Bassa fecondità? Un problema non solo italiano

da Neodemos 11 dicembre 2018

Una fecondità inferiore al livello di sostituzione per un lungo periodo di tempo determina cambiamenti profondi nella struttura per età di una popolazione, mettendo in discussione importanti meccanismi di funzionamento della società interessata. Questa generalizzata situazione di fecondità al di sotto del livello di sostituzione delle generazioni ha suscitato, in questi anni, diverse preoccupazioni e ha stimolato numerosi interventi politici in tutta Europa. In questo articolo ne parlano Corrado Bonifazi e Angela Paparusso.

Corrado Bonifazi, Angela Paparusso

L’intensità degli effetti dipende ovviamente da quanto i tassi di fecondità si allontanano dai 2,1 figli per donna, che nei paesi sviluppati assicurano il rimpiazzo delle generazioni, e dalla durata di tale scostamento. Dal punto di vista strutturale, il primo effetto del calo della fecondità è quello di diminuire la numerosità delle classi di età più giovani e di far crescere il peso relativo di quelle più anziane.

L’allungamento della speranza di vita accelera questo processo di invecchiamento della popolazione, determinando un aumento anche in valore assoluto delle persone in età avanzata. Con il passare del tempo, la diminuzione delle dimensioni delle generazioni si trasferisce inevitabilmente nelle fasce d’età produttive, determinando un cambio sostanziale nella forma della struttura per età, che da quella piramidale, tipica della fase pre-transizionale, passa a quella rettangolare, tendendo ad assumere le sembianze di una piramide rovesciata.

Dal punto di vista economico e sociale, cambiamenti così rilevanti nella struttura demografica hanno conseguenze importanti e ben note: la sostenibilità del sistema pensionistico e di quello sanitario sono le prime a essere messe a dura prova, ma lo stesso funzionamento del mercato del lavoro, del sistema scolastico e, in generale, di tutti quei meccanismi economici e sociali che sono in qualche modo interessati dal processo di ricambio delle generazioni subiscono le conseguenze di questo processo.

È dagli anni settanta del Novecento che la fecondità nei paesi europei ha iniziato a scendere al di sotto del livello di sostituzione. Una situazione che negli ultimi decenni ha riguardato, con poche e limitate eccezioni, praticamente tutti i paesi dell’Unione Europea.

La fecondità dei paesi europei

In Europa gli ultimi decenni sono caratterizzati da una fecondità stabilmente al di sotto del livello di sostituzione. In particolare, considerando i principali paesi del continente divisi per area geografica, si può notare come dal 1990 tassi di fecondità totale superiori o uguali ai 2,1 figli per donna si siano registrati per l’ultima volta agli inizi del periodo esaminato e limitatamente a due anni in Svezia e a uno in Irlanda (Fig.1). Nell’ultimo venticinquennio in tutti i 21 paesi considerati i valori sono stati più bassi, anche se con una distanza dal livello di sostituzione più o meno ampia e, di conseguenza, anche con ricadute sul piano demografico di diversa intensità.

In effetti, anche in letteratura si è cercato di differenziare la situazione, individuando quattro fasce: una in cui i livelli sono moderatamente bassi (moderate levels) con tassi di fecondità compresi tra 1,7 e 2 figli per donna; una con valori bassi tra 1,5 e 1,7; la terza con un livello dell’indicatore molto basso (very low level) tra 1,5 e 1,3; l’ultima, definita con l’espressione lowest-low level, in cui l’indicatore scende sotto 1,3.

L’ampiezza degli effetti sulla struttura per età sono ovviamente direttamente proporzionali alla fascia di appartenenza. In quella con i valori più elevati una accorta politica di immigrazione può contribuire a ridurre fortemente gli squilibri nella struttura per età, operazione che diventa sempre più difficile, se non impossibile, scendendo nelle fasce sottostanti.

Ampie le differenze nazionali, sia negli andamenti che nei livelli della fecondità. Una situazione che rispecchia differenze di storia, di cultura e di sistema di welfare. Nei paesi scandinavi, ad esempio, se si esclude la Svezia tra 1996 e 2002, i valori si collocano nella fascia più elevata, di fecondità moderatamente bassa (TFT tra 1,7 e 2), e presentano una chiara tendenza alla diminuzione con la crisi economica e finanziaria.

Anche se sinora quest’ultimo andamento ha determinato solo per la Finlandia il passaggio nella fascia di bassa fecondità (TFT tra 1,5 e 1,7). La situazione degli altri tre paesi dell’Europa settentrionale considerati non appare troppo diversa, anche se l’Irlanda è quasi sempre al di sopra degli 1,9 figli per donna e in alcuni anni supera pure la soglia dei 2. Regno Unito e Olanda si collocano nella stessa fascia dei paesi scandinavi, con l’eccezione del periodo 1999-2002 per il primo e di quello che precede il 2000 per la seconda in cui si hanno valori inferiori a 1,7. Comune a tutti e tre i paesi è il calo dell’indicatore negli anni più recenti.

Più differenziata appare la situazione nell’Europa centrale, dove appare una chiara divisione tra i paesi di lingua francese e quelli germanofoni. Nei primi, e in particolare in Francia, i valori sono più elevati ed entrambi presentano una chiara diminuzione con la crisi economica. I secondi, invece, si collocano quasi sempre nella fascia di fecondità molto bassa (tra 1,3 e 1,5), con l’eccezione della Germania che tra 1992 e 1995 è scesa anche al di sotto degli 1,3 figli per donna e della Svizzera che dopo il 2009 supera gli 1,5. Comune a questi tre paesi è l’aumento del tasso di fecondità negli anni della crisi che, per altro, è stata in queste realtà assorbita prima che in altre parti dell’Unione Europea.

Ancora più critica appare la situazione dei paesi dell’Europa meridionale. Per buona parte degli anni Novanta e nella prima parte dello scorso decennio, a eccezione del Portogallo, i valori di questi paesi sono rientrati nella fascia di lowest-low fertility (TFT inferiore a 1,3) e la ripresa che parte sul finire dell’ultimo decennio dello scorso secolo viene a interrompersi bruscamente con la crisi del 2008 che, in questa zona dell’Unione, è stata sicuramente intensa e prolungata. Specifica la situazione dei paesi dell’Europa orientale entrati nell’Unione Europea.

In questo caso, appare evidente l’effetto del processo di transizione che ha determinato un calo brusco e sensibile della fecondità che si interrompe a cavallo del nuovo secolo, dopo che tutti i paesi considerati erano scesi nella categoria di lowest-low fertility (sotto 1,3). La ripresa successiva ha trovato nella crisi del 2008 una brusca battuta d’arresto, anche se negli ultimi anni non mancano segnali di una nuova crescita dei valori che, per altro, si mantengono nella fascia di fecondità molto bassa (tra 1,3 e 1,5) o, al più, superano di poco gli 1,5 figli per donna.

La situazione italiana

Come si vede, e gli ultimi dati dell’Istat per il 2017 lo confermano, l’Italia è tra i paesi europei con la fecondità più bassa e dove, inevitabilmente, è e sarà maggiore l’impatto sulla struttura per età. A rendere ancora più preoccupante la situazione è la diminuzione delle donne in età feconda (15-49 anni), scese di circa 900 mila unità tra il 2008 e il 2017 (www.istat.it). Il risultato combinato di questi due fattori, persistente bassa fecondità e diminuzione delle donne in età riproduttiva, è costituito da generazioni sempre più scarne.

La gravità della situazione italiana, e degli altri paesi dove la fecondità è più bassa, è confermata dalle previsioni delle Nazioni Unite. Tra il 2015 e il 2035 la popolazione in età lavorativa (PEL) diminuirà in Europa di 49,3 milioni con le migrazioni e di 64,9 senza migrazioni, in termini relativi si tratta di un calo, nelle due ipotesi, del 10,8 e del 14,2% (Tab. 1).

Tra i paesi considerati, Germania e Italia sono quelli con le perdite maggiori in termini assoluti e relativi: senza alcun apporto migratorio la fascia di popolazione in età di lavoro diminuirà in entrambi i paesi di circa un quinto, con un calo di 10,8 milioni di unità nel primo caso e di 6,8 nel secondo. Più contenuti ma sempre rilevanti le diminuzioni che si dovrebbero verificare in Spagna e nei due paesi di Visegrad considerati. Senza migrazioni un calo si registrerebbe anche in Svezia, Regno Unito e Francia, con perdite in tutti e tre i casi nell’ordine del 5%. Le previsioni con apporto migratorio vedono, invece, un aumento della PEL nei primi due paesi (4 e 1,8%) e una leggera diminuzione (-1,5%) nel terzo.

Tab. 1. Popolazione in età lavorativa (20-64) in alcuni paesi europei, 2035 e 2050 (dati in migliaia)

 

Paese 2015 2035 Variazione totale (v.a) Variazione totale (%)
Con Mig. Senza Mig. Con Mig. Senza Mig. Con Mig. Senza Mig.
Svezia 5.656 5.885 5.340 229 -316 4,0 -5,6
Regno Unito 38.267 38.947 36.078 680 -2.189 1,8 -5,7
Francia 36.676 36.129 34.773 -547 -1.903 -1,5 -5,2
Germania 49.632 42.965 38.833 -6.667 -10.799 -13,4 -21,8
Italia 35.241 29.886 28.404 -5.355 -6.837 -15,2 -19,4
Spagna 28.626 25.175 24.202 -3.451 -4.424 -12,1 -15,5
Polonia 24.572 21.030 21.198 -3.542 -3.374 -14,4 -13,7
Ungheria 6.146 5.275 5.175 -871 -971 -14,2 -15,8
Europa 455.906 406.619 390.963 -49.287 -64.943 -10,8 -14,2

Fonte: United Nations, Department of Economie and Social Affairs, Population Division, World Population Prospects, the 2017 Revision*

Come si vede, gli effetti sulla struttura per età della bassa fecondità riguardano tutti i paesi europei, con l’importante differenza che nella realtà dove la distanza dal livello di sostituzione è più contenuta un apporto migratorio può consentire di mantenere in equilibrio le dimensioni della PEL. Diversa è la situazione in quei paesi che, come l’Italia, presentano scarti più ampi. Dinamiche di questo tipo meriterebbero di essere affrontate, per i lori vari e seri risvolti negativi, in maniera bipartisan, come una vera e propria emergenza nazionale, con un deciso cambio di rotta nelle politiche familiari e demografiche e una forte e crescente attenzione alla condizione dei giovani adulti.

Anche in questo caso, che appare comunque ben lontano dal potersi realizzare in tempi vicini nel nostro paese, sarebbe comunque veramente difficile pensare di poter fare a meno nei prossimi anni di un sostanzioso contributo dell’immigrazione. Non foss’altro che per il banale motivo che le generazioni che entreranno nel mercato del lavoro nei prossimi venti anni sono già nate.