Cattolicesimo e pena capitale

Cristianità n.340  marzo-aprile 2007

Nell’aprile del 2001, sulla rivista First Things. A Monthly Journal of Religion and Public Life, edita da The Institute on Religion and Public Life, di New York, negli Stati Uniti d’America, veniva pubblicato un saggio di S. Em. il card. Avery Dulles S.J. dal titolo Catholicism & Capital punishment (n. 112, pp. 30-35), versione adattata del testo di una conferenza tenuta dal porporato statunitense nella sede newyorkese della Fordham University, dove ha la Cattedra di Religione e Società, intitolata a Laurence J. McGinley S.J. (1905-1992). Per gentile concessione dell’editore, di tale conferenza viene pubblicata una traduzione redazionale integrale e con il titolo originale. Gl’interventi redazionali — che mirano a uniformarlo agli standard di Cristianità — sono principalmente costituiti dall’inserzione delle note, assenti nel testo originale.

Avery Card. Dulles S.J.

Fra le comunità politiche più grandi del mondo occidentale, gli Stati Uniti d’America sono gli unici a mantenere ancora la pena di morte. Dopo una sospensione di cinque anni — dal 1972 al 1977 —, la pena capitale è stata reintrodotta nei tribunali statunitensi. Obiezioni verso questa pratica si sono levate da molte parti, compresi i vescovi cattolici americani, che hanno espresso ferma opposizione riguardo alla pena di morte. Nel 1980 la Conferenza Episcopale degli Stati Uniti ha pubblicato una dichiarazione — in gran parte negativa — sulla pena capitale, approvata dalla maggioranza dei presenti, non però dalla maggioranza dei due terzi dell’intera Conferenza Episcopale (1).

Papa Giovanni Paolo II (1978-2005) ha espresso più volte la sua opposizione a questa pratica, come hanno fatto anche altri esponenti della gerarchia cattolica in Europa. Alcuni cattolici, andando oltre i vescovi e il Papa, asseriscono che la pena di morte, allo stesso modo dell’aborto e dell’eutanasia, è una violazione del diritto alla vita e una usurpazione da parte degli esseri umani dell’unica signoria di Dio sulla vita e sulla morte. La Dichiarazione d’Indipendenza — chiedono — non ha forse definito il diritto alla vita come «inalienabile» (2)?

Mentre questioni sociologiche e giuridiche spingono alla riflessione su questo tema, il mio approccio all’argomento sarà di tipo teologico. Per questo si deve rispondere alla domanda partendo anzitutto dalla Rivelazione così come ci è pervenuta attraverso la Scrittura e la Tradizione, interpretate sotto la guida del Magistero della Chiesa.

Nell’Antico Testamento la legge mosaica specifica non meno di trentasei peccati gravi punibili con l’esecuzione mediante lapidazione, rogo, decapitazione o strangolamento. Di questa lista fanno parte l’idolatria, la pratica della magia, la bestemmia, la violazione del sabato, l’omicidio, l’adulterio, la bestialità, la pederastia e l’incesto. La pena di morte è stata considerata particolarmente adatta come punizione per l’omicidio poiché nell’alleanza con Noè Dio ha stabilito il principio secondo cui

«chi sparge il sangue dell’uomo

«dall’uomo il suo sangue sarà

sparso, «perché ad immagine di Dio

 «Egli ha fatto l’uomo» (Gen. 9, 6)

In molti casi si vede come Dio giustamente punisce i colpevoli con la morte, com’è successo a Core, Dotan e Abiram (cfr. Nm. 16). In altri casi persone come Daniele e Mardocheo sono intermediari di Dio quando puniscono giustamente i colpevoli con la morte.

Nel Nuovo Testamento il diritto dello Stato di mettere a morte i criminali sembra dato per scontato. Gesù stesso si astiene però dall’usare la forza personalmente. Egli rimprovera i suoi discepoli quando costoro vorrebbero che scendesse il fuoco dal cielo sui samaritani come punizione per la loro mancanza di ospitalità (cfr. Lc. 9, 55). Più tardi ammonisce Pietro di mettere la sua spada nel fodero piuttosto che opporre resistenza (cfr. Mt. 26, 52). Tuttavia, in nessun caso Gesù nega che lo Stato abbia l’autorità d’infliggere la pena capitale.

Nei suoi dibattiti con i farisei, Gesù cita — mostrando approvazione — il severo comandamento secondo cui «chi maledice il padre e la madre sia messo a morte» (Mt. 15, 4; Mc. 7, 10 riferendosi a Es. 21, 7; cfr. Lev. 20, 9). Quando Pilato ricorda a Gesù che ha l’autorità di crocifiggerlo, Gesù precisa che l’autorità di Pilato gli viene dall’alto, cioè da Dio (cfr. Gv. 19, 11). Gesù si compiace delle parole del buon ladrone, crocifisso accanto a lui, quando questi ammette che lui e il suo compagno ricevono la ricompensa dovuta per le loro azioni (cfr. Lc. 23, 41).

I primi cristiani evidentemente non hanno avuto niente contro la pena di morte. Essi approvano la punizione inflitta ad Anania e a Safira quando sono rimproverati da Pietro per la frode commessa (cfr. At. 5, 1-11). La Lettera agli ebrei fa un ragionamento che parte dalla premessa secondo cui «quando qualcuno ha violato la legge di Mosè, viene messo a morte senza pietà sulla parola di due o tre testimoni» (Eb. 10, 28). Paolo ripetutamente si riferisce al legame che vi è fra peccato e morte. Egli scrive ai romani, con un apparente riferimento alla pena di morte, che l’autorità «[…] non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi opera il male» (Rm. 13, 4). Nessun passo del Nuovo Testamento disapprova la pena di morte.

Ritornando alla Tradizione cristiana, possiamo notare che i Padri e i Dottori della Chiesa sono pressoché unanimi nel sostenere la pena capitale, anche se alcuni fra loro — come per esempio sant’Ambrogio (339 ca.-397) — esortano i chierici a non pronunciare sentenze capitali o a servire come esecutori.

Per rispondere all’obiezione che il quinto comandamento proibisce l’uccisione, sant’Agostino (354-430) scrive ne La città di Dio: «Lo stesso magistero divino ha fatto delle eccezioni alla legge di non uccidere. Si eccettuano appunto casi d’individui che Dio ordina di uccidere sia per legge costituita o per espresso comando rivolto temporaneamente a una persona. Non uccide dunque chi deve la prestazione al magistrato. È come la spada che è strumento di chi la usa. Quindi non trasgrediscono affatto il comandamento con cui è stato ingiunto di non uccidere coloro che han fatto la guerra per comando di Dio ovvero, rappresentando la forza del pubblico potere, secondo le sue leggi, cioè a norma di un ordinamento della giusta ragione, han punito i delinquenti con la morte» (3).

Nel Medioevo un certo numero di canonisti insegnava che i tribunali ecclesiastici non dovevano comminare la pena di morte e che i tribunali civili dovevano pronunciarla soltanto per i crimini più gravi. Ma canonisti e teologi più famosi asserivano il diritto dei tribunali civili a emettere la pena di morte per reati molto gravi come l’omicidio o il tradimento. San Tommaso d’Aquino (1225 ca.-1274) e il beato Giovanni Duns Scoto (1265-1308) invocano l’autorità della Scrittura e della Tradizione patristica e portano argomenti di ragione.

Nel conferire autorità magisteriale all’approvazione della pena di morte, Papa Innocenzo III (1198-1216) chiedeva a quei discepoli di Valdo (sec. XII) che cercavano la riconciliazione con la Chiesa di accettare la seguente proposizione: «Per quanto riguarda il potere secolare dichiariamo che può esercitare il giudizio di sangue, senza peccato mortale, purché nel portare la vendetta proceda non per odio ma per atto di giustizia, non in modo incauto, ma con riflessione» (4).

Nel Basso Medioevo e agl’inizi dell’epoca moderna la Santa Sede ha autorizzato l’Inquisizione a consegnare gli eretici al braccio secolare per le esecuzioni. Nei territori pontifici la pena di morte era imposta per diversi reati. Il Catechismo Romano, pubblicato nel 1566, tre anni dopo la conclusione del Concilio di Trento (1542-1563), insegnava che il potere di vita e di morte è stato affidato da Dio alle autorità civili e che l’uso di questo potere, lungi dal comportare il crimine dell’omicidio, è un atto — sia pure estremo — di ubbidienza al quinto comandamento (5).

Nell’epoca moderna, Dottori della Chiesa come san Roberto Bellarmino S.J. (1542-1621) e sant’Alfonso Maria de’ Liguori (1696- 1787) sostenevano che alcuni criminali dovessero essere puniti con la morte. Venerabili autorità come Francisco de Vitoria O.P. (1483- 1546), san Tommaso Moro (1478- 1535) e Francisco Suárez S.J. (1548-1617) erano d’accordo su questo punto.

John Henry Newman (1801-1890), in una lettera a un amico, riteneva che il magistrato ha il diritto di portare la spada, e che la Chiesa deve approvare che la spada sia anche utilizzata, nel senso in cui Mosé, Giosuè e Samuele l’hanno usata contro crimini abominevoli. Per tutta la prima metà del secolo XX, il consenso dei teologi cattolici in favore della pena di morte in casi estremi è rimasto solido, come si può ben vedere da manuali e da voci di enciclopedie di quel tempo.

Lo Stato della Città del Vaticano, dal 1929 fino al 1969, ha avuto un codice penale che prevedeva la pena di morte per chiunque tentasse di assassinare il Papa. Papa Pio XII (1939-1958), in un’importante allocuzione a medici, affermò che era riservato al potere civile il diritto di privare i condannati del beneficio della vita in espiazione dei loro crimini (6).

Sintetizzando il verdetto della Scrittura e della Tradizione, possiamo arrivare ad alcuni punti dottrinali certi. Vi è consenso sul fatto che il crimine meriti punizione in questa vita e non soltanto nell’altra. Inoltre, vi è consenso anche sul fatto che lo Stato detenga l’autorità d’infliggere una pena adeguata a coloro che risultano colpevoli e che questa pena può, in casi seri, includere la morte.

Nonostante questo, come abbiamo visto, un coro crescente di voci fra i cattolici ha espresso obiezioni nei confronti della pena capitale. Alcuni assumono una posizione radicale, secondo cui la pena di morte è sempre sbagliata perché il diritto alla vita è sacro e inviolabile. L’autorevole francescano italiano Gino Concetti, scrivendo su L’Osservatore  Romano nel 1977, ha sostenuto con forza la seguente tesi: «Alla luce della parola di Dio e quindi della fede, la vita, qualunque vita di un essere umano è sacra e intangibile. Quali che siano i crimini, i delitti, le infrazioni che abbia potuto commettere […] non perde il fondamentale diritto alla vita. Perché questo diritto è un diritto primordiale, inviolabile e inalienabile. E perché tale sfugge al potere di chiunque.

«La radicalità di quel diritto e dei suoi attributi deriva all’essere umano da quell’immagine che Dio ha scolpito sin dalla creazione nella natura stessa dell’uomo. Nessuna forza, nessuna violenza, nessuna passione varranno a cancellarla, a distruggerla. Per quella divina immagine l’uomo è una persona, dotato di dignità e di diritti» (7).

Per giustificare questa revisione radicale — si potrebbe parlare persino di un capovolgimento — della dottrina cattolica, padre Concetti e altri spiegano che la Chiesa dai tempi biblici fino a oggi non ha percepito il vero significato dell’immagine di Dio nell’uomo, che implica che persino la vita terrena di ogni singola persona è sacra e inviolabile. Nei secoli passati — si dice — ebrei e cristiani non hanno ragionato secondo le conseguenze di questa dottrina rivelata.

Essi erano prigionieri di una barbara cultura di violenza e di una teoria assolutista del potere politico, tutte e due ereditate dal mondo antico. Ma al giorno d’oggi è sorta una nuova consapevolezza della dignità e dei diritti inalienabili della persona. Quanti riconoscono i segni dei tempi andranno oltre le dottrine ormai superate secondo cui lo Stato ha un potere divino di uccidere e i criminali perdono così i loro diritti umani fondamentali. L’insegnamento sulla pena capitale deve subire oggi uno sviluppo molto consistente che corrisponda a questi nuovi approfondimenti.

La posizione abolizionista è di una semplicità allettante. Ma non è poi così nuova. È stata sostenuta da cristiani non cattolici almeno dal Medioevo in poi. Molti gruppi pacifisti, come i valdesi, i quaccheri, gli hussiti e i mennoniti condividevano questo modo di vedere. Ma, come il pacifismo stesso, questa interpretazione assolutista del diritto alla vita non ha trovato nessuna eco in quel periodo fra i teologi cattolici, che accettavano invece la pena di morte considerandola in piena consonanza con la Scrittura, con la Tradizione e con il diritto naturale.

L’opposizione crescente riguardo alla pena di morte in Europa, dall’illuminismo in poi, è andata di pari passo con il declino della fede nella vita eterna. Nel secolo XIX i sostenitori più tenaci della pena capitale erano le Chiese cristiane, e i suoi oppositori più convinti erano alcuni gruppi ostili alle Chiese. Quando si è cominciato a vedere la morte come il male peggiore invece che come un momento di passaggio sulla via verso la vita eterna, filosofi utilitaristi come Jeremy Bentham (1748-1832) non hanno fatto fatica a squalificare la pena di morte come un’eliminazione del reo che «[…] può non essere di alcuna utilità» (8).

Molti governi europei — e non solo — hanno eliminato la pena di morte nel secolo XX, spesso a fronte di proteste di credenti. Mentre questo cambiamento può essere visto come progresso morale, probabilmente esso è dovuto, in parte, all’affievolimento del senso del peccato, della colpa e della giustizia retributiva, che sono essenziali per la religione biblica e la fede cattolica.

L’abolizione della pena di morte in paesi ex cristiani è dovuta più al laicismo che a una comprensione più profonda del Vangelo. Argomentazioni tratte dal progresso della coscienza etica sono state usate per promuovere presunti diritti dell’uomo, che la Chiesa Cattolica costantemente rifiuta in nome della Scrittura e della Tradizione. Il Magistero si appella a queste autorità come base per respingere il divorzio, l’aborto, i rapporti omossessuali e l’ordinazione delle donne al sacerdozio. Se la Chiesa si sente in dovere di ubbidire alla Scrittura e alla Tradizione su questi temi, sembra incoerente per i cattolici la proclamazione di una «rivoluzione morale» sul tema della pena capitale.

Il Magistero cattolico non propugna — e non l’ha mai fatto — l’abolizione tout court della pena di morte. Non sono a conoscenza di nessuna dichiarazione ufficiale da parte di Papi o di vescovi, né oggi né in passato, che neghi il diritto dello Stato di giustiziare i delinquenti almeno in alcuni casi gravi.

I vescovi statunitensi, nella loro dichiarazione adottata a maggioranza sulla pena capitale, hanno ammesso che «[…] l’insegnamento cattolico ha accettato il principio che lo Stato ha il diritto di uccidere una persona colpevole di un crimine estremamente grave» (9). Il card. Joseph Louis Bernardin (1928-1996), nel suo famoso discorso Etica coerente per la vita, pronunciato alla Fordham University di New York nel 1983, ha affermato di essere d’accordo con la «posizione classica» secondo cui lo Stato ha il diritto d’infliggere la pena capitale (10).

Anche se il card. Bernardin ha sostenuto ciò che egli chiama «a consistent ethic of life», «un’etica coerente per la vita» (11), ha tenuto a precisare che la pena capitale non può essere considerata sullo stesso piano dei crimini dell’aborto, dell’eutanasia e del suicidio. Papa Giovanni Paolo II ha parlato a nome dell’intera Tradizione cattolica quando ha affermato, nell’enciclica Evangelium Vitae, nel 1995, che «[…] l’uccisione diretta e volontaria di un essere umano innocente è sempre gravemente immorale» (12).

Ma egli ha saggiamente incluso in quel pronunciamento la parola «innocente». Non ha mai detto che qualunque criminale ha il diritto di vivere, né ha negato che lo Stato abbia in alcuni casi il diritto di giustiziare i colpevoli. Le autorità cattoliche giustificano il diritto dello Stato a infliggere la pena capitale con il fatto che lo Stato non agisce in base a una sua autorità, ma come intermediario di Dio, che ha potere supremo sulla vita e sulla morte. Nel sostenere ciò giustamente ci si appella alla Scrittura. Paolo ritiene che chi governa è al servizio di Dio per manifestare l’ira divina contro i malfattori (cfr. Rom. 13, 4).

Pietro ammonisce i cristiani a ubbidire ai re e ai governanti, che sono mandati da Dio per punire coloro che operano il male (cfr. 1 Pt. 2, 13-14). Gesù, come abbiamo già fatto notare, apparentemente ha riconosciuto che l’autorità di Pilato sulla sua vita gli veniva da Dio (cfr. Gv. 19, 11).

Papa Pio XII, chiarendo ulteriormente l’argomento classico, ritiene che quando lo Stato, nell’esercizio del suo potere ministeriale, ricorre alla pena di morte, non pretende di essere il padrone della vita umana, ma riconosce soltanto che il criminale, mediante una sorta di suicidio morale, ha privato se stesso del diritto alla vita.

Secondo il Papa, «anche quando si tratta dell’esecuzione capitale d’un condannato a morte, lo Stato non dispone del diritto dell’individuo alla vita. È riservato allora al pubblico potere di privare il condannato del bene della vita, in espiazione del suo fallo, dopo che, col suo crimine, esso si è già spogliato del suo diritto alla vita» (13).

Alla luce di tutto questo, sembra di poter concludere con sicurezza che la pena di morte in sé stessa non costituisce una violazione del diritto alla vita. Il problema reale per i cattolici è stabilire le circostanze in cui questa pena debba essere applicata. È appropriata, mi sento di dire, quando è necessaria per adempiere agli scopi di una vera punizione, e quando non si hanno effetti negativi sproporzionati. Dico «necessaria» perché sono dell’opinione che l’uccisione dovrebbe essere evitata se gli scopi punitivi possono essere ottenuti senza spargimento di sangue.

Gli scopi punitivi in presenza di un crimine sono delineati piuttosto unanimemente nella tradizione cattolica. Si ritiene che la pena abbia diversi fini che possono essere ridotti convenientemente ai seguenti quattro: riabilitazione, difesa dal criminale, deterrenza e retribuzione. Una volta stabilito che la pena ha questi quattro scopi, possiamo ora chiederci se la pena di morte costituisca il mezzo più appropriato o necessario per raggiungerli.

Riabilitazione. La pena capitale non reintegra il criminale nella società, piuttosto lo esclude da qualunque possibilità di riabilitazione. Comunque, la sentenza di morte può e a volte riesce a spingere la persona al pentimento e alla conversione. Vi è una vasto corpus di scritti cristiani sul valore della preghiera e del ministero pastorale verso i condannati a morte in attesa dell’esecuzione o sul patibolo. In casi in cui il criminale sembra incapace di una reintegrazione nella società, la pena di morte può essere un modo per compiere la sua riconciliazione con Dio.

Difesa dal criminale. La pena capitale è evidentemente una modalità sicura per impedire che il malfattore commetta ulteriori crimini, proteggendo così la società. Se l’esecuzione sia necessaria o no, questa è un’altra questione. Senza gran difficoltà, si potrebbe immaginare un caso estremo in cui il fatto stesso che un criminale sia vivo costituisca un pericolo, e che sia probabile che, se non lo si giustizia, in seguito qualcuno lo rilasci o che evada, causando altri danni. Ma, come Papa Giovanni Paolo II fa notare nell’enciclica Evangelium Vitae, nel mondo moderno i miglioramenti del sistema penale hanno fatto sì che sia estremamente raro il dover ricorrere all’esecuzione come all’unico mezzo efficiente per la difesa della società dal criminale.

Deterrenza. Le esecuzioni, specialmente dove sono dolorose, umilianti e pubbliche, possono creare un sentimento di orrore che tratterrebbe altri dal cedere alla tentazione di commettere simili crimini. Ma i Padri della Chiesa hanno condannato gli spettacoli violenti come quelli messi in scena nel Colosseo di Roma. La Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo del Concilio Ecumenico Vaticano II ha esplicitamente disapprovato la mutilazione e la tortura in quanto offese alla dignità umana (14). Oggigiorno la morte è amministrata nel privato con mezzi relativamente indolori come per esempio l’iniezione di sostanze venefiche, e a questo riguardo può essere meno efficace come deterrente. Le analisi sociologiche sull’effetto deterrente della pena di morte come praticata oggi sono ambigue, contradditorie e lontane dall’essere assolutamente certe.

Retribuzione. In linea di principio, la colpa richiede una punizione. Più grave è l’offesa, più severa dovrebbe essere la pena. Nella Sacra Scrittura, come abbiamo visto, la morte è vista come la pena adeguata per alcune gravi trasgressioni. San Tommaso d’Aquino pensava che il peccato comporta la privazione di qualche bene, come, in casi seri, il bene della vita temporale o anche di quella eterna. Accettando la pena di morte, il malfattore si mette in un atteggiamento che gli può consentire di espiare i suoi atti malvagi e di sfuggire alla punizione nell’altra vita.

san Tommaso

Dopo aver fatto notare questo, san Tommaso aggiunge che, anche se il malfattore non fosse pentito, egli beneficia del fatto di essere impedito di commettere altri peccati (15). La retribuzione da parte dello Stato ha i suoi limiti, perché lo Stato, a differenza di Dio, non è né onnisciente né onnipotente. In conformità con la fede cristiana, Dio «renderà a ciascuno secondo le sue opere» al giudizio finale (Rm. 2, 6; cfr. Mt. 16, 27). La retribuzione da parte dello Stato può essere soltanto un’anticipazione simbolica della giustizia perfetta di Dio.

Perché il simbolismo sia autentico, la società deve credere nell’esistenza di un ordine trascendente di giustizia, che lo Stato ha l’obbligo di proteggere. Questo era vero in passato, ma al giorno d’oggi, in genere, lo Stato è visto semplicemente come uno strumento della volontà di chi è governato. In questa prospettiva moderna, la pena di morte esprime non il giudizio divino ma piuttosto l’ira collettiva del gruppo.

Il fine retributivo della pena è frainteso come atto di vendetta attraverso cui lo Stato afferma il suo potere assoluto. Possiamo concludere che la pena di morte riceve valutazioni diverse in relazione a ognuno dei quattro fini della pena. Essa non riabilita il criminale, ma può essere un’occasione perché arrivi al pentimento salutare. È un mezzo efficace, ma raramente necessario per difendere la società dal criminale. Se poi serva a scoraggiare altri dal commettere simili crimini è una questione dibattuta, difficile da risolvere. Il suo valore retributivo è indebolito dalla mancanza di chiarezza sul ruolo dello Stato. Generalmente, quindi, la pena capitale ha alcuni valori limitati, ma sulla sua necessità si può legittimamente obiettare.

Vi è ancora dell’altro da dire. Alcuni autori che hanno riflettuto sulla pena di morte asseriscono che essa, oltre a essere non necessaria e spesso inutile, può essere anche dannosa. Quattro obiezioni serie vengono comunemente menzionate nella letteratura. Vi è anzitutto la possibilità che il condannato sia innocente. John Stuart Mill (1806-1873), nella sua ben nota difesa della pena capitale, considera questa come l’obiezione più seria; nel rispondere, egli mette in guardia dall’imporre la pena di morte se non in casi in cui l’accusato è processato da un tribunale degno di fiducia ed è trovato colpevole oltre ogni ombra di dubbio (16).

È comunemente risaputo che nei processi, alcuni tribunali influenzabili e poco rispettosi delle procedure possono emettere condanne ingiuste. Persino negli Stati Uniti d’America, dove si fanno sforzi considerevoli per arrivare a verdetti giusti, capita di sbagliare, anche se poi molti vengono corretti da corti di appello. Gli avvocati di difesa con poca preparazione e sottopagati spesso non hanno i mezzi per offrire una consulenza legale competente; i testimoni possono essere corrotti o commettere errori in buona fede sui fatti in causa o sull’identità delle persone; le prove possono essere fabbricate o soppresse; e le giurie possono avere pregiudizi o essere incompetenti.

Alcuni condannati a morte sono stati scagionati dalla prova del DNA che è disponibile solo da pochi anni. La Facoltà di Giurisprudenza della Columbia University di New York ha recentemente pubblicato un autorevole rapporto sulla percentuale di errori nelle sentenze capitali dal 1973 al 1995 che si sarebbero potute evitare. Visto che tutto sommato è possibile che alcune persone innocenti siano state giustiziate, questa prima obiezione è seria.

Un’altra obiezione è che, spesso, uno degli effetti della pena di morte è quello di acuire uno smodato desiderio di vendetta piuttosto che soddisfare un autentico zelo per la giustizia. Cedendo a uno spirito perverso di vendetta o a una morbosa attrazione verso quanto è raccapricciante, i tribunali contribuirebbero al degrado della cultura, imitando gli aspetti peggiori dell’Impero Romano nel suo periodo di declino.

Inoltre, dicono i critici, la pena capitale sminuisce il valore della vita. Dando l’impressione che gli esseri umani, a volte, hanno il diritto di uccidere, questo favorisce un atteggiamento incurante verso alcuni mali come l’aborto, il suicidio e l’eutanasia. Questo era un punto importante nei discorsi e negli articoli del card. Bernardin riguardo a quanto egli chiamava «etica coerente per la vita».

Anche se questo argomento può avere qualche validità, tuttavia non se ne deve esagerare la portata. Molte persone che sono fortemente pro-life su argomenti come l’aborto, sostengono la pena di morte, insistendo sull’inconsistenza di un tale approccio, poiché l’innocente e il colpevole non hanno gli stessi diritti.

Infine, alcuni considerano che la pena di morte è incompatibile con l’insegnamento di Gesù sul perdono. L’argomento è, se non altro, complesso, dal momento che le parole di Gesù citate si riferiscono al perdono da parte di individui che hanno subito danni. È veramente lodevole che le vittime rimettano i debiti ai loro debitori, ma tale perdono personale non assolve i colpevoli dai loro obblighi di giustizia. Papa Giovanni Paolo II fa notare che «[…] la riparazione del male e dello scandalo, il risarcimento del torto, la soddisfazione dell’oltraggio sono condizione del perdono» (17).

Il rapporto dello Stato con il criminale non è uguale a quello della vittima con l’assalitore. Governanti e giudici sono responsabili del mantenimento di un ordine pubblico giusto. Il loro primo obbligo è quello verso la giustizia, ma a determinate condizioni essi possono esercitare la clemenza. In un’attenta disamina della materia Papa Pio XII concluse che lo Stato dovrebbe perdonare solo quando si ha la certezza morale che i fini della pena sono stati raggiunti. Se la clemenza fosse accordata a tutti i carcerati, le prigioni sarebbero subito svuotate, ma la società non sarebbe ben servita.

In pratica, allora, un delicato equilibrio fra la giustizia e la pietà dovrebbe essere mantenuto. La responsabilità primaria dello Stato è assicurare la giustizia, anche se esso può a volte temperare la giustizia con la misericordia. La Chiesa invece rappresenta piuttosto la misericordia di Dio. Dando testimonianza con generosità del perdono divino che viene da Gesù Cristo, la Chiesa è deliberatamente indulgente verso i colpevoli, ma anch’essa in certe situazioni deve imporre delle pene.

Nel Codice di Diritto Canonico vi è un libro intero dedicato ai delitti e alle pene (18). Sarebbe chiaramente inappropriato per la Chiesa, come società spirituale, giustiziare i criminali, ma lo Stato è un tipo diverso di società. Non ci si può aspettare che agisca come la Chiesa. Tuttavia, in una società prevalentemente cristiana, lo Stato dovrebbe essere incoraggiato a propendere verso la misericordia, senza che questa violi l’esigenza di giustizia. Ci si chiede a volte se un giudice o un esecutore possa comminare o infliggere la pena di morte con carità.

Mi sembra abbastanza ovvio che i detentori di tali incarichi possano svolgere il loro dovere senza odiare il criminale, ma piuttosto con carità, con rispetto e con compassione. Nel far rispettare la legge, essi possono provare conforto al pensiero che la morte non è il male finale; possono pregare e sperare che il condannato ottenga la vita eterna con Dio. Le quattro obiezioni sono dunque di diverso peso.

La prima, che concerne gli errori giudiziari, è abbastanza forte; la seconda e la terza, riguardando il rischio della vendetta e il concetto di etica coerente della vita, hanno una forza dubbia; la quarta obiezione, che ha a che fare con il perdono, è relativamente debole. Però, messe assieme, le quattro obiezioni potrebbero bastare a suggerire un passo decisivo contro l’uso della pena di morte.

Il Magistero cattolico negli ultimi anni si è espresso sempre più contro la pratica della pena capitale. Papa Giovanni Paolo II nella Evangelium Vitae dichiarava che, «a seguito dell’organizzazione sempre più adeguata dell’istituzione penale»(19), i casi in cui l’esecuzione del reo sarebbe assolutamente necessaria «[…] sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti » (20).

Ancora, a Saint Louis, nel gennaio del 1999, il Papa lanciò un appello perché si arrivasse a un consenso riguardo all’abolizione della pena di morte argomentandola come «nello stesso tempo crudele e inutile» (21). Vescovi di molti paesi hanno parlato allo stesso modo.

I vescovi degli Stati Uniti d’America, da parte loro, avevano già affermato, nella dichiarazione votata a maggioranza nel 1980, che «[…] nelle condizioni della società americana contemporanea le finalità legittime della pena non giustifichino l’imposizione della pena capitale» (22). Da allora in poi sono ripetutamente intervenuti per chiedere clemenza in casi particolari. Come il Papa, i vescovi non respingono la pena capitale come principio, ma dicono che non è giustificabile come praticata oggi negli Stati Uniti d’America. Nell’arrivare a questa conclusione prudente il Magistero non sta rovesciando la dottrina della Chiesa.

La dottrina rimane com’è stata: cioè lo Stato, di principio, ha il diritto d’imporre la pena di morte a persone condannate per crimini molto gravi. Ma la tradizione classica ha ritenuto che lo Stato non dovesse esercitare questo diritto quando gli effetti negativi superano quelli positivi. Quindi il principio stesso lascia aperta la questione se e quando la pena capitale fosse conveniente.

Il Papa e i vescovi, con il loro prudente giudizio, hanno concluso che nella società contemporanea, almeno in paesi come il nostro, la pena di morte non dovrebbe essere chiamata in causa poiché, facendo un confronto, essa fa più male che bene. Io personalmente sostengo questa posizione. In una breve carrellata ho toccato problemi numerosi e complessi. Per mostrare meglio quanto ho cercato di dimostrare, vorrei proporre, come sintesi finale, dieci tesi che sintetizzino la dottrina della Chiesa, così come io la capisco

1. Lo scopo della pena nei tribunali civili è quadruplice: la riabilitazione del reo, la protezione della società da esso, la deterrenza di altri potenziali criminali e la giustizia retributiva.

2. La giusta retribuzione, che cerca di stabilire il giusto ordine delle cose, non deve essere confusa con la vendetta, che è riprovevole.

3. La pena può e deve essere comminata con rispetto e con carità verso la persona punita.

4. La persona che compie il male può meritare la morte. Secondo gli esempi biblici, Dio stesso a volte infligge la pena, altre volte spinge altri a farlo.

5. Individui o gruppi privati non possono arrogarsi il diritto d’infliggere la pena di morte.

6. Lo Stato ha il diritto, di principio, di comminare la pena capitale in casi in cui non vi sono dubbi sulla gravità del delitto e sulla colpevolezza dell’accusato.

7. La pena di morte non dovrebbe essere applicata se i fini della pena sono raggiunti in modo uguale o migliore senza mezzi che comportino lo spargimento di sangue, come la carcerazione.

8. La sentenza di morte può essere sconveniente se comporta effetti negativi considerevoli sulla società, come errori giudiziari, aumento dello spirito di vendetta o mancanza di rispetto verso il valore della vita umana innocente.

9. Le persone che rappresentano la Chiesa in modo speciale, come chierici e religiosi, tenendo conto della loro specifica vocazione, dovrebbero astenersi dal comminare o dall’eseguire la sentenza di morte.

10. I cattolici, nel cercare di formarsi un giudizio sull’opportunità di sostenere la pena di morte come principio generale o in una determinata situazione, dovrebbero prestare attenzione alle indicazioni del Papa e dei vescovi. L’insegnamento cattolico attuale dovrebbe essere compreso, così come anch’io ho cercato di fare, in continuità con la Scrittura e con la Tradizione.

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Note

(1) Cfr. CONFERENZA EPISCOPALE DEGLI USA, Dichiarazione sulla pena di morte, approvata in occasione dell’incontro tenutosi a Washington dal 10 al 13-11-1980; trad. it., in il regnodocumenti. quindicinale di attualità e documenti, anno XXVI, n. 7 (438), del 1°-4-1981, pp. 199-202. La dichiarazione è stata approvata con 145 voti a favore, 31 contrari e 41 astenuti, il più alto numero di astenuti mai registrato. In aggiunta, alcuni vescovi erano assenti dall’assemblea o non si sono astenuti ufficialmente. Così il documento non ha ricevuto la maggioranza dei due terzi dei membri, a quel tempo richiesta per l’approvazione delle dichiarazioni ufficiali. Ma nessun vescovo si è levato a far rilevare l’irregolarità formale.

(2) Cfr. La Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, del 4-7-1776, trad. it. con testo a fronte, a cura di Tiziano Bonazzi, Marsilio, Venezia 1999, pp. 69-85 (pp. 70-71).

(3) SANT’AGOSTINO, De civitate Dei, libro I, 21, trad. it., La città di Dio, vol. I, (Libri I-X), testo latino dell’edizione maurina confrontato con il Corpus Christianorum, introduzione di Agostino Trapè O.S.A. (1915-1987), Robert P. Russel O.S.A. (1910-1985), Sergio Cotta, traduzione di Domenico Gentili, Città Nuova, Roma 1978, p. 63.

(4) INNOCENZO III, Lettera «Eius exemplo» all’arcivescovo di Tarragona, del 18-12-1208, in HEINRICH JOSEPH DOMINICUS DENZINGER S.J. (1819-1883), Enchiridion symbolorum, definitionum et declaratium de rebus fidei et morum, ed. bilingue, a cura di Peter Hünermann S.J., EDB. Edizione Dehoniane Bologna, Bologna 1995, nn. 790-797, pp. 446-451 (n. 795, p. 451).

(5) Cfr. Catechismo Tridentino (Catechismo ad uso dei parroci pubblicato dal Papa S. Pio V per decreto del Concilio di Trento), trad. it. A cura di Tito Sante Centi O.P., Parte terza, Quinto comandamento. Non ammazzare, Eccezioni al quinto comandamento, n. 328, Cantagalli, Siena 2003, pp. 458-459.

(6) Cfr. PIO XII, Discorso ai partecipanti al Io Congresso Internazionale di «Istopatologia del Sistema Nervoso», del 14-9-1952, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. XIV, pp. 317-330; trad. it., in La Civiltà Cattolica, anno 103, vol. IV, quaderno 2456, Roma 18-10-1952, pp. 196-203.

(7) GINO CONCETTI O.F.M., Può ancora ritenersi legittima la pena di morte?, in L’Osservatore Romano. Giornale quotidiano politico religioso, Città del Vaticano 23-1-1977.

(8) JEREMY BENTHAM, The Rationale of Punishment, cap. XII, Capital Punishment Examined, 1775-1777 circa, trad. it, Esame della pena di morte, in MARIANGELA RIPOLI (1958-2004), Il cambiamento possibile: politica e società in Inghilterra tra Settecento e Ottocento, 2a ed. riveduta e ampliata, ECIG. Edizioni Culturali Internazionali Genova, Genova 1997, pp. 125- 136 (p. 128).

(9) CONFERENZA EPISCOPALE DEGLI USA, doc. cit., p. 199.

(10) CARD. JOSEPH LOUIS BERNARDIN, A Consistent Ethic of Life. An American-Catholic Dialogue, Gannon Lecture, Fordham University, del 6-12-1983, in IDEM ET ALII, Consistent Ethic of Life, a cura di Thomas G. Fuechtmann, Sheed & Ward, Kansas City (Missouri) 1988, pp. 1-11 (p. 6).

(11) Ibid., p. 1.

(12) GIOVANNI PAOLO II, Enciclica «Evangelium vitae» sul valore e l’inviolabilità della vita umana, del 23-3-1995, n. 57.

(13) PIO XII, doc. cit., p. 328; trad. it., p. 202.

(14) Cfr. CONCILIO ECUMENICO VATICANO II, Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo «Gaudium et spes», del 7-12-1965, n. 27.

(15) Cfr. SAN TOMMASO D’AQUINO, Summa Thelogiae, II-II, questione 108, articoli 3-4, traduzione e commento a cura dei domenicani italiani, La Somma Teologica, testo latino dell’edizione leonina, vol. XIX, Le altre virtù riconducibili alla giustizia, Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1984, pp. 124-131).

(16) Cfr. JOHN STUART MILL, Capital Punishment, del 21-4-1868, trad. it., La pena capitale. Discorso parlamentare, in M. RIPOLI, op. cit., pp. 157-164.

(17) GIOVANNI PAOLO II, Enciclica «Dives in misericordia» sulla misericordia divina, del 30-11-1980, n. 14.

(18) Cfr. Codice di Diritto Canonico, del 25-1-1983, libro VI, cann. 1311-1399, Testo ufficiale e versione italiana sotto il patrocinio della Pontificia Università Lateranense e della Pontificia Università Salesiana, Unione Editori Cattolici Italiani, terza edizione riveduta, corretta e aumentata, Roma 1997, pp. 911-975.

(19) GIOVANNI PAOLO II, Enciclica «Evangelium vitae» sul valore e l’inviolabilità della vita umana, cit, n. 56.

(20) Ibidem.

(21) IDEM, Omelia durante la Concelebrazione Eucaristica nel «Trans World Dome» di Saint Louis, del 27-1-1999, n. 5, in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, vol. XXII, 1, pp. 265-271 (p. 269).

(22) CONFERENZA EPISCOPALE DEGLI USA, doc. cit., p. 200.