Geopolitica e demografia indicazioni per un prossimo futuro

banlieuGnosis
Rivista Italiana di Intelligence n.3 – 2010

Cambiamenti economici e rischi per la sicurezza

Esplosione delle megalopoli, sconvolgimenti demografici, imponenti migrazioni, con conseguente depauperizzazione di aree oggi considerate “ricche” e arricchimento di aree oggi considerate povere.

La proiezione al 2050 della situazione mondiale, con dinamiche che avranno un impatto sulla crescita economica e sulla capacità di generare ricchezza, per sostenere ancora una parvenza di welfare. Lo tsunami demografico produrrà così forti squilibri e tensioni tra continenti con trend demografici opposti, con il rischio di un rapido declino dell’Europa, forti tensioni sociali, massicce migrazioni dall’Africa e dall’America Latina. I cambiamenti demografici, dunque, ci pongono di fronte a scelte sociali e politiche radicali e Gianluca Ansalone analizza alcune soluzioni possibili.

di Gianluca Ansalone

Circa quarant’anni fa, il biologo ed antropologo tedesco Paul Ehrlich metteva in guardia la comunità scientifica sull’approssimarsi di ciò che definiva “la bomba demografica“. Lo scienziato prevedeva, di lì a poco, un deciso aumento della popolazione mondiale cui non sarebbe però corrisposto un aumento della disponibilità di cibo, vaticinando una delle più drammatiche carestie della storia dell’umanità. Tale evento avrebbe dovuto verificarsi tra la metà degli anni ’70 e la metà degli anni ’80.

Per fortuna, anche grazie all’innovazione tecnologica e alla cosiddetta “rivoluzione verde” in agricoltura, quello scenario si è rivelato molto più che azzardato.

Tuttavia, benché con toni di minor allarme e con una disponibilità tecnologica molto superiore, il mondo è oggi alla vigilia di una trasformazione demografica senza precedenti, che avrà conseguenze profonde sullo scenario geopolitico e geoeconomico globale.

La demografia, definita come studio statistico della popolazione e delle sue possibili proiezioni nel tempo, non è evidentemente una scienza esatta. Eppure la sua interazione con altre discipline, quali l’economia, la strategia o la sicurezza è in grado di fornire indizi significativi sul modello futuro delle relazioni sociali all’interno degli Stati e delle relazioni strategiche tra Stati.

Come per tutte le altre discipline, anche la demografia vive di un dibattito scientifico aperto e spesso radicale: alcuni analisti vedono nella consistenza e nella composizione demografica un asset essenziale per la primazia strategica; altri, sulla scia degli studi dell’economista e demografo inglese Malthus, pongono un limite fisiologico alla crescita della popolazione, vista la scarsità relativa delle risorse; altri ancora, infine, considerano che, attraverso i progressi della scienza e della tecnologia, si possa immaginare un mondo sempre più popoloso ma comunque adeguatamente vivibile.

Ciò che è innegabile è che nel corso dei secoli la demografia è stata sempre un fattore determinante per l’ascesa o il declino degli Imperi; un fattore, cioè, imprescindibile nel lungo termine, così come l’economia lo è nel medio termine e la potenza militare nel breve termine.

L’approccio culturale a tali dinamiche è cambiato nel corso del tempo.

L’analisi di Thomas Malthus (1798) sui rapporti tra popolazione e risorse partiva dall’assunto che l’aumento della popolazione presenta un andamento esponenziale, mentre le risorse alimentari possono aumentare solo in modo lineare. Si sarebbe quindi raggiunto un picco – definito “catastrofe di Malthus” – in cui la mancanza di cibo avrebbe creato povertà e guerre.

Riprendono una logica maltusiana anche le catastrofiche previsioni del Club di Roma negli anni ’70 sull’esaurimento delle risorse energetiche e naturali.

Rispetto all’epoca di Malthus, problema presenta oggi ulteriori difficoltà di analisi ma anche qualche che strumento di intervento in più. In particolare, due aspetti devono essere contemplati: il primo rimanda al ruolo essenziale della tecnologia, che ha reso possibile la diffusione dei mezzi agricoli su larga scala ha contribuito a ridurre la mortalità infantile, aumentando contestualmente le speranze di vita, ha garantito, soprattutto nell’ultimo decennio, la riduzione della fame nel mondo.

Così come, rispetto alle previsioni del Club di Roma, la risorsa “petrolio” smetterà di essere impiegata non tanto perché si esaurirà ma perché una nuova tecnologia, quella legata all’idrogeno, diventerà probabilmente di largo ed immediato utilizzo.

Il secondo aspetto è legato ai numeri e alle proiezioni statistiche, le quali disegnano di contro uno scenario preoccupante.

Secondo i dati dell’ONU, la popolazione complessiva del pianeta passerà da 6,51 miliardi (2005) a 7,67 nel 2020 e a 9,19 miliardi nel 2050. La crescita continuerà però ad essere profondamente squilibrata e si concentrerà prevalentemente in Asia e in Africa. In valori assoluti, si passerà nel primo caso da 3,94 miliardi di abitanti a 4,6 miliardi nel 2020, con un aumento del 16,7%, in buona parte concentrato in India, laddove la popolazione complessiva del Giappone tenderà a contrarsi notevolmente mentre quella della Cina si stabilizzerà. In termini relativi, invece, la crescita della popolazione dell’Africa sub-sahariana sarà ancora più clamorosa e potrebbe sfiorare il 38%, passando da 922 milioni a 1,27 miliardi nello stesso periodo.

I paesi industrializzati conosceranno invece un fenomeno generalizzato di decrescita della popolazione e di progressivo invecchiamento, con un aumento dell’età media. L’Europa perderà costantemente popolazione di qui al 2020, passando da 731 milioni a 722 milioni.

II peso demografico dell’Occidente rispetto al totale mondiale diminuirà del 25%, spostando rilievo e importanza economica verso i Paesi emergenti, che presentano tassi di crescita della popolazione (e, quindi, una capacità di impiego di forza lavoro giovane) più significativi.

Per sostenere ritmi di crescita economica accettabili, i Paesi industrializzati avranno bisogno di accogliere forza lavoro dall’estero, ovvero dalle regioni nelle quali il boom demografico sarà più pronunciato. Queste ultime sono tipicamente le aree povere a maggioranza musulmana (nel caso dell’Europa) o quelle dell’America Latina (nel caso dell’America del Nord). Infine, per la prima volta nella storia dell’umanità, nel 2010 più del 50% della popolazione mondiale vive nei grandi centri urbani invece che nelle campagne. Nel 1950 tale quota era del 30%; mentre salirà fino al 70% nel 2050. La maggior parte di queste megalopoli si trova in Paesi con un reddito medio basso e dove le condizioni sanitarie sono ancora precarie.

Questo spostamento epocale di pesi demografici ha delle conseguenze socio-economiche dirette. La Rivoluzione industriale del XIX secolo non rese gli europei solo più numerosi ma anche più ricchi. Europa, Stati Uniti e Canada producevano assieme il 32% del PIL mondiale ad inizio Ottocento. Nel 1950 tale fetta era considerevolmente aumentata fino al 68% della produzione mondiale; ma la contrazione in atto a partire dalla fine dello scorso secolo si sta consumando con una rapidità senza precedenti: nel 2003 il peso economico delle tre regioni era già sceso al 47%; nel 2050 esso dovrebbe sfiorare appena il 30%, una quota più bassa di quella registrata nel 1820.

Entro la metà del nostro secolo, la maggiore concentrazione della cosiddetta “classe media”, da sempre motore di sviluppo, produzione e consumo, vivrà in quelli che oggi vengono considerati Paesi emergenti: secondo le stime della Banca Mondiale, entro il 2030 il numero di appartenenti alla classe media in quelle regioni sarà pari a 1,2 miliardi di persone (+200% rispetto al 2005).

Nel 2050 circa il 30% dei canadesi, statunitensi ed europei avrà più di 60 anni, una percentuale che sale fino al 40% in Paesi come il Giappone o la Corea del Sud. Essi avranno quindi porzioni sempre più ampie di popolazione in pensione e sempre più ridotte di forza lavoro. Il caso della Corea del Sud è emblematico in tal senso: anche se la popolazione totale è prevista contrarsi di circa 9 punti percentuali entro il 2050 (da 48,3 milioni a 44 milioni), la popolazione in età lavorativa scenderà del 36% (da 33 milioni a 21 milioni) e il numero di ultra-sessantenni aumenterà del 150% (da 7,3 milioni a 18 milioni di persone).

L’Europa perderà il 24% circa della propria forza lavoro (120 milioni di persone circa) entro la stessa data.

Queste dinamiche avranno, come ampiamente evidente, un impatto profondo sulla crescita economica e sulla capacità di generare ricchezza, sul peso del debito pubblico, gonfiato dalla spesa previdenziale e sanitaria, e sulla capacità, infine, di promuovere innovazione tecnologica e di investire in sicurezza e difesa.

Di contro, l’area vasta del pianeta oggi definita come “emergente” conoscerà fenomeni di segno opposto, caratterizzati dalla stessa intensità e dalla stessa rapidità. Oltre il 70% della crescita della popolazione mondiale di qui al 2050 interesserà appena 24 Paesi, tutti classificati dalla Banca Mondiale come “low-income” (a basso reddito), ovvero con un reddito procapite stimato in 3.500 dollari.

Tale prospettiva interesserà soprattutto il mondo arabo-musulmano, dove molti Paesi ad economia fragile conosceranno un boom demografico senza precedenti. Nel 1950 la popolazione complessiva di Egitto, Bangladesh, Indonesia, Nigeria, Pakistan e Turchia ammontava a 242 milioni di abitanti. Nel 2009 il totale era già salito a 886 milioni e crescerà ulteriormente, entro il 2050, di ulteriori 475 milioni.

L’evoluzione demografica è un elemento suscettibile di scomporre e ricomporre l’intero paradigma delle relazioni internazionali. Durante la Guerra Fredda gli analisti strategici dividevano il pianeta in un “Primo mondo” di Paesi democratici industrializzati, un “Secondo mondo” di Paesi socialisti e comunisti a prevalente industrializzazione ed un “Terzo mondo” di Paesi in via di sviluppo, ad economia prevalentemente agricola o mineraria.

Una fotografia più fedele della realtà, ove filtrata attraverso le lenti del cambiamento demografico, affermerebbe oggi di converso un Primo mondo di economie industrializzate e in fase di rapido invecchiamento, localizzate in Nord America, in Europa e sulla dorsale pacifica (Giappone, Corea del Sud e Taiwan in particolare); un Secondo mondo fatto di economie in rapida crescita e con un mix sostenibile di popolazione, in termini di forza lavoro e di età media (Brasile, Iran, Messico, Tailandia, Turchia); un Terzo mondo di Paesi a rapidissima crescita demografica ma con economie ancora povere o destrutturate e spesso con governi centrali deboli (Pakistan, Nigeria, Cambogia).

Lo tsunami demografico produrrà fenomeni macroscopici sotto il profilo economico e sociale e dal punto di vista dei rapporti internazionali: forti squilibri e tensioni tra continenti con trend demografici opposti; rischio ulteriore di un rapido declino dell’Europa e fenomeni di forte tensione sociale; massicce emigrazioni dall’Africa e dall’America Latina.

È facile immaginare, in questa nuova configurazione, come il perno di qualsiasi paradigma di sviluppo sarà esattamente il Secondo mondo, non soltanto per la sua capacità di consumo di prodotti provenienti dal Primo mondo ma anche per la centralità in termini di sicurezza e cooperazione internazionale.

Ne deriva innanzitutto una constatazione: l’ordine mondiale uscito da Bretton Woods e dalla fine del secondo conflitto mondiale non può essere più valido. I tradizionali meccanismi di governance che il mondo ha conosciuto fino ad oggi non rispecchiano più la realtà geopolitica, economica e demografica del pianeta.

Ciò è vero soprattutto per il G-8, che non a caso si va già consolidando nella formula più idonea e coerente del G-20. Ma ciò deve essere vero anche per le principali istituzioni militari e di sicurezza a livello internazionale. Si prenda il caso della NATO, attesa da una nuova, cruciale revisione strategica. Essa è composta quasi interamente da Paesi le cui popolazioni invecchiano e si riducono inesorabilmente.

Ciò non rappresenta solo un limite in termini di impieghi operativi, come vedremo; ma altresì in termini di credibilità politica e strategica. L’Afghanistan, principale teatro di impegno operativo per l’Alleanza Atlantica, conta oggi 28 milioni di abitanti. Entro il 2025 ne avrà 45 milioni e entro il 2050 75 milioni.

L’equazione è quindi elementare: se la strategia complessiva della NATO terrà conto dell’evoluzione demografica del Paese potrà puntare su un’efficace azione di institution-building e di ricostruzione civile che renda migliore la vita di un numero così alto di nuovi nati; viceversa, la coalizione internazionale impegnata oggi nel difficile scenario afgano si ritroverà a fare i conti con una popolazione estremamente giovane e cresciuta nel malcontento.

Sono numerose le implicazioni sullo scenario di sicurezza dei trend demografici. Ciò che va sottolineato è che la trasformazione in corso, a differenza del baby boom degli anni ’50, non è transitoria né occasionale, ma è un’evoluzione strutturale nel sistema. Si prenda in considerazione, ad esempio, l’età mediana. Fino all’inizio del XX secolo era impossibile trovare un Paese al mondo con un’età mediana superiore ai 30 anni. Nel 1950 questa soglia si era spostata a 36 anni. Oggi 8 delle 16 na­zioni dell’Europa occidentale hanno un’età mediana di 40 anni; entro il 2050, 6 di loro arriveranno a 50 anni.

Ci sono già 18 Paesi al mondo con una popolazione totale strutturalmente in contrazione; nel 2050 i Paesi saranno 44 e la maggior parte di loro sarà localizzata in Europa.

Sotto il profilo delle implicazioni socio-economiche, tale processo avrà tre principali effetti:

■ una contrazione permanente dei volumi di produzione e del PIL, i cui ritmi di crescita non potranno essere sostenuti a fronte di una diminuzione costante della popolazione totale e della forza lavoro disponibile;

■ con l’invecchiamento medio della popolazione si potrà assistere ad una maggiore stagnazione sociale e ad una minore propensione all’innovazione e alla flessibilità;

■ società più vecchie sono naturalmente meno propense al cambiamento. Tale atteggiamento influirà anche sugli scenari politici interni e sull’atteggiamento delle leadership. Fenomeni come l’immigrazione o la moltiplicazione dei luoghi e delle espressioni di culto verranno metabolizzati con maggiore sofferenza e difficoltà, o addirittura rigettati.

Le conseguenze sullo scenario geopolitico e di sicurezza possono essere così sintetizzate:

■ le architetture di sicurezza che hanno operato nello scenario internazionale dalla fine della Seconda Guerra mondiale ad oggi hanno bisogno di ripensare profondamente la propria missione e la propria configurazione. Si pensi alla comunità euro-atlantica e al ruolo della NATO, insostenibile in un contesto di risorse scarse e di invecchiamento generalizzato della popolazione. Si impone quindi la necessità di coinvolgere in quei fori partner più dinamici, che ne condividano obiettivi e valori.

■ Nelle aree più deboli del pianeta o in presenza di Stati fragili, la pressione demografica potrebbe rappresentare l’elemento ultimo di destabilizzazione o di collasso, con serie conseguenze regionali e globali. Alcuni di questi Paesi, infatti, sono oggi già in possesso dell’arma atomica (Corea del Nord e Pakistan). In risposta alla minaccia di un caos sociale crescente, alcuni Paesi potrebbero essere tentati di virare drasticamente verso forme di governo più autoritarie.

■ Nel corso degli ultimi 20 anni, abbiamo assistito ad un aumento dei conflitti di matrice etnica nei Paesi in via di sviluppo, rapportabile anche ad un divario demografico tra le  diverse  etnie.  Guardando in prospettiva futura, il 90% del boom demografico si concentrerà, di qui al 2050, esattamente in quelle aree del pianeta (Asia meridionale, Africa sub-sahariana, mondo arabo) nel quale le tensioni etnico-religiose sono già elevatissime. Si pensi, ad esempio, al bacino del Mediterraneo e al conflitto israelo-palestinese.

La demografia contribuirà a cambiare profondamente la geopolitica dei rapporti fra i due popoli. L’accrescimento della popolazione è stato più intenso per Israele fra il 1950 ed il 2005, mentre sarà nettamente favorevole ai palestinesi fra il 2005 e il 2050; la proporzione di popolazione giovane è straordinariamente più elevata tra i palestinesi (46% del totale) che non per Israele (28%); la sovrappopolazione è ormai un fenomeno insostenibile nei territori palestinesi, dove la densità potrebbe arrivare a ben 1.705 abitanti per chilometro quadrato nel 2050.

■ Nel mondo industrializzato, gli anni ’20 del secolo in corso saranno il cosiddetto “punto di svolta”, il momento cioè nel quale la forza lavoro smetterà di crescere ovunque in termini numerici (tranne che negli Stati Uniti) con conseguenze economiche serie. Il rapporto tra lavoratori e pensionati si invertirà definitivamente, con conseguenze sui conti pubblici e i bilanci degli Stati. Nel frattempo, nel mondo in via di sviluppo, si assisterà al più massiccio ingresso di giovani nel mercato del lavoro mai registrato nella storia recente. La Cina vivrà un momento delicato, poiché la sua ultima generazione (la più consistente numericamente), nata negli anni ’60, comincerà ad andare in pensione, con effetti oggi imprevedibili sulle casse dello Stato.

■ La riduzione del numero di giovani renderà meno accettabile socialmente alcuni fenomeni come l’impiego dei soldati in aree di guerra o per missioni in aree ad alto rischio. Anche nei Paesi nei quali il senso patriottico è più spiccato la morte di un giovane verrà vissuta con maggior preoccupazione. È ciò che il politologo Edward Luttwak ha definito “guerra post-eroica” o “a zero morti”.

■ Il successo delle democrazie liberali nell’ultimo mezzo secolo è in buona parte dovuto al suo “soft power”, ovvero alla capacità che ha dimostrato di saper affermare una società dinamica e prospera. Di fronte al cambiamento del paradigma demografico e alla stagnazione socio-economica dell’Occidente, i modelli di autoritarismo potrebbero diventare più attraenti per le nuove generazioni e la politica occidentale essere di conseguenza considerata come una mera difesa di privilegi.

I cambiamenti demografici ci pongono di fronte a scelte sociali e politiche radicali. Nel prossimo futuro dovremo far fronte a tassi di fecondità prossimi al massimo al livello di sostituzione, accettando strutture demografiche basate sul modello della colonna, anziché su quello della piramide delle età. Nel complesso si tratta di un dato confortante, visto che ciascuno di noi vivrà più a lungo e la popolazione mondiale potrà stabilizzarsi. Ma i sistemi di welfare ne risentiranno irrimediabilmente, se non altro perché fanno del modello piramidale il loro riferimento da sempre: in economie basate sui contributi e sulle entrate, ogni generazione deve essere più numerosa di quella precedente.

Esistono almeno quattro direttrici lungo le quali è necessario immaginare interventi per contenere le ricadute di questa evoluzione demografica; esse vanno dagli ambiti nazionali alla gestione delle relazioni strategiche internazionali.

Una politica demografica e di welfare adeguata appare come la prima, necessaria e più importante risposta per stabilizzare il futuro delle economie di mercato. Incentivare la natalità e consentire alle donne di avere un ruolo sociale ed economico più attivo, perfettamente conciliabile con la maternità, sono la precondizione per qualsiasi modello di sostenibilità sociale. Una adeguata gestione del fenomeno migratorio rappresenta poi la seconda essenziale condizione per garantire coesione sociale e crescita.

Sotto il profilo economico, l’accesso al mercato del lavoro per i più giovani è un requisito primario per la sostenibilità demografica, così come la definizione di meccanismi di incentivazione di vite attive e professionali più lunghe.

Sotto il profilo politico-diplomatico, la comunità delle democrazie liberali è chiamata a coinvolgere in maniera sempre più profonda Paesi con una popolazione più giovane, con cui condivide valori ed obiettivi. Il rafforzamento delle politiche di cooperazione e di aiuto allo sviluppo andrebbe parimente considerata una priorità, per prevenire una costante emorragia migratoria dalle regioni sottoposte a più forte pressione demografica.

Per i decisori politici ed i vertici militari sarà invece fondamentale prepararsi a gestire una più generalizzata avversione alle operazioni militari fuori area, posto che la vita dei più giovani diverrà anche un asset sociale ed economico. Le forze, gli strumenti e le operazioni dovranno essere quindi modellate sulla base di tali elementi, attraverso un utilizzo ancora più massiccio della tecnologia militare e un rafforzamento delle opzioni relative al soft power e alla diplomazia preventiva, in modo che la guerra diventi davvero l’ultima opzione.