L’indipendenza del lavoro

CSEO documentazione
(mensile del Centro Studi Europa Orientale)
n. 164/165 settembre – ottobre 1981

di Józef Tischner

Solidarnosc_Danzica

(Omelia pronunciata a Danzica, il 6 settembre 1981, secondo giorno del congresso di «Solidarnosc», durante la messa al campo. Questo testo è stato riconosciuto dai delegati come documento ufficiale del Congresso).

Un avvenimento come questo da noi non c’era mai stato prima. In che cosa consiste l’eccezionaiità di questo incontro? Non è facile rispondere a questa domanda. Tutti ci rendiamo conto che qui c’è un luogo storico, c’è un anniversario storico, c’è qualcosa che si sta costruendo, c’è la Polonia.

Ma che cosa c’è di straordinario in questo? Penso che si tocchi il nocciolo della questione se dico: è la prima volta nella nostra storia che ci siamo messi a fare su scala così vasta un lavoro sul lavoro. Sì, forse è proprio questo che ci interessa: fare un lavoro sul lavoro.

In queste proporzioni finora la cosa non era mai avvenuta. Finora l’attenzione dei Polacchi si era concentrata più che altro sulla domanda: cosa fare perché la Polonia sia una nazione indipendente? Cosa fare perché ci sia più pane? Cosa fare perché ci siano più libri? Oggi la situazione è diversa. No, non si può dire che la domanda «che fare?» non sia attuale. Il cosa fare è questione importante anche oggi. Ma oggi in primo piano è balzata la domanda: «come fare?». Il nostro problema è diventato la qualità del lavoro. Diciamo ancora più esattamente: il problema è diventato la cultura del lavoro. Il nostro incontro di oggi deve essere visto come un grande avvenimento nella storia della cultura polacca del lavoro.

Infatti dobbiamo ricordare in primo luogo che il lavoro dell’uomo ha la sua propria storia. Noi lavoriamo in un modo diverso da quello in cui hanno lavorato i nostri padri. Un tempo si arava la terra con un chiodo infisso all’estremità di un bastone, poi è venuto l’aratro. Un tempo l’aratore era aiutato dal cavallo, oggi lavora con le macchine. La storia del lavoro è la storia degli strumenti di lavoro. Ma non è solo questo.

La storia del lavoro è costruita anche dai rapporti di reciprocità tra gli uomini che il lavoro in un modo o nell’altro istituisce. È importante con chi si lavora. Una volta il padre lavorava col figlio, con la famiglia, oggi la comunità si è allargata. La reciprocità ha superato i confini del villaggio, della città, dello stato. Io non so chi ha fatto la penna che porto in tasca. Chiunque l’abbia fatta partecipa al mio lavoro, è mio collaboratore. Io sono un anello di un’enorme catena. È dunque così che cambiano gli strumenti di lavoro e si allarga la reciprocità. Il lavoro è come un fiume che cresce a mano a mano che accoglie l’acqua degli affluenti.

Non siamo lontani dalla foce della Vistola. La Vistola raccoglie le acque della maggior parte dei fiumi polacchi. Il nostro Congresso raccoglie oggi in un sol corso le varie correnti del lavoro polacco e vuole guardarle bene in faccia. Vuole capire questo lavoro polacco, definirlo, coglierne la sostanza allo scopo di potere, per questa via, intraprendere l’opera — la prima opera nella storia polacca — del lavoro sul lavoro.

Per iniziare bene quest’opera è necessario che di essa abbiamo una visione come dall’alto, dalle vette dei monti Tatra dove anche le acque della Vistola hanno inizio. È la stessa liturgia della messa che ci invita a fare questo. Tra poco all’offertone ascolteremo queste parole: «Benedetto sei Tu, Signore, Dio dell’universo, dalla Tua bontà abbiamo ricevuto questo pane, frutto della terra e del lavoro dell’uomo, lo presentiamo a Te». Così per il vino: «Abbiamo ricevuto questo vino, frutto della vite e del lavoro dell’uomo…». Questo pane e questo vino diventeranno tra poco il corpo e il sangue del Figlio di Dio.

Ciò ha un senso profondo. Ecco che qui si svela davanti a noi quello che è l’orizzonte ultimo del lavoro. Se non ci fosse il lavoro umano non ci sarebbero né il pane né il vino. Se non ci fossero il pane e il vino, non ci sarebbe tra noi il Figlio dell’Uomo. Dio non viene a noi attraverso le opere della natura, non Lo incontriamo in alberi sacri, in boschetti sacri, nel fuoco sacro. Dio viene a noi attraverso le prime opere della cultura, il pane e il vino. Il lavoro che crea il pane e il vino è costruzione della via di Dio.

Ma anche ogni altro lavoro partecipa a questa costruzione. Anche il nostro lavoro. In questo modo il nostro lavoro, il lavoro di ciascuno di noi, risulta un costruire la via di Dio.

La Vistola porta qui anche l’acqua dei Taira. E sui Tatra l’acqua, come sappiamo, è più vicina al cielo. L’acqua dei Tatra è pura. Nell’acqua pura si riflette il cielo. Lo specifico del lavoro polacco è stato ed è che in esso più di una volta si è riflesso il cielo. Dio ha benedetto il lavoro polacco. Infatti il lavoro polacco è stato ed è la via polacca a Dio. Questo riflesso ci deve essere caro e dobbiamo proteggerlo come la luce degli occhi. È infatti questo riflesso che da il senso più profondo al lavoro umano. Senza di esso uno può perdere la coscienza del senso del proprio lavoro. Può perdere anche il sentimento del suo essere polacco.

Ma non si tratta soltanto di una reciprocità tra le persone. Si tratta anche di una reciprocità con Dio che, operando con la grazia, santifica il mondo.

Da queste vette bisogna guardare al nostro quotidiano. Il lavoro polacco è malato. È proprio per questo che siamo qui, perché il lavoro polacco è malato. È grande come la Vistola, ma, come la Vistola, è inquinato. Oggi poniamo la domanda: perché è ammalato? Non è facile rispondere a questa domanda, ma certi fatti li conoscono tutti. Il lavoro in Polonia, invece di approfondire la reciprocità, invece di costituire la piattaforma di una comprensione tra uomo e uomo, è diventato una piattaforma di incomprensioni, di conflitti, perfino di tradimenti.

Le acque della Vistola sono sporche. Le acque della Vistola sono anche insanguinate. Siamo qui per purificare le acque della Vistola. Lavoriamo sul lavoro affinchè il lavoro diventi nuovamente la base della comprensione, dell’accordo, della pace. La nostra preoccupazione è l’indipendenza del lavoro polacco.

La parola «indipendenza» va intesa nel modo giusto. Non si tratta di separarsi dagli altri. Non si tratta di mettersi al di sopra degli altri. Il lavoro è reciprocità, è comprensione, è indipendenza multilaterale. Il lavoro crea una comunione, ma in questa comunione e reciprocità ciascuno deve rimanere se stesso: il fabbro fabbro, l’insegnante insegnante, l’operaio dei cantieri operaio dei cantieri. Essere indipendente significa essere se stesso. È lo sviluppo stesso della cultura del lavoro che esige l’indipendenza.

Il lavoro polacco è, nonostante tutto, indipendente. Il lavoro è indipendente quando porta frutti tali da non poter essere falsificati. Un frutto del lavoro indipendente polacco furono le opere dei poeti romantici: Mickiewicz, Slowacki, Norwid, Krasiriski. Frutto del lavoro indipendente polacco è l’enciclica, che è anche un’opera dell’umanesimo europeo, di Giovanni Paolo II Redemptor Hominis. Uno di questi frutti è l’opera di Czeslaw Milosz. Lo è anche il movimento sociale «Solidarnosc». E gli esempi potrebbero essere moltiplicati.

Meditiamo anche sulla questione dell’indipendenza della Polonia. Tale questione ha oggi un senso diverso da quello che aveva nel secolo XIX. La chiave dell’indipendenza della Polonia oggi è il lavoro che si fa sul lavoro. È la riflessione sul problema della cultura del lavoro. La chiave dell’indipendenza è oggi l’indipendenza del lavoro polacco.

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Ieri, mentre ero seduto in mezzo a voi nella cattedrale di Oliva e ascoltavo le parole che il Primate di Polonia ci diceva sulla patria, mi è tornata alla mente una vecchia storia. Questa: dopo il fallimento dell’insurrezione di novembre, alcune decine di disgraziati si ritrovarono sul selciato di Parigi, sconfitti, divisi, senza speranza di poter tornare a casa. La Francia offrì loro un riparo per compassione. Sembrava che dovessero essere condannati a una morte lenta. Questi uomini incominciarono là il loro lavoro. Dicevano orgogliosamente di sé: «noi siamo la storia viva». E la storia diede loro ragione.

Infatti tutto passa, ma il lavoro dura. Dura perché è frutto di una reciprocità. Mi sembra di avere anch’io il diritto di ripetere oggi queste parole. Sappiamo quanto sia difficile. Sappiamo quanto i tempi siano oscuri. Conosciamo tutti i fantasmi della notte e le grida del giorno. Ma a quei tempi la situazione era ancora difficile. La forza era contro di loro. Tutte le forze dell’Europa erano contro. Eppure essi ebbero ragione. Infatti nella storia non conta chi ha la forza, ma chi ha la ragione. Il lavoro scorre come un fiume. Il fiume, soprattutto il fiume polacco, raggiunge sempre il proprio mare.

Perciò: noi siamo la storia viva.

Viva, cioè feconda di frutti.

Cristo ha detto: «Lasciate che i morti seppelliscano i loro morti». E allora: lasciamo. Occupiamoci del portare frutti.

Che l’acqua della Vistola polacca diventi pura e indipendente, come l’acqua dei Cinque Stagni Polacchi sui monti Tatra.

da Tygodnik Powszechny n. 38, 20 settembre 1981