umanitari nelle aree di crisi si sono moltiplicati. Ma l’industria degli aiuti internazionali rischia di alimentare i conflitti senza risolvere i problemi della popolazione civile. L’analisi di Philip Gourevitch.

di Philip Gourevitch
The New Yorker (Stati Uniti)

Nel 1968, in Biafra, una generazione di bambini stava morendo di fame. Un anno prima la regione, ricca di petrolio, si era separata dalla Nigeria. Il governo di Lagos aveva risposto attaccando lo stato secessionista e cominciando così una sanguinosa guerra civile. I corrispondenti dei giornali stranieri che si trovavano nella zona assediata si accorsero dei primi segni della carestia in primavera, e all’inizio dell’estate segnalarono che ogni giorno morivano migliaia di bambini.

Nel resto del mondo quasi nessuno prestò loro attenzione fino a quando un giornalista del Sun, il tabloid londinese, andò in Biafra con un fotografo per ritrarre quei bambini smunti, piccoli spettri avvizziti. Per giorni e giorni il quotidiano pubblicò le foto a commento del suo straziante reportage. Ben presto la notizia fu ripresa dai giornali di tutto il mondo. Altri fotografi e operatori televisivi furono spediti in Biafra. La guerra civile in Nigeria fu la prima guerra africana a essere trasmessa in televisione.

La sfida del Biafra

La carestia del Biafra diventò improvvisamente una delle storie più emblematiche di quegli anni. La sofferenza degli innocenti scosse le coscienze di tutti. E proprio allora nacquero le organizzazioni umanitarie come le conosciamo oggi. «Ci sono state riunioni, comitati, proteste, manifestazioni, disordini, sit-in, digiuni, veglie, assemblee, lettere aperte inviate a tutti i personaggi famosi in grado di influenzare l’opinione pubblica, conferenze, film, collette», scrisse Frederick Forsyth, che continuò a inviare i suoi servizi dal Biafra per quasi tutta la durata del conflitto.

Sull’argomento Forsyth ha pubblicato anche un libro, prima di dedicarsi alla fiction con il suo primo romanzo, Il giomo dello sciacallo. «Medici e infermieri sono arrivati sul posto per alleviare le sofferenze della popolazione. Alcuni si sono offerti di prendere in casa i bambini del Biafra per tutta la durata della guerra, altri di andare volontari a combattere per l’indipendenza del paese». Forsyth stava descrivendo la reazione dei britannici, ma le stesse cose accadevano in tutta Europa e negli Stati Uniti.

I corpi dei bambini del Biafra, con le membra stecchite, la pancia gonfia e lo sguardo vuoto, erano diventati una presenza costante nei telegiornali della sera, come i servizi dalla guerra del Vietnam. Gli americani che manifestavano per chiedere che il governo intervenisse in Biafra erano spesso gli stessi che protestavano contro la presenza statunitense in Vietnam. Il loro messaggio era: lasciamo il Vietnam e andiamo in Biafra.

In quei giorni il dipartimento di stato ricevette una montagna di lettere di protesta, fino a 25mila al giorno. «Fa’ sparire quei negretti dal mio televisore», arrivò a dire il presidente Lyndon Johnson al sottosegretario di stato.

I sostenitori del Biafra facevano spesso riferimento all’Olocausto. Spinti da quel ricordo, gli occidentali che offrirono il loro denaro e dedicarono il loro tempo (e, in alcuni casi, anche la vita) alla causa del piccolo paese africano temevano che stesse per compiersi un altro genocidio. Anche per questo gli interventi umanitari ebbero dimensioni senza precedenti.

Nel 1967 il Comitato internazionale della Croce Rossa, la più antica e più grande organizzazione umanitaria non governativa del mondo, aveva un bilancio annuo di appena mezzo milione di dollari. Un anno dopo, solo per il Biafra spendeva circa un milione e mezzo di dollari al mese. Anche la crescita esponenziale di altre ong, laiche e religiose (tra cui Oxfam, Caritas e Concern), era legata al loro impegno in Biafra.

Alla fine, per difendere la sua neutralità, la Croce Rossa decise di ritirarsi dalla guerra civile nigeriana. A quel punto, però, il suo peso nelle operazioni di soccorso non era più determinante. Il Biafra era accessibile solo per via aerea, e dall’autunno del 1968 era stato aperto un ponte aereo che però non aveva l’appoggio ufficiale di nessuno stato: era interamente organizzato dalle ong.

Per sfuggire alla contraerea nigeriana, tutti gli aerei dovevano volare di notte. Nel 1969 in Biafra arrivavano duecentocinquanta tonnellate di cibo al giorno.

Fu un’impresa eroica e un successo logistico straordinario per le nuove organizzazioni umanitarie, ansiose di espiare le colpe del colonialismo e le ingiustizie dell’ordine mondiale stabilito con la guerra fredda. E infatti l’interventismo umanitario che prese corpo in Biafra – e il suo braccio legale, la lobby dei diritti umani – è probabilmente l’eredità più duratura dei fermenti del 1968.

Questa ideologia non ideologica permetteva agli occidentali, un quarto di secolo dopo Auschwitz, di non rimanere passivi di fronte alle tragedie del mondo e, al tempo stesso, dava loro l’opportunità di non identificarsi con il potere, di essere sempre dalla parte delle vittime, solidali e con le mani pulite. Le idee e i princìpi di fondo non erano nuovi, ma in Biafra presero forma e da lì si diffusero con una forza che rifletteva il desiderio crescente dell’occidente di comportarsi in modo onorevole sul campo di battaglia senza dover uccidere.

Il prezzo della pace

Trent’anni più tardi, in Sierra Leone, una giornalista olandese di nome Linda Polman saliva su un taxi collettivo diretto a Makeni, il quartier generale dei ribelli del Fronte rivoluzionario unito (Ruf). Da dieci anni il Ruf era impegnato in una guerriglia violentissima e al servizio di una politica incoerente e fine a se stessa. Mentre i leader rivo-luzionari, sostenuti dal presidente liberiano Charles Taylor, si erano arricchiti con il commercio dei diamanti, il loro esercito, composto in gran parte di bambini rapiti e drogati, saccheggiava il paese, stuprando e seviziando i cittadini e incendiando case e villaggi.

Nel maggio 2001, tuttavia, era stata firmata una tregua, e quando Linda Polman arrivò in Sierra Leone i caschi blu delle Nazioni Unite stavano ormai disarmando e smobilitando le truppe del Ruf. Il business della guerra stava per cedere il posto a quello della pace. A Makeni Linda Polman scoprì che gli ex signori della guerra, personaggi che avevano soprannomi come generale Tagliagola e sergente Stupro, avevano cominciato a chiamare i loro territori “zone umanitarie” e a definirsi “funzionari umanitari”. Come disse un ribelle diventato improvvisamente pacifista, che si faceva chiamare colonnello Vandamme, “gli uomini bianchi presto avranno bisogno di autisti, di guardaspalle e di case. E noi glieli forniremo”.

Il colonnello Vandamme chiamava gli operatori umanitari “mogli”, perché «curavano le persone ma erano anche considerati soggetti manipolabili e sfruttabili», spiega Polman. Parlando nel dialetto locale, una volta Vandamme aveva detto alla giornalista olandese: «Quelle mogli delle ong sono venute a contare quanti malati e quanti bambini ci sono nella zona». Il censimento era considerato dal colonnello un’ottima opportunità su cui lucrare: «Sono i miei bambini e i miei malati. Chiunque voglia contarli deve prima pagare me».

Polman era andata a Makeni proprio per sentirsi dire frasi come questa. Tutti pensavano che la guerra civile in Sierra Leone fosse stata una vera follia: decine di migliaia di morti, mutilati e feriti, e metà della popolazione sfollata, il tutto per niente. Ma la giornalista aveva sentito dire che la furia del Ruf era stata il frutto di «una strategia razionale e calcolata». La violenza brutale era servita a «far salire il prezzo della pace».

«Abbiamo lavorato più di chiunque altro per la pace, ma non abbiamo ottenuto quasi nulla in cambio», aveva detto a Polman un leader ribelle incontrato a Makeni. Rivolgendosi alla giornalista come a una rappresentante della comunità internazionale, l’uomo aveva poi aggiunto: «Avete guardato da un’altra parte per tanti anni. Non c’era motivo di fermarsi. Eravamo nel caos, e voi non ci avete aiutato in nessun modo».

Alla fine il Ruf aveva intensificato la violenza e la brutalità, spingendo le forze governative a fare lo stesso, e aveva assoldato bande incaricate di mutilare e seviziare la popolazione civile. «Solo quando avete cominciato a vedere il risultato di queste violenze vi siete decisi a prestare attenzione a quello che stava succedendo qui. Senza quelle mutuazioni non sarebbe venuto nessuno». La missione delle Nazioni Unite in Sierra Leone è stata l’operazione di soccorso umanitario più costosa di quegli anni. Il vecchio ribelle incontrato da Linda Polman a Makeni era convinto che, invece di essere condannati per le violenze e le mulilazioni, lui e i suoi compagni avrebbero dovuto essere elogiati per aver salvato il paese.

È davvero così? Esistono veramente dei maniaci sotto l’effetto di droghe che se ne vanno in giro a mutilare la gente per rendere più appetibile il loro paese agli occhi dei donatori internazionali? È vero che l’industria degli aiuti umanitari contribuisce a creare proprio quelle condizioni di miseria che invece dovrebbe combattere? Nel suo ultimo libro, The crisis caravan. What’s wrongtvith humanitarian aid? (La carovana della crisi. Che c’è di sbagliato negli aiuti umanitari?), Linda Polman sostiene che la risposta è sì.

Tre anni dopo la visita della giornalista a Makeni, la Commissione per la verità e la riconciliazione in Sierra Leone (Trc, assistita dall’Onu) ha pubblicato un rapporto in cui è descritto un incontro, avvenuto alla fine degli anni novanta, tra i ribelli e i soldati governativi. Il tema centrale era la comune necessità di attirare l’attenzione della comunità internazionale. Era evidente a tutti che le mutilazioni avevano ottenuto un’attenzione da parte dei giornalisti maggiore di qualsiasi altro aspetto della guerra.

«Quando abbiamo cominciato a tagliare le mani, non c’era giorno che la Bbc non parlasse di noi», ha detto un ribelle alla Trc. Gli autori del rapporto hanno osservato che «affrontare i problemi in questo modo è folle», ma allo stesso tempo hanno ammesso che, date le circostanze, «l’atteggiamento dei ribelli era figlio di un ragionamento logico». Linda Polman sceglie una posizione più provocatoria.

Seminare orrore per raccogliere aiuti e raccogliere aiuti per seminare orrore, sostiene, è «la logica dell’epoca dell’interventismo umanitario». Pensate a come le organizzazioni umanitarie cristiane che hanno creato programmi di “riscatto” per ricomprare la libertà degli schiavi in Sudan abbiano allo stesso tempo incentivato gli schiavisti a prendere sempre più prigionieri.

Pensate a come, in Etiopia e in Somalia, nel corso degli anni ottanta e novanta, le carestie provocate per motivi politici abbiano attirato gli aiuti alimentari che hanno consentito ai governi di sfamare i loro eserciti mentre continuavano a massacrare la popolazione. Pensate a come, nei primi anni ottanta, grazie agli aiuti internazionali, i khmer rossi si siano potuti nascondere nelle campagne al confine tra Thailandia e Cambogia e imporre al paese altri dieci anni di guerra e terrore. O pensate a quando, alla metà degli anni novanta, i responsabili del genocidio in fuga dal Ruanda sono stati soccorsi dalle organizzazioni umanitarie e così hanno potuto continuare le loro campagne di sterminio e di stupro fino a oggi.

E poi c’è quello che è successo in Sierra Leone dopo che le amputazioni hanno portato la pace, che ha portato nel paese le Nazioni Unite, che a loro volta hanno fatto arrivare i soldi, che poi hanno attirato le ong. Tutti, racconta Polman, volevano la loro parte degli aiuti stanziati per le persone mutilate durante il conflitto. A un certo punto uomini e donne senza braccia e senza gambe andavano in giro con i moncherini in bella vista per soddisfare le esigenze dei fotografi e delle ong. Le loro immagini sarebbero servite a portare più denaro e più aiuti.

Nell’osceno circo della carità raccontato da Polman, arrivarono medici americani in vacanza che eseguirono operazioni pericolose (e a volte con conseguenze mortali) senza l’adeguata assistenza postoperatoria, mentre altri statunitensi convinsero le donne mutilate a dare in adozione i figli, anch’essi mutilati, usando metodi tra la corruzione e il rapimento. Al governo della Sierra Leone bastava allungare una mano per raccogliere un po’ del denaro degli aiuti internazionali che pioveva sul paese.

Polman avrebbe anche potuto trovare aneddoti più edificanti e citare qualche successo delle ong: vite salvate, epidemie scongiurate, famiglie riunite. Ma dal suo punto di vista le buone intenzioni degli operatori umanitari troppo spesso fanno passare in secondo piano i danni causati dagli interventi internazionali. La Sierra Leone non è stata l’unica vittima di questo sistema. Situazioni simili, scrive Polman, si verificano dovunque siano presenti le organizzazioni umanitarie. Caso dopo caso, non è difficile dimostrare che, nel complesso, gli aiuti umanitari fanno più male che bene.

«Ma allora dovremmo stare a guardare senza fare nulla?», si chiede Max Chevalier, un olandese che a Freetown curava i mutilati per la ong Handicap International. Chevalier ha provato a dimostrare l’utilità dell’impegno delle ong trascurando il quadro storico e politico e concentrandosi, come fanno gli appelli per le raccolte di fondi, sulle sofferenze di un’unica persona, in questo caso una ragazzina che i ribelli avevano costretto a mangiare la mano che le avevano amputato. «Dovremmo forse abbandonare quella ragazza?». A volte, risponde Polman, la coscienza ci dovrebbe imporre di prendere in considerazione anche una possibilità simile.

Il sogno di Henri Dunant

II padrino dell’umanitarismo moderno è stato un uomo d’affari svizzero che si chiamava Henri Dunant. Il 24 giugno 1859 assistette alla battaglia di Solferino, in cui il Regno di Sardegna, alleato con la Francia, combatteva contro l’esercito austroungarico. Quello che lo colpì di più fu la scena che vide dopo lo scontro: il campo di battaglia brulicava di soldati feriti, abbandonati ancora agonizzanti dai loro eserciti. Dunant organizzò un gruppo di civili che recuperarono, sfamarono e medicarono i sopravvissuti. Ma la buona volontà dei volontari non poteva compensare la loro impreparazione.

Rientrato in Svizzera, Dunant riflette sulla necessità di istituire un servizio professionale permanente che si occupasse dell’assistenza umanitaria. Poco dopo fondò la Croce Rossa, basata su tre principi essenziali: imparzialità, neutralità e indipendenza. Nelle sue lettere per raccogliere i fondi necessari, Dunant descrisse il suo progetto come cristiano e come un buon affare per i paesi che dovevano entrare in guerra: «Riducendo il numero degli storpi, ci sarà un risparmio per i governi che devono provvedere alle pensioni dei soldati feriti».

Come ricorda Linda Polman, l’umanitarismo ha avuto anche una madrina: Florence Nightingale, che fu contraria da subito alla nascita della Croce Rossa. Nightingale aveva prestato servizio come infermiera durante la guerra di Crimea negli ospedali militari inglesi, dove le condizioni erano terribili. Per questo non approvò l’iniziativa di Dunant. Secondo Nightingale, sollevare i governi dalle loro responsabilità post belliche voleva dire rendere la guerra più economica e quindi più probabile.

Dunant, però, ebbe la meglio. I princìpi che sosteneva furono sanciti dalla Convenzione di Ginevra, gli valsero il primo Nobel per la pace e da allora sono rimasti invariati. Ma non sono riusciti a rendere la guerra meno crudele. Nel novecento gli interventi umanitari si sono moltiplicati, proprio come le sofferenze alle quali avrebbero dovuto porre rimedio. A Solferino quasi tutte le vittime erano militari. Oggi, invece, secondo i dati dell’Onu le vittime dei conflitti sono al 90 per cento civili. Dopo quindici anni trascorsi come corrispondente nelle zone di guerra, dove sono impegnati gli operatori umanitari, Linda Polman sostiene che aveva ragione Florence Nightingale.

Le scene di sofferenza che chiamiamo crisi umanitarie sono quasi sempre conseguenza di circostanze politiche, e non esiste un modo non politico per risolverle. Non è possibile intervenire senza produrre conseguenze di ordine politico. Nel migliore dei casi il ruolo degli operatori umanitari ufficialmente neutrali e apolitici è – come aveva previsto Nightingale – semplicemente quello degli addetti all’approvvigionamento.

Le organizzazioni umanitarie sollevano le parti in conflitto da molti degli oneri (amministrativi e finanziari) che una guerra comporta: riducono la necessità di governare mentre si combatte, tagliano i costi delle cure ai feriti, offrono il cibo, le medicine e il supporto logistico che permettono agli eserciti di continuare a combattere.

Nel peggiore dei casi – come ha dimostrato durante la seconda guerra mondiale l’intervento della Croce Rossa nei campi di sterminio nazisti – si contribuisce a mantenere segrete le atrocità di cui gli operatori vengono a conoscenza. E di fronte a comportamenti disumani il confine tra imparzialità e complicità è molto labile.

Cinici e moralisti

The crisis caravan è il più recente di una serie di libri che negli ultimi quindici anni hanno analizzato l’industria degli aiuti umanitari. Polman prende spunto dalle critiche avanzate da Alex de Waal, Michael Maren, Fiona Terry e David Rieff. Tutti questi autori sono veterani dell’azione umanitaria o, nel caso di Rieff, sono da tempo compagni di viaggio dei volontari. Polman non ha alle spalle un bagaglio di esperienze simile.

Non può essere definita disillusa. In un libro precedente, Onu. Debolezze e contraddizioni di una istituzione indispensabile per la pace, ha criticato l’inefficacia delle missioni di pace delle Nazioni Unite. Il suo metodo non è quello del giornalismo investigativo. Lo stile è brusco, duro, con un gusto particolare per l’umorismo macabro. Polman accumula aneddoti alternandoli a commenti polemici. Le sue parole sono un j’accuse.

Polman non risparmia nessuno. Denuncia la miscela di cinismo e moralismo con la quale gli operatori umanitari si isolano da tutto quello che li circonda e la decadenza di un umanitarismo costretto a pagare tangenti ai combattenti – il 15 per cento del valore degli aiuti nella Liberia di Charles Taylor, addirittura l’80 per cento in alcuni territori della Somalia – o complice nel fornire le infrastrutture logistiche per la pulizia etnica, com’è successo in Bosnia.

Non risparmia neanche i suoi colleghi dei mezzi d’informazione, usati dalle organizzazioni umanitarie per amplificare le crisi e aumentare la raccolta dei fondi, e colpevoli di raccontare la sofferenza senza inserirla in un contesto politico o storico. I giornalisti dipendono troppo spesso dagli operatori umanitari per il trasporto, l’alloggio, il cibo e le informazioni. E secondo Polman sviluppano una visione distorta della realtà, convincendosi che l’unica speranza per le persone coinvolte nei conflitti, in grado solo di subire o infliggere sofferenza, sia l’intervento dei filantropi bianchi.

«Di fronte alle grandi tragedie, i giornalisti che di solito amano presentarsi come osservatori obiettivi diventano improvvisamente discepoli degli operatori umanitari. Accettano acriticamente le loro affermazioni di neutralità, sacrificando così la curiosità e lo scetticismo doverosi per ogni reporter».

Maren e De Waal denunciano in modo più approfondito l’ignobile meccanismo economico che gli aiuti alimentano e contribuiscono a creare: per esempio la competizione per ottenere gli appalti, anche per progetti inutili, e il modo in cui gli aiuti stravolgono i mercati locali e rafforzano i signori della guerra. Soprattutto, però, secondo De Waal gli aiuti indeboliscono i governi che ne beneficiano, esonerandoli dal dover rendere conto del loro operato e minando la loro legittimità.

La posizione di Linda Polman è più populista. La sua tesi è a tratti frettolosa, a tratti superficiale. Ma non per questo è meno graffiante. La cosa più criticabile nel sistema degli aiuti umanitari è la totale assenza della necessità di rendere conto del proprio operato. Passando da un disastro all’altro con le loro Land Cruiser bianche, gli operatori umanitari sono convinti di agire nel migliore dei modi e non accettano critiche, come se l’umanitarismo si giustifichi da solo.

Conseguenze impreviste

Dai tempi del Biafra l’umanitarismo è diventato l’idea, e anche la pratica, che guida le reazioni dell’occidente alle guerre e alle catastrofi naturali nel resto del mondo. Ultimamente si è trasformato anche nella giustificazione principale che gli occidentali usano per fare la guerra. Molti dei leader di quella che De Waal chiama «humanitarian international» hanno cominciato la loro carriera proprio in Biafra. E il ponte aereo con la regione assediata dall’esercito nigeriano è diventato il mito fondante dell’intera industria dell’umanitarismo: «È stato uno sforzo insuperabile in termini di logistica e di coraggio fisico», scrive De Waal. Quell’intervento oggi viene ricordato come una cause célèbre. Ma il giudizio morale sull’operazione è tutt’altro che unanime.

Quando nel 1970 i secessionisti furono sconfitti e il Biafra fu costretto a ricongiungersi con la Nigeria, il genocidio che era stato previsto non si verificò. Se non fosse stato per la carità dell’occidente, la guerra civile sarebbe finita molto prima. Il rovescio della medaglia delle vite salvate dal ponte aereo è rappresentato dalle decine, o forse centinaia, di migliaia di morti causati dal prolungarsi della guerra.

I protagonisti della nascente industria umanitaria, però, non si fermarono a riflettere su questo dettaglio. C’erano già nuove crisi di cui occuparsi, la più urgente in Bangladesh, e poi chi poteva prevedere che salvare delle vite ne sarebbe costate molte di più? Così la carovana degli aiuti ripartì, circondata da un trionfalismo autocompiaciuto che negli anni non si è modificato. Eppure, osserva David Rieff, «nel bene o nel male, alla fine degli anni ottanta l’umanitarismo è l’ultimo ideale coerente».

Com’è possibile, a questo punto, che gli operatori umanitari non vogliano assumersi nessuna responsabilità perle conseguenze negative delle loro azioni? «L’umanitarismo è nato come risposta etica alle emergenze globali, non solo perché nel mondo succedono cose terribili, ma anche perché molte persone non hanno più fiducia nello sviluppo economico e nella politica come strumenti per migliorare la condizione umana», osserva il sociologo Craig Calhoun nel saggio contenuto nel volume Contempomry states of emergency, curato da Didier Fassin e Martella Pandolfi.

«L’umanitarismo attira le persone che cercano uno strumento semplice e moralmente ineccepibile per rispondere alla sofferenza del mondo». Per dirla con le parole di David Kennedy, professore di diritto ad Harvard e autore di The dark sides of virtue (II lato oscuro della virtù), «l’umanitarismo ci fa diventare arroganti, ci fa idealizzare le nostre intenzioni e i nostri comportamenti».

Troppo dolore

Nel maggio del 1996, nella cittadina di Kitchanga, nella provincia del Nord Kivu (nella Repubblica Democratica del Congo, Rdc, che fino al 1997 si è chiamata Zaire), trascorsi la notte in un’aula scolastica che era stata adibita a sala operatoria dai chirurghi dalla sezione olandese di Medici senza frontiere (Msf).

Pochi giorni prima una banda proveniente dai campi profughi allestiti dalle Nazioni Unite per gli hutu ruandesi, e controllati dagli stessi responsabili del genocidio, aveva massacrato un gruppo di tutsi congolesi in un monastero vicino. I medici dell’equipe di Msf stavano operando alcuni dei sopravvissuti. Un uomo con una ferita da arma da fuoco si torceva sotto le pinze di un medico bielorusso, gridando in swahili: «Troppo dolore».

Tutti sapevano che gli hutu, gli autori del genocidio, minacciavano gli operatori umanitari e riscuotevano una sorta di tassa sulle razioni alimentari distribuite. Tutti sapevano che quegli assassini si stavano infiltrando nel territorio circostante per massacrare e cacciare la popolazione tutsi. Nella letteratura sugli aiuti umanitari, i campi di confine istituiti dalle Nazioni Unite dopo il genocidio ruandese, e in particolare quelli di Coma, figurano come esempi di un interventismo umanitario corrotto e disumano.

Era evidente a tutti che, a causa della terribile situazione, nei campi prima o poi sarebbe scoppiata un’altra guerra. Gli operatori umanitari erano spaventati, demoralizzati e non avevano fiducia nel loro lavoro. Nei primi mesi della nuova crisi, nel 1994, diverse organizzazioni umanitarie si ritirarono dai campi perché non volevano essere complici del genocidio. Ma altre organizzazioni si precipitarono a rilevare i loro contratti.

Chi era rimasto descriveva la missione come una sorta di impegno sacro e indiscutibile. Non potevano abbandonare la gente dei campi, dicevano. Ma fu esattamente quello che fecero quando arrivò la guerra: fuggirono appena l’esercito ruandese fece irruzione nei campi per costringere i profughi a tornare in Ruanda e inseguì i pochi rimasti, combattenti e no, mentre fuggivano verso occidente.

Decine di migliaia di persone furono uccise, ci furono massacri e violenze: la carneficina fu l’ultimo prezzo pagato per l’istituzione dei campi, un prezzo che i congolesi, il cui territorio era occupato dai ruandesi e depredato dai soldati hutu, stanno pagando ancora oggi.

Anche Sadako Ogata, che in quegli anni dirigeva l’Alto commissariato dell’Orni per i rifugiati (Unhcr), ed era responsabile dei campi della Rdc, ha scritto un libro a sua discolpa, The turbulent decade (II decennio turbolento), in cui ripete continuamente il seguente assioma: «Non esistono soluzioni umanitarie ai problemi umanitari».

Ogata intende dire che ogni soluzione dev’essere politica, ma anche che gli operatori umanitari non possono essere ritenuti responsabili delle conseguenze delle loro azioni. Uno degli alti funzionari dell’Unhcr l’ha detto più esplicitamente quando ha riassunto l’esperienza umanitaria nei campi controllati dagli hutu usando una formula presa in prestito dall’ex presidente statunitense Richard Nixon: «Certo, sono stati commessi degli errori, ma noi non ne siamo responsabili».

Viene da chiedersi come mai l’autodifesa degli organizzatori dei campi profughi delle Nazioni Unite sia sfuggita a Linda Polman: è il genere di sciocchezze che ama raccontare. A ben vedere, però, la giornalista di questo tema si è occupata. «Per quanto ne so», fa notare, «nessun operatore e nessuna organizzazione umanitaria sono mai stati trascinati davanti a un tribunale per i loro errori o fallimenti, per non parlare della loro complicità nei crimini commessi da eserciti ribelli o forze governative».

Nessuno vigila sulle organizzazioni umanitarie e sui loro operatori, e quindi nessuno giudica le conseguenze delle loro azioni. Quando una missione si conclude in modo catastrofico, sono gli stessi operatori a scriverne le valutazioni. E se viene aperta un’indagine sui crimini seguiti al loro intervento, le organizzazioni umanitarie sono tenute fuori dalla vicenda.

Le critiche di Linda Polman sono particolarmente attuali, considerato che di recente un nuovo rapporto dell’Onu sulle atrocità commesse nell’ex Zaire tra il 1993 e il 2003 ha sollevato ancora la questione delle responsabilità per il tragico epilogo dell’istituzione dei campi. Questa storia non potrà essere raccontata in modo imparziale fino a quando le organizzazioni umanitarie continueranno a godere di una totale impunità.

Durante la notte passata nella scuola di Kitchanga, i medici mi parlarono di un adolescente che era stato trovato nudo con una foglia di banano incollata sulla nuca. Dopo averla rimossa, i dottori scoprirono che il ragazzo aveva un taglio sul collo che arrivava fino all’osso. La sua testa era piegata da un lato. La mattina dopo lo vidi. Camminava lentamente nel cortile della scuola. I medici lo avevano ricucito. E quella notte non era l’unico che avevano salvato.

Operazioni del genere rappresentano l’ideale umanitario messo in pratica, puro e senza ambiguità. Questi “piccoli miracoli” si verificano ovunque ci siano operatori umanitari, anche nei luoghi dove i loro interventi hanno conseguenze disastrose. Cosa c’è di più nobile che restituire la vita a un essere umano? La vista di quel ragazzo mi commosse così come mi avevano fatto indignare gli abusi dell’industria umanitaria internazionale.

Quello stesso giorno i medici con i quali viaggiavo mi dissero che, per garantire la propria sicurezza, dovevano dimostrare di essere neutrali curando sia i colpevoli del genocidio sia le loro vittime. Allora mi venne spontanea una domanda: se questi medici non fossero stati qui, quel ragazzo avrebbe avuto bisogno di loro?* bt

L’AUTORE

Philip Gourevitch è un giornalista americano. Il suo ultimo libro, scritto con Errol Morris, è La ballata diAbu Ghraib (Einaudi 2009). In quest’articolo recensisce The crisis caravan (2009), l’ultimo libro della giornalista olandese Linda Polman. Sullo stesso tema Polman ha pubblicato L’industria della solidarietà. Aiuti umanitari nelle zone di guerra (Bruno Mondadori 2009).