Il laboratorio della Chiesa del futuro

vicariato_ArabiaTempi n.42 27 ottobre 2010

Discriminata e pellegrina in un mondo ostile, eppure «permeata di una fede giovane e viva». Il vicario d’Arabia Paul Hinder racconta la diocesi più grande del Medio Oriente, l’altra faccia di una minoranza troppo spesso data per sconfitta

di Rodolfo Casadei

Qual è la diocesi cattolica del Medio Oriente che conta il maggior numero di fedeli? Nessuna di quelle del Cairo: lì i cristiani sono probabilmente più di un milione ma in grandissima maggioranza copti, cioè fedeli del papa Shenouda III. Allora Beirut, sede del patriarcato maronita e di altre Chiese orientali in comunione con Roma? No. Baghdad? Prima della guerra del 2003 ci vivevano 400 mila caldei e altri cattolici latini e siro-cattolici, ma adesso sono ridotti a meno della metà.

Che ci crediate o no, la circoscrizione ecclesiale mediorientale che ospita la quantità maggiore di fedeli cattolici è il vicariato d’Arabia. Sì, d’Arabia, lo Stato dove ogni religione diversa dall’islam è proibita. Fino a qualche anno fa l’unico record che questo territorio poteva vantare era di essere il più vasto vicariato cattolico del mondo, coi suoi 3,1 milioni di chilometri quadrati occupati da sei Stati: Arabia Saudita appunto, Emirati Arabi Uniti, Oman, Yemen, Qatar e Bahrein. Ma a causa del boom petrolifero e della globalizzazione dell’economia che ha attirato nella regione milioni di immigrati, per lo più asiatici, oggi 2,5 milioni di cattolici vivono nella penisola arabica.

Sono latini per l’80 per cento (l’altro 20 per cento è affiliato alle Chiese orientali, principalmente a quelle maronita, siro-malankarese e siro-malabarese) e le città in cui vive la stragrande maggioranza di loro mostrano skyline imponenti e si chiamano Dubai, Abu Dhabi, Doha e Riyadh. Appartengono a oltre cento nazionalità differenti, ma le principali sono la filippina, l’indiana e la libanese.

A prendersi cura di loro in qualità di vescovo vicario apostolico dal 2005, un cappuccino svizzero di umili origini e dotato di uno spiccato senso dell’umorismo, monsignor Paul Hinder. «Quando fui nominato vescovo ausiliare alla fine del 2003 – racconta a Tempi – un mio confratello vescovo in Europa mi scrisse: “Complimenti vivissimi, ma non ho capito che cosa vai a fare là”. Gli risposi a tono: “Grazie per i complimenti, ma ricordati che la mia diocesi ha più fedeli della tua!”».

Suo padre era un povero contadino di Stehrenberg, nella Svizzera orientale. «Se potesse vedermi oggi, mentre entro ed esco dai palazzi degli sceicchi e dai grattacieli delle grandi compagnie, sono sicuro che esclamerebbe: “Caspita, Paul, quanta carriera hai fatto!”». Ma non sempre c’è da ridere nei territori sotto la competenza di monsignor Hinder. Un vicariato è, nella tradizione giuridica della Chiesa cattolica, una terra di frontiera, dove la Chiesa non può organizzarsi compiutamente.

I fatti confermano la definizione: la settimana scorsa a Riyadh un sacerdote francese e dodici fedeli filippini sono stati arrestati e trattenuti per 24 ore per essere stati scoperti mentre celebravano una Messa in privato, perché in Arabia Saudita ogni espressione religiosa diversa dall’islam è interdetta anche nella sfera privata, che la polizia religiosa ha il diritto di ispezionare per individuare eventuali infrazioni.

Anche negli altri Stati della penisola arabica, dove pure agli immigrati è concessa la libertà di culto all’interno delle mura delle poche chiese esistenti, la possibilità di integrarsi e di ottenere infine la cittadinanza è pari a zero e non solo per gli stranieri di origine cristiana: tutti i lavoratori ospiti sono obbligati a tornare al paese di origine quando scade il loro contratto di lavoro o quando hanno maturato il diritto a un trattamento pensionistico, le eccezioni sono rarissime.

Per questo al Sinodo delle Chiese del Medio Oriente la sua voce è stata ascoltata con grande attenzione: «L’assemblea si è concentrata sui bisogni e sui problemi delle Chiese di antico radicamento afflitte dall’emigrazione e dalla flessione demografica, ma non sarebbe stata completa senza il nostro contributo, quello di una Chiesa giovanissima e pellegrina, permeata di fede viva. Noi rappresentiamo un arricchimento non solo per i lavori del Sinodo, ma per la Chiesa universale: siamo un laboratorio della Chiesa del futuro, che sempre più avrà a che fare con grandi comunità di lavoratori cattolici in movimento per ragioni professionali e spesso insediate in regioni dove i cattolici sono minoranza o inesistenti».

La folta Chiesa pellegrina affidata al vescovo cappuccino mostra una fisionomia unica sia dal punto di vista quantitativo sia da quello qualitativo. Metà circa del gregge soggiorna negli aridi pascoli dell’Arabia Saudita, dove i gruppi di preghiera operano clandestinamente fino a quando non si verificano incidenti come quello di due settimane fa. L’altra metà per vedere soddisfatti i suoi bisogni pastorali ha a disposizione appena 18 parrocchie (per la precisione 7 negli Emirati Arabi Uniti, 4 nell’Oman, 4 nello Yemen, 1 in Qatar, 2 nel Bahrein).

Questo significa che nei giorni festivi migliaia di persone si accalcano nelle chiese e nei locali parrocchiali, creando un affollamento che non ha eguali nel resto del mondo. Diecimila persone ogni Messa «Immaginate una parrocchia dove il venerdì (giorno festivo locale, ndr) o la domenica si succedono dieci Messe in dieci lingue diverse, ciascuna frequentata da 5-10 mila persone. Bisogna organizzare le durate con precisione cronometrica, regolare i flussi in entrata e in uscita dall’edificio, la processione dei fedeli per accostarsi all’Eucarestia e tornare al proprio banco, evitare intasamenti di traffico nelle vie circostanti la chiesa e nel vai e vieni dai parcheggi.

E il catechismo? A Dubai arrivano 6 mila bambini tutti nella stessa giornata, ad Abu Dhabi 4 mila. Non per niente hanno deciso di mandare qui un vescovo svizzero», scherza di nuovo monsignor Hinder, che ha la sua residenza e la sua parrocchia ad Abu Dhabi.

Ma vuole essere preso sul serio quando descrive il modo d’essere dei suoi fedeli: «Preferisco essere vescovo qui che in qualunque altro posto del mondo, compresa la mia patria d’origine, perché qui non devo andare a caccia dei fedeli: sono loro che vengono a cercarmi e a propormi iniziative, e sono io che devo frenarli perché vogliono fare troppo. I nostri laici individuano i bisognosi e li assistono, visitano i detenuti nelle prigioni, mettono in contatto con le ambasciate le lavoratrici domestiche che patiscono abusi da parte di alcuni datori di lavoro, organizzano collette per chi necessita di cure mediche o deve rientrare in patria e non ha i soldi. Io devo vigilare che tutte queste belle iniziative restino sul piano della carità privata e non diventino realtà istituzionali e opere sociali vere e proprie, perché in quel momento cadrebbero inevitabilmente nella rete della sharia».

Le uniche opere sociali ammesse a un’esistenza formale sembrano essere le scuole, ma sono in arrivo problemi: «Negli Emirati abbiamo otto scuole, quattro del vicariato e quattro appartenenti a ordini religiosi, poi ce n’è un’altra nel Bahrein. Per legge una percentuale maggioritaria di studenti deve essere autoctona musulmana. Adesso una nuova legge ci impone di assumere una percentuale fissa dei nostri dipendenti fra gli autoctoni. Che fine farà l’identità delle nostre scuole?».

Le difficoltà sono grandi, ma bisogna ammettere che in tema di tolleranza religiosa l’atteggiamento degli emirati del Golfo è ben diverso da quello dell’Arabia Saudita. «È vero, sfidando una parte dell’opinione pubblica, emiri e sultani dei paesi del vicariato hanno dato il permesso per l’edificazione o il restauro di chiese e parrocchie», spiega monsignor Hinder. «Le motivazioni sono varie: alcuni leader vogliono fare bella figura a livello internazionale dimostrandosi illuminati e aperti, altri hanno studiato in Occidente e si sentono debitori.

Il sultano dell’Oman, criticato all’interno per le sue aperture ai cristiani, ha risposto ai critici: “Ho studiato in Europa e nel luogo in cui sono stato ospitato è stata messa a disposizione una struttura perché ci pregassi come in una moschea. Se gli occidentali mi hanno concesso un posto affinché io potessi praticare la mia religione quando ero a casa loro, è giusto che anch’io conceda degli spazi ai cristiani che sono nostri ospiti perché possano pregare”».

«Parliamo con una sola voce» Le attese del vescovo cappuccino nei confronti del Sinodo sono precise: «Mi aspetto che sia riconosciuto il valore della nostra testimonianza e affrontato il problema della mancanza di comunione fra i cristiani in Oriente. Dietro a cortesi formule di convenienza si nasconde spesso una realtà fatta di gelosie e di concorrenza fra le diverse Chiese. Per esempio c’è chi propone di creare diocesi di varie Chiese orientali entro il territorio del vicariato d’Arabia, che è latino: io non sono d’accordo, perché credo che la Chiesa in questa parte del mondo debba sempre parlare con una sola voce. Dobbiamo essere più cattolici: la nostra testimonianza potrà essere solo il frutto di una comunione vera e profonda. Infine, mi auguro che il Sinodo faccia sentire la sua voce in difesa della dignità di tutti i lavoratori immigrati nei paesi del Medio Oriente, non solo di quelli cristiani. Sono tutti oggetto di discriminazioni e ingiustizie per mano non solo della maggioranza islamica, ma a volte anche di datori di lavoro cristiani».