Due anni fa diventava beata Emilia la canestraia, martire nella guerra civile spagnola

da Tempi

21 marzo 2019

Tra pochi giorni ricorre il secondo anniversario della beatificazione di Emilia Fernandez Rodriguez, prima e finora unica donna di etnia rom elevata agli altari nella storia della Chiesa

Rodolfo Casadei

Emilia Fernandez Rodriguez è la prima e finora unica donna di etnia rom elevata all’onore degli altari nella storia della Chiesa, e il 25 marzo ricorre il secondo anniversario della proclamazione e della celebrazione della sua beatificazione. Non una beata qualsiasi: Emilia la canestraia, gitana nativa di Tijola, un villaggio della diocesi di Almeria nel sud della Spagna, è parte della vasta schiera dei martiri della fede trucidati in molti modi dai combattenti repubblicani durante la Guerra civile spagnola del 1936-39.

Come pure Ceferino Giménez Malla detto “El Pelè”, l’unico altro beato di etnia rom proclamato dalla Chiesa, catechista e terziario francescano, anche lui un gitano spagnolo fucilato il 9 agosto 1936 per aver solidarizzato con un prete che stava per essere arrestato dai miliziani.

MORTA AD ALMERIA E GETTATA IN UNA FOSSA COMUNE

Di Emilia non esiste una tomba o una reliquia, perché dopo la morte nella prigione di Gachas-Colorás ad Almeria il 25 gennaio 1939 fu sepolta in una fossa comune (lo stesso destino di Ceferino). Ma un suo grande ritratto a tempera è collocato in una cappella laterale della mezquita-cattedrale (dedicata all’Immacolata Concezione) di Cordoba, uno degli edifici sacri più visitati del mondo.

Emilia finisce in prigione condannata a sei anni di carcere per complicità nell’evasione degli obblighi di leva da parte del marito Juan Cortes Cortes, che i repubblicani volevano reclutare contro la sua volontà. Come la maggior parte dei gitani, i due sposi non intendevano schierarsi nel conflitto che lacerava il paese e tanto meno prendere parte ai combattimenti.

Ingenuamente Emilia si reca dal sindaco del paese convinta che costui potesse esentare il marito dall’arruolamento. «Signor Sindaco, noi siamo gitani buoni, siamo poveri ma onorati, non ci siamo schierati con nessuno e ci siamo sposati l’altro giorno e non vogliamo separarci l’uno dall’altra».

DEVOTA ALLA PREGHIERA DEL ROSARIO

Il sindaco conferma che il 21 giugno Juan si sarebbe dovuto presentare in caserma, e allora la coppia ricorre all’astuzia: con impacchi di verderame l’uomo diventa temporaneamente cieco, e i militari mandati a prelevarlo tornano a mani vuote. Ma quando il trucco viene scoperto, entrambi i coniugi vengono arrestati e incarcerati in due prigioni diverse, benché Emilia sia già incinta.

Nel carcere femminile di Almeria la gitana conosce le donne dell’Azione Cattolica, arrestate a decine perché sospettate di sostenere i franchisti. Dopo un’iniziale diffidenza dovuta alla paura e alla differenza di condizione sociale (lei era una povera gitana analfabeta, molte delle donne incarcerate appartenevano alla classe media o erano benestanti), Emilia si apre ad alcune compagne che si interessano di lei.

Sono loro che le insegnano a pregare, in particolare a recitare il Rosario in latino: Emilia era stata battezzata alla nascita ed era credente, ma poco praticante e quasi per nulla istruita nella fede. Si era sposata col rito tradizionale dei gitani e non in chiesa. Diventa particolarmente devota della preghiera del Rosario, ed è questo dettaglio ad attirare la malevola attenzione delle guardie carcerarie e della direttrice della prigione.

INCINTA E RINCHIUSA IN ISOLAMENTO

Viene interrogata a più riprese perché faccia i nomi delle “catechiste” che l’hanno resa così fervorosa nella preghiera e perché denunci le loro attività antigovernative che certamente le hanno confidato. Emilia non fa nessun nome, e per punizione viene confinata in una minuscola cella di isolamento con razioni alimentari scarse nonostante la gravidanza avanzata. Le altre detenute riescono a farle avere fette di pane.

Più volte la direttrice cerca di persuaderla a fare la spia, facendo balenare la possibilità della liberazione per lei e per il bebè in arrivo. Emilia non cede, nonostante l’arrivo dell’inverno renda la sua situazione particolarmente penosa. Nelle prime ore del 13 gennaio partorisce una bambina su un materasso gettato sul pavimento e intriso dell’urina dei topi nella sua lurida cella di cinque metri quadrati, senza nessuna assistenza medica ma con quella cristiana di altre tre detenute che riferiscono le sue parole: «Vergine Maria aiutami, abbi misericordia di me».

Patisce una forte emorragia e contrae un’infezione, è arsa dalla febbre. Fa la spola fra la prigione e l’ospedale, finché muore il 25 gennaio. La sua bambina, che le compagne di prigionia erano riuscite a battezzare segretamente col nome di Angeles, viene trasferita in un orfanotrofio per decisione delle autorità nonostante le richieste dei parenti che chiedevano di adottarla, e da allora non è stata più rintracciata.

«NON DIMENTICHERÒ MAI LE SUE MANI» «Non dimenticherò mai le sue mani», racconta l’ultima sopravvissuta delle sue compagne di detenzione, che assistette pure al battesimo della piccola Angeles. «Nonostante fosse giovane, aveva tagli e croste di ferite sul palmo e sul dorso a forza di intrecciare canestri». Uscito di prigione alla fine della guerra, Juan Cortes Cortes si è sposato dopo alcuni anni con una sorella minore di Emilia e con lei ha avuto sette figli.