Ingiustificato il patriottismo costituzionale dei cattolici.

Osservatiorio Internazionale cardinale Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa

Newsletter n.898 del 19 Giugno 2018

Intervista di don Samuele Cecotti al prof. Danilo Castellano nel 70mo anniversario dell’entrata in vigore della Costituzione italiana.

(A cura di Don Samuele Cecotti)

Ricorrono quest’anno, 2018, i 70 anni dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana dell’Italia. Testo elaborato dall’Assemblea Costituente come compromesso parlamentare tra le principali forze politiche del tempo e promulgato dal Capo provvisorio dello Stato avv. Enrico De Nicola il 27 settembre 1947. Entrò in vigore il 1 gennaio 1948.

La Carta costituzionale della Repubblica italiana, per l’importanza giuocata nel riplasmare l’Italia uscita dalla Seconda guerra mondiale sino ad oggi, costituisce oggetto di interesse ben oltre i confini dei soli studi del diritto positivo. Determinante nel mutamento di fondamentali istituti giuridici e della visione comune su persona, famiglia, vita, autorità ecc., la Costituzione repubblicana non può sottrarsi ad un giudizio “cattolico”, ovvero condotto alla luce del diritto naturale classicamente inteso e della Dottrina sociale della Chiesa.

Ne abbiamo parlato con il prof. Danilo Castellano, filosofo del diritto noto a livello internazionale, ordinario di filosofia politica e già Preside della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Udine.

Danilo Castellano,

Professore, quest’anno ricorrono i 70 anni dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana. I cattolici italiani, secondo lei, hanno ragioni per festeggiare?

Ritengo che i cattolici non abbiano motivo alcuno per festeggiare questo anniversario. La Costituzione repubblicana dell’Italia, infatti, è stata (e rimane) la via per l’affermazione della ideologia radicale, vale a dire del liberalismo come Weltanschauung anticattolica.

Uno sguardo critico sulla Costituzione è rarissimo da trovarsi nel dibattito pubblico. Alcune rare critiche da marxisti, altre da liberali per gli aspetti che nel testo costituzionale si discostano dai principi del social-comunismo o del liberalismo. I cattolici sembrano, invece, capaci solo di elogi … la Costituzione del ’48 è allora veramente un testo cattolico?

La Costituzione repubblicana è stata ampiamente criticata. Non solo da coloro che si ispirano alle dottrina de lei citate. Anche da cattolici. Lo dimostra, per esempio, l’interessante volume Costituzione criticata (curato da Francesco Gentile e da Pietro Giuseppe Grasso e pubblicato a Napoli dalle Edizioni Scientifiche Italiane nel 1999). La maggioranza dei cattolici, tuttavia, la esalta. Purtroppo i cattolici contemporanei vanno a rimorchio della cultura egemone (che è loto contraria). Perciò non ricordano nemmeno quanto osservato da loro (un tempo) autorevoli riviste e da pensatori e giuristi che si sono occupati con competenza della questione.

La DC e molta parte dell’intellighentia cattolica hanno presentato sin dal ’48 la Costituzione come documento mirabilmente conforme al Vangelo, quasi traduzione della più schietta Dottrina sociale cattolica. Ci aiuta a capire perché tale giudizio apologetico fu formulato e tuttora in larga parte viene sostenuto?

La sua osservazione è vera. Tuttavia la DC che all’Assemblea costituente votò con entusiasmo il testo della Costituzione, negli anni immediatamente seguenti alla sua entrata in vigore (cioè dal 1948 al 1955) si oppose alla sua applicazione. Basterebbe pensare all’ostruzionismo praticato per l’attivazione della Corte costituzionale. La DC, comunque, porta la responsabilità dell’elaborazione della tesi secondo la quale la Costituzione italiana sarebbe una Costituzione cattolica.

Nell’immediato secondo dopoguerra molti pensarono di poter far leva sul verbo “riconoscere” usato dall’art. 2 Cost, per sostenere la tesi secondo la quale sarebbe stato riconosciuto e recepito il diritto naturale classico. La sentenza n. 98/1979 della Corte costituzionale ha definitivamente chiarito la questione, affermando che i diritti “riconosciuti” da quell’articolo sono quelli e solamente quelli “posti”, anche se interpretabili a fattispecie aperta. Non sarebbe servita questa sentenza per comprendere che il diritto naturale classico è estraneo alla Costituzione.

Questa, infatti, all’articolo 1 invoca e fa propria la sovranità che è quanto di più positivistico ci possa essere; essa, infatti, non può riconoscere né regole né limiti. Va osservato, comunque, che anche la gerarchia cattolica ha usato dopo il 1948 il “mito” della Costituzione cristiana. Pio XII si servì di questo mito per cercare di bloccare il coerente sviluppo della dottrina politica, sociale e giuridica che sta alla base della Costituzione.

Come ho cercato di dimostrare (Cfr. De Christiana Republica, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2004, pp. 15-63) Papa Pacelli si servì di un partito “liberale” (la DC) per impedire l’applicazione della Costituzione liberale (pur mantenendo il “mito” della Costituzione cristiana, funzionale all’operazione). Le conseguenze furono disastrose soprattutto perché le nuove generazioni dei cattolici italiani crebbero alla luce della Weltanschauung costituzionale scambiandola per la dottrina cattolica.

Innanzi all’entusiasmo apologetico per la Costituzione (che ad esempio in un autore come Dossetti assume tratti quasi religiosi) espresso dalla DC e dall’ufficialità cattolica italiana poche furono le voci critiche, una di queste è stata quella del giurista Carlo Francesco D’Agostino. Ce ne potrebbe brevemente parlare?

Carlo Francesco D’Agostino – lei conosce bene le sue tesi, avendo dedicato due monografie al suo pensiero (S. Cecotti, Della legittimità dello Stato italiano, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2012 e Id., Associazionismo aziendale, Cantagallli, Siena 2013) ha avuto il merito di “vedere” sin dagli anni della Costituente che la DC dava (o contribuiva in modo determinante a dare) all’Italia un ordinamento giuridico costituzionale contrario all’ordine naturale e cristiano. Ciò non solo per opera di Dossetti che esplicitamente affermò la chiusura a questo ordine ma anche per scelta di tutti i costituenti eletti con i voti dei cattolici. In quegli anni non era facile vedere l’oggettivo tradimento della dottrina politica cattolica perpetrato dal partito che godeva del voto dei cattolici.

La Costituzione, partorita in sede di Costituente come sintesi tra social-comunisti, laici liberali e cattolici è, come tale, celebrata come esempio di compromesso “alto”. Ma è possibile un compromesso, una sintesi in sede di principi della Dottrina sociale della Chiesa, a cui ogni cattolico dovrebbe ispirare la propria azione sociale e politica, e due ideologie quali la liberale e la marxista?

Mi permetto osservare che l’”alto” compromesso è “interno” alla dottrina liberale. È difficile condividere quanto sto per dire. Se si osservano, però, a fondo le cose si comprende che l’affermazione ha un fondamento. Il marxismo è uno sviluppo del liberalismo. La sua libertà come liberazione postula l’assunzione della “libertà negativa” (vale a dire della libertà esercitata con il solo criterio della libertà, cioè con nessun criterio).

Anche cattolici formatisi all’Università Cattolica condividono questa dottrina, la quale non è cattolica. Basti pensare che il governo De Mita propose una legge (la 223/1990) che stabilisce il diritto soggettivo alla pornografia di Stato. Cosa coerente con la dottrina liberale (e anche con quella marxista) nonché con quella del personalismo contemporaneo. Ciò è dimostrazione che anche i “cattolici” democristiani non erano estranei alla cultura liberale. Il compromesso “alto”, perciò, altro non era che esplicitazione di un’intesa di fondo, nascosta ma sostanziale.

Cosa c’è di cattolico, dunque, nella Costituzione del ’48?

Nulla. Non può essere, infatti, fatto passare per cattolico il singolare personalismo che, come osserva per esempio Livio Paladin (Diritto costituzionale, Cedam, Padova 1998), rappresenta l’opzione fondamentale della Costituzione.

Da ciò si deduce che i deputati democristiani, pur eletti dai cattolici e come cattolici, de facto agirono da liberal—democratici. È corretto quindi affermare che la Costituzione è Testo sintesi tra liberal-democratismo e social-comunismo?

Correttissimo.

Se il punto di sintesi, come sembra e come ha appena accennato anche lei, è rappresentato dalla dottrina del personalismo contemporaneo, ci aiuta a comprenderne la natura? Tale dottrina in cosa differisce dal principio personalista della Dottrina sociale della Chiesa?

Il personalismo contemporaneo è la negazione della dottrina classica della persona, quella – per intenderci – magistralmente espressa da Severino Boezio. Il personalismo contemporaneo, infatti, è una forma di radicale individualismo. Me ne sono occupato a partire dagli anni ’80 per gli aspetti politici e giuridici. Con una pubblicazione di una decina di anni fa (cfr. L’ordine politico giuridico “modulare” del personalismo contemporaneo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2007) ho cercato di dimostrare, considerando i problemi dell’esperienza, che il personalismo contemporaneo postula un ordine “modulare” che alla propria base pone la sola volontà della persona, qualsiasi volontà della persona.

La Chiesa (ma con essa anche il pensiero classico) non può accogliere l’assoluto volontarismo che porta al nichilismo del tempo presente. L’ordine “modulare” postulato dal personalismo contemporaneo è la negazione dell’ordine naturale e cristiano. La priorità della persona, stabilita dalla Costituzione, non è la priorità del diritto naturale sull’ordinamento giuridico positivo, ma la priorità della volontà della persona cui l’ordinamento giuridico positivo è subordinato.

Venendo al dettaglio degli articoli, già l’art. 1 si presenta gravemente problematico affermando come fondamento dell’ordinamento repubblicano il principio di sovranità (popolare). Simile principio e compatibile con una comprensione razionale e una concezione cattolica della politica?

No. Non è compatibile. La sovranità come supremazia (quindi, non come indipendenza, vale a dire come la considera il Diritto internazionale) postula il primato della volontà dell’uomo, una volontà non guidata dalla ragione. È principio luciferino sia che si tratti della volontà dello Stato sia che si tratti della volontà del popolo. Essa scambia – erroneamente – la politica con il potere. Il potere è strumento della politica, non è la politica.

I Costituenti “accolsero” ciecamente le dottrina politiche e giuridiche della Modernità, elaborando il testo della Costituzione. Non furono capaci di uscire dalla e dominare la cultura allora (e tuttora) egemone.

L’affermata sovranità popolare, votata anche dai cattolici deputati, come si può conciliare con la derivazione da Dio dell’autorità temporale (ribadita da Leone XIII), con la regalità sociale di Cristo così come insegnata da Pio XI, con il giusnaturalismo classico-cristiano sempre confermato dal Magistero?

La politica è esercizio della regalità, non della sovranità. Essa è potestas necessaria al bene dell’uomo, al suo bene oggettivo, quello – per essere chiari – inscritto nella sua natura soggettiva. La sovranità rivendica, invece, il diritto all’autodeterminazione assoluta sia individuale sia collettiva (sulla questione è illuminante il lavoro di R. Di Marco, Autodeterminazione e diritto, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2017).

Respinge, pertanto, l’idea stessa di dovere. Le obbligazioni, se ci sono (vale a dire se vengono ammesse), sono solamente quelle “positive”, cioè quelle poste magari attraverso decisioni o scelte condivise. Diventa così impossibile la vita buona. Anzi, diventa impossibile persino la semplice convivenza. Nessuno, infatti, godrebbe della potestas di imporre il rispetto di regole non condivise (l’origine della tesi, come noto, va cercata in Lutero). Nessuno potrebbe legittimamente stabilire qual è la vita buona. Alla radice della sovranità sta l’anarchia, non il diritto come determinazione di ciò che è giusto.

Molti cattolici lodano gli artt. 2 e 3 Cost. come ricezione costituzionale di principi della Dottrina sociale della Chiesa quali la dignità della persona, la sussidiarietà e la solidarietà. La ratio della Carta e la giurisprudenza della Corte Costituzionale consentono una simile lettura?

Gli artt. 2 e 3 Cost. sono stati (e sono) la via per l’affermazione dei “nuovi diritti”, dall’aborto procurato alle “unioni civili”, dalla pornografia di Stato alle DAT. La giurisprudenza della Corte costituzionale è costante e ferma sul punto. Talune interpretazioni ideologiche dell’art. 2 Cost. non reggono. La Pira fece un pellegrinaggio a Loreto quando venne approvato l’art. 2 Cost. Non comprese la portata della prescrizione normativa del testo dell’articolo che egli “lesse” – erroneamente – come cattolico.

Gli artt. 2 e 3 sono stati (e sono) la via percorrendo la quale – come si è appena accennato – si è arrivati ai “nuovo diritti” i quali sono “pretese”. Non pretese giuridiche, ma pretese trasformate in diritti: tutto ciò che la persona (rectius: l’individuo umano) chiede è considerato un suo diritto. Così diventano “diritti”, per esempio, l’autodeterminazione per finalità di comodo, l’assunzione di sostanze stupefacenti per scopi non terapeutici, l’eutanasia e così dicendo.

La dignità, secondo questa concezione, sta nella libertà di realizzare se stessi secondo un progetto qualsiasi. Ne deriva, per esempio, il coerente – anche se assurdo – riconoscimento del “matrimonio omosessuale”, il diritto soggettivo all’incesto (riconosciuto per esempio in Germania), etc.

Nel ’48 il mondo cattolico attribuì alla Carta costituzionale il merito di aver “costituzionalizzato” i Patti Lateranensi con l’art. 7. Fu veramente così? Lo Stato italiano si conservò cattolico come s’era impegnato ad essere alla firma dei Patti?

I Patti Lateranensi non furono costituzionalizzati. Quello che fu costituzionalizzato è il metodo da seguire per la revisione dei rapporti Stato/Chiesa. É di ostacolo, del resto, alla costituzionalizzazione dei Patti Lateranensi l’art. 1 Cost. e il principio di laicità (sia pure all’americana e non alla francese) dell’ordinamento costituzionale, che, secondo la Corte costituzionale, è uno dei due cardini della Repubblica italiana.

L’autorevole costituzionalista Pietro Giuseppe Grasso ha messo in relazione causale Costituzione repubblicana e secolarizzazione in Italia. È tesi che lei condivide e che ha più volte argomentato, ci potrebbe quindi brevemente illustrare la funzione secolarizzatrice esercitata dalla Carta costituzionale?

Pietro Giuseppe Grasso è un lucido costituzionalista contemporaneo, particolarmente attento all’evoluzione fenomenologica del Diritto costituzionale. Da tempo egli denuncia il fatto che la secolarizzazione della società italiana è stata favorita dalla Costituzione (Costituzione e secolarizzazione, Cedam, Padova 2002). Non solo da questa, certamente. Essa, però, ha giuocato un ruolo molto importante, anzi decisivo, in questo processo. Rosmini definirebbe il processo di secolarizzazione come processo di empietà (Frammenti di una storia dell’empietà, Borla, Torino 1968). La secolarizzazione infatti sostituisce ai diritti di Dio i diritti dell’uomo. Particolarmente eloquente per esempio, a questo proposito, è il fatto che il reato di vilipendio alla religione, previsto dal Codice penale italiano, sia stato dalla Corte costituzionale (Sentenza n. 508/2000) mantenuto ma solamente in quanto offensivo del sentimento religioso individuale, non quale offesa a Dio. Per la qual cosa è reato l’offesa al sentimento di un “fedele” della religione satanista al pari del vilipendio della religione cristiana.

Leggi ingiuste, illegittime perché contrarie al diritto naturale sono state giudicate – lo ha sottolineato anche lei – perfettamente conformi alla Costituzione anzi, spesso, sono state ritenute necessarie attuazioni dei principi costituzionali. Così per la Consulta divorzio, aborto procurato, rettifica chirurgica (e anagrafica) di sesso, pornografia, etc….sono costituzionalmente legittimi, veri e propri diritti. L’arcivescovo Crepaldi, prendendo atto del radicale pervertimento del diritto in molte leggi positive della Repubblica con il male elevato a diritto, indicava, in più d’una occasione, l’orizzonte costituzionale come quello adeguato alle battaglie pro-vita e pro-famiglia. Mons. Crepaldi riconosceva così la necessità che le battaglie per leggi conformi ai principi non negoziabili passassero dal piano ordinario a quello costituzionale. È la Costituzione a dover essere modificata per poter vedere tutelate vita e famiglia in Italia. Concorda?

Mons. Crepaldi in occasione dell’approvazione della legge sulle DAT ha rilasciato una Dichiarazione coraggiosa, da autentico pastore. Va sottolineata, a questo proposito, la chiarezza del suo magistero sul piano morale. Più complicata è la questione sul piano politico e giuridico. Innanzitutto perché la Costituzione repubblicana in vigore non può essere invocata a difesa e garanzia di valori oggettivi; essa, infatti, tutela i valori come opzioni dell’individuo e dei gruppi sociali.

Per la qual cosa è convinzione illusoria – propria di diversi movimenti e di taluni circoli – quella di potere appellarsi alla Legge fondamentale della Repubblica per difendere il “minimo” che resta da difendere. Secondariamente, perché ogni battaglia di “contenimento” è in prospettiva inutile (non riesce ad eliminare l’effetto dell’onda distruttrice dell’ordine morale naturale in atto) e dannosa (rischia di creare il convincimento – erroneo – secondo il quale la Costituzione, almeno in parte, sarebbe da salvare)

La Costituzione va radicalmente modificata, anzi sostituita. Non è impresa facile e, oggi, nemmeno forse opportuna se si considera la cultura egemone e gli orientamenti di fondo condivisi dalla maggioranza e dagli stessi cattolici. La Costituzione ha bisogno di convincimenti profondi e diffusi, conformi all’ordine dell’essenza dell’uomo e delle società naturali.

Il passaggio dalla normativa a difesa della vita, della famiglia e via dicendo dal livello ordinario a quello costituzionale è attualmente praticamente impossibile. Ciò non significa che si debba rinunciare all’impegno. Questo avrà successo, però, nella misura in cui sarà stato strategicamente preparato. In altre parole, usando il linguaggio militare, la tattica è un momento della strategia, non viceversa. Difendere, per esempio, la vita o la famiglia è possibile solamente in un quadro culturale ed ordinamentale coerente e, soprattutto, fondato, vale a dire non lasciato né in balia di momentanei capricci né affidato alle soggettive opzioni (opto perché opto), le quali non consentono di raggiungere le ragioni delle scelte e di giustificarle con argomenti razionali.

Quale dovrebbe essere, a suo giudizio, la posizione dei cattolici davanti alla Costituzione? Quali esigenze di emendazione della Carta dovrebbero avanzare i cittadini cattolici?

Innanzitutto i cattolici (come gli italiani) dovrebbero conoscere la Costituzione per concetti. Intendo dire che non dovrebbero assumerla come se fosse il Vangelo (qualcuno – Renzi per esempio – l’ha recentemente anteposta al Vangelo). Essa va conosciuta non solo nella parte prescrittiva (oggi è difficile anche questa conoscenza, essendosi affermata la dottrina ermeneutica secondo la quale le norme costituzionali sono il materiale di base per la costruzione della prescrizione).

La stessa parte prescrittiva non sarebbe adeguatamente comprensibile in difetto della conoscenza dei presupposti teorici (o teoretici) della Legge fondamentale. La Costituzione, perciò, va conosciuta innanzitutto sotto il profilo “giustificativo” dei suoi dogmi e dei suoi istituti. Se fosse conosciuta sotto questo profilo difficilmente potrebbero essere sostenute tesi (riproposizione del dossettismo) secondo le quali l’art. 2 Cost. segnerebbe una priorità del diritto sulla legge e, più in generale, il costituzionalismo (moderno) segnerebbe la priorità dell’ordine naturale preesistente ad ogni ordinamento giuridico positivo sull’ordinamento giuridico positivo medesimo.

Suggerimenti in tal senso vengono da fonte autorevole. Paolo Grossi, per esempio, ha riproposto queste indicazioni in un recente (ed interessante) lavoro (cfr. L’invenzione del diritto, Laterza, Roma-Bari 2016), il quale sembra ignorare (di fatto, comunque, va contro) la giurisprudenza della Corte costituzionale di cui egli è stato presidente.

I cattolici non possono continuare a ripetere acriticamente i luoghi comuni della dottrina liberale. La loro vocazione a servire la verità li impegna a riconsiderare la questione in profondità. Per poter parlare, infatti, di bene comune è necessario conoscere il bene che le teorie liberali circoscrivono entro la sfera privata e, quindi, riducono a mera opinione.