La sinistra è riuscita ad asfissiarsi da sola

Italia Oggi Numero 156 del 4 Luglio 2018

Le masse divennero radicali. E chi guidava il processo, più di Marx, erano Freud e Reich. Fu Augusto Del Noce a capirlo per primo fin dagli anni 70

di Gianfranco Morra

Per spiegare l’ultima e più letale caduta elettorale del Pd può essere utile un articolo dell’altro giorno di Luca Ricolfi, un sociologo dell’Università di Torino lontano dalle ideologie del comunismo e della sinistra. È un ricercatore empirico che ha dedicato i suoi studi alla psicometria: molta statistica, dati empirici, sondaggi liberi da miti e progetti politici.

Ci ha fatto capire, sempre con la massima scientificità, l’attività dei governi, la crisi economica e sociale, il gap tra Nord e Sud. Il suo articolo è stato molto ripreso per la sua espressione del «passaggio del Pd da partito popolare a radicale di massa» come della causa principale della sua crisi e del suo declino: «La sinistra perde non soltanto perché è arrogante, presuntuosa e insincera. Perde anche perché non capisce la società italiana, non è in grado di guardare il mondo senza filtri ideologici, non sa stare fra la gente, ha perso del tutto la capacità di ascoltare e la voglia di intendere».

L’espressione del Pd come partito radicale di massa è ripresa da Ricolfi, ma ha una età considerevole. Fu inventata dal più grande filosofo politico della destra cattolica, Augusto Del Noce, nel 1978. Sappiamo quanto questo filosofo, anche lui torinese e antitetico a Norberto Bobbio, sia stato avversato dalla cultura a senso unico che negli anni Settanta s’era impadronita della scuola e dei mezzi di comunicazione

I comunisti lo snobbavano, mentre i cattolici conciliari lo condannavano come «eretico». Mentre Del Noce espresse una precisa previsione profetica sul futuro della società italiana, che la sinistra stava svuotando dei suoi valori tradizionali, cristiani e liberali. La morale dell’Ottocento fu una laicizzazione di quella cristiana (si pensi a Benedetto Croce), quella del Novecento ne fu invece la dissoluzione: evidente nei risultati dei referendum sul divorzio (1974, 60% di favorevoli) e sull’aborto (1981, 88 % a favore). Le masse popolari non erano più cristiane, ma radicali. E chi guidava la scristianizzazione popolare, più di Marx, erano Freud e ancor più Reich.

L’acutezza di questo grande studioso si espresse non solo nel descrivere la trasformazione del Pci da partito popolare in radicale di massa, ma anche nel capire che questa trasformazione si sarebbe tradotta nel suicidio della categoria più forte dei comunisti, quella di «rivoluzione». Con ciò la sinistra perdeva la sua vocazione di religione atea e salvifica, dimenticava il progetto del «regno di Dio senza Dio», che sostituiva con le «conquiste» del radicalismo: scientismo tecnologico, diritti soggettivi, individualismo amorale.

Bastino poche parole tratte da Il suicidio della rivoluzione (Rusconi, 1978): «L’esito dell’eurocomunismo è quello di trasformarlo in una componente della società borghese. Persa per strada l’utopia rivoluzionaria, si è rovesciato nel suo contrario: anziché affossare la borghesia ne è divenuta una delle sue più salde componenti. Il partito rivoluzionario fornisce l’occasione allo spirito borghese di realizzarsi allo stato puro. Il comunismo di Gramsci è divenuto l’ideologia del consenso comunista all’ordine tecnocratico neocapitalistico». Solo una grande mente come Del Noce poteva prevedere il suicidio del comunismo, proprio mentre il Pci godeva del 31% dei voti e stava per portarli con Enrico Berlinguer al 33%.

Sul piano banale dei comportamenti, la classe dirigente del Pci da decenni era fortemente borghesizzata. A Sesto San Giovanni preferiva ormai Capalbio; nella sua cultura i sacri testi marxisti erano stati sostituiti da psicanalisi e strutturalismo, pensiero debole e decostruzione; il suo linguaggio non era più popolare, ma sofisticato e artificioso. Anche perché, se è vero che in teoria era diventato un partito «radicale di massa», a guardare bene di radicalismo ne aveva molto, ma le masse non c’erano più. Ciò che rimaneva, del vecchio marxismo, era l’atteggiamento sprezzante e il linguaggio esoterico, la presunzione dei mandarini e il loro disprezzo per i «borghesi».

È così accaduto, secondo una indagine post elettorale dell’Istituto Cattaneo, che «il voto per il Pd è divenuto di élite, le masse popolari si sono spostate soprattutto sul M5s, in quanto si è rivolto a settori sociali più marginali e che hanno subito le difficoltà della crisi economica, sfidando la sinistra anche sul piano delle rivendicazioni e promesse materiali».

Radicale, nel senso dei valori tradizionali cancellati e dei diritti soggettivi richiesti (testamento biologico, eutanasia, riforma carceraria, Lgbt, unioni e adozioni civili, jus soli), il Pd lo è diventato. Ma non «di massa», nel senso che ha ottenuto sempre meno voti nelle classi basse e medie, mentre è stato più premiato dalle classi medio-alte.

Il Pd spera di rinascere. Ma i vecchi valori non sono stati sostituiti da nuovi. E per ora non si vede né un leader carismatico, né un modello identitario, né un programma credibile, né un rinnovamento dei quadri, ma solo una superba nostalgia dei tempi felici, accompagnata da reciproche denigrazioni e lotte intestine, condite come sempre dalla consueta saccenteria e moralismo.

Per riprendersi sinora non ha fatto molto. Eppure dire che si sta estinguendo è forse prematuro. Certo questo partito «radicale» che ha perso le «masse» e vaga sperduto ha difficoltà a capire cos’è e ancor più che cosa dovrebbe fare. Tuttavia i sondaggi elettorali non lo danno da buttare, non è Fi all’8,3, né Fd’I al 2,3, è valutato al 19% (il 4 marzo ebbe il 18,7). E in una società «liquida» i mutamenti elettorali, gli abbandoni e i ritorni sono sempre possibili. Anche se per ora il vento soffia sul centrodestra. Per rinascere il Pd dovrà darsi molto da fare e avere tanta pazienza.

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