Non è vero che tutto è già scritto. Ecco la conferma di cio

test_geneticiAvvenire, editoriale del 27 luglio 2010

Un rapporto governativo Usa sui test genetici fa luce su favole e affari  

di Giacomo Samek Lodovici

Ieri, meritoriamente, «Repubblica» ha dedicato molto spazio ai risultati di un rapporto del Government accountability office (Gao), un organismo governativo americano che ha smentito impietosamente l’attendibilità dei test genetici per conoscere il rischio di contrarre una malattia che ha componenti genetiche.

La Gao ha inviato un campione di Dna dello stesso soggetto a diversi laboratori ottenendo risultati contraddittori ed ha poi mandato dei campioni di altri soggetti, di nuovo ricevendo previsioni molto contrastanti. È emerso che questi test non sono per nulla affidabili e, a volte, procurano angoscia e terrore per previsioni infauste (per esempio di cancro) ma assolutamente infondate.

Tutto ciò a caro prezzo: negli Stati Uniti il costo dei test oscilla tra i 300 ed i 1000 dollari ed il business di questo mercato dev’essere davvero cospicuo, visto che esso spende ogni anno tre miliardi dollari per farsi pubblicità; senza contare, ovviamente, prospettare la spada di Damocle di una malattia è il modo migliore per vendere farmaci.

Le contraddizioni dei referti dipendono da molte cause: dal modo di interpretare i dati, dalla storia sanitaria familiare dei soggetti, dall’etnia di appartenenza (che determina una differente vulnerabilità alle patologie) e così via. Oltre a ciò, sull’insorgere di una malattia incidono anche le condizioni psichiche del soggetto, in forza di quella profonda unità che (a dispetto di tanti dualismi) caratterizza psiche e corpo. Inoltre, come ha detto Francesco Cavalli Sforza – filosofo nonché divulgatore nel campo della genetica, intervistato dal quotidiano romano –, anche quando le malattie hanno una forte causa ereditaria sono comunque connesse a fattori ambientali ed alla storia individuale della persona.

Così, per Cavalli Sforza, «nessun uomo è figlio solo dei suoi geni», il nostro destino non è scritto nel Dna. Con le debite specificazioni, lo stesso discorso si potrebbe ripetere – lo ha fatto per esempio il neuroscienziato Filippo Tempia in un’intervista su «Avvenire» del 9 giugno – in merito all’influsso del cervello sul nostro comportamento.

Tornando alla questione genetica, preme sottolineare il tema della libertà perché sentiamo non di rado parlare del “gene della violenza”, del “gene del tradimento”, eccetera. Questi discorsi affermano che tutto il nostro agire è scritto nei geni, negano la libertà umana e quindi cancellano la nostra responsabilità morale (ed in fondo anche giuridica). Tuttavia, con buona pace dei tentativi di dimostrare che l’uomo è una macchina, non è possibile ridurre l’essere umano alla sola componente biologica, perché noi siamo costituiti anche da una dimensione spirituale, quell’anima di cui parlano già alcuni filosofi greci prima del cristianesimo.

Per dimostrarne l’esistenza  esistono diversi argomenti filosofici, che il lettore può ricostruire anche su alcuni manuali di storia del pensiero. Insomma, il nostro Dna può implicare delle predisposizioni, dei tratti caratteriali e temperamentali, ma, nondimeno, grazie allo spirito siamo in grado, almeno in una certa misura, di trascendere i condizionamenti, possiamo sperimentare la vertigine della libertà, siamo capaci di interrompere la prevedibilità e l’inderogabilità dei nessi fisici di causa-effetto e di dare inizio a qualcosa di nuovo.

Come ha scritto la filosofa Hanna Arendt, agire significa incominciare e l’inizio dell’uomo «non è come l’inizio del mondo, non è l’inizio di qualcosa bensì di qualcuno, che è a sua volta un iniziatore».